Melania Mazzucco: «Il limbo? L’essenza stessa della natura umana».
La soldatessa Manuela Paris è la protagonista di “Limbo” (Einaudi, pp. 476 euro 20) il nuovo romanzo della scrittrice Melania Mazzucco, diverse volte finalista e infine, vincitrice del prestigioso premio Strega nel 2003 con “Vita”. Manuela, maresciallo sottoufficiale degli alpini, è una donna inquieta come tutte le protagoniste che la scrittrice romana pone al centro dei suoi romanzi tanto che sarà il rientro dal fronte afghano, il suo ritorno alla normalità, a rivelarsi davvero arduo, snervante persino. La Mazzucco – in libreria anche con la tenera fiaba “Il bassotto e la regina” (Einaudi, pp. 101 euro 10) – anche questa volta ha scelto di immedesimarsi nel migliore dei modi con la sua protagonista e per farlo ha imparato ad usare il fucile d’ordinanza e ha marciato con tredici chili di zavorra nello zaino. Ma soprattutto dimostra sulla pagina un grande controllo della narrazione, riuscendo a far piombare anche il lettore nel limbo esistenziale che, in fin dei conti, «è l’essenza stessa della natura umana».
Aveva già scritto dell’Afghanistan in Lei così amata. Cosa la affascina di questo paese tanto da volerci tornare con l’immaginazione?
«Il suo isolamento e la sua alterità. Per motivi geografici e storici, l’Afghanistan è rimasto chiuso al contatto col mondo occidentale. In Europa per secoli dell’Afghanistan si conoscevano solo i cammelli e i lapislazzuli. Viceversa, dopo che gli ultimi discendenti di Alessandro Magno si erano dispersi tra le pianure e le montagne afghane, nessun europeo, salvo qualche mercante di gioie, aveva viaggiato in quelle contrade. Così in Afghanistan il tempo si è interrotto, cristallizzato in quello che era ormai il passato del mondo. Niente modernità, niente strade, niente notizie, niente scambi. E l’incontro con la cosiddetta civiltà europea non poteva essere indolore. Oggi anche noi italiani facciamo parte del ‘grande gioco’: mai conquistato e mai sottomesso, l’Afghanistan ci interroga e ci costringe a chiederci da che parte stiamo».
Manuela non è una donna soldato ma una donna militare, una condizione nuova, un tempo inimmaginabile. Perché ha scelto lei come protagonista?
«Perché Manuela è appunto una donna del XXI secolo, una donna proiettata verso il futuro, e il suo personaggio mi offriva la possibilità di raccontare qualcosa che la letteratura ancora non ha mai raccontato. Perché gli occhi di una donna portano al racconto di guerra una prospettiva inaudita – e modificano la guerra stessa. Perché da bambina, Annemarie Schwarzenbach, la protagonista realmente vissuta del mio romanzo Lei così amata, da grande non voleva fare la scrittrice – come poi fece – ma il generale. All’inizio del Novecento, la società rise del suo sogno. Le ragazze come Manuela potranno realizzarlo».
La condizione di sospensione, di inerte attesa del limbo è quella in cui piomba Manuela al suo ritorno a Ladispoli?
«Elsa Morante, una scrittrice che amo molto, scelse come dedica per il suo romanzo L’isola di Arturo una poesia il cui ultimo verso recita: “fuori del limbo / non v’è eliso”. Ma il Limbo, come tutti gli italiani ricordano grazie a Dante, è un luogo, in cui scontano l’eternità coloro a cui, pur senza colpa, sarà negato il Paradiso. È dunque anche una condizione esistenziale, diciamo di felicità precaria, limitata, terrena. È la condizione umana per eccellenza».
Come si è documentata per descrivere le pagine della missione e dell’addestramento?
«Come faccio sempre quando scrivo un romanzo. Investigo, leggo, ascolto, incontro persone, faccio domande, provo a immedesimarmi nella vita dei miei protagonisti. Mi alleno, come se dovessi superare le prove cui si sottopone Manuela per entrare in Accademia. Studio il manuale di istruzioni del fucile AR 70/90. Indosso tredici chili di zavorra, e cerco di capire cosa vuol dire per una donna militare uscire di notte di pattuglia, che so, con un peso simile addosso. Insomma, cerco la verità, quella che una volta ho chiamato “la sconosciuta filologia della vita quotidiana”. Ho bisogno da un lato di immaginare liberamente, dall’altro di documentarmi».
Per rendere la storia d’amore del libro ha creato un parallelo con la figura del ragno cammello. Perché?
«Una leggenda orientale dice che se ti punge il ragno-cammello, un enorme ragno che vive nei deserti afghani, ti ruba l’ombra, cioè l’anima. Il personaggio di Mattia ha subito la stessa sorte: non ha più ombra, non ha più storia. Manuela si chiede come si possa amare un uomo senz’ombra, e se si possa esserne amati».
La guerra in Afghanistan viene definita spesso invisibile mediaticamente. Combatterla può essere ancor di più un’esperienza alienante?
«Suppongo che l’esperienza alienante sia rappresentare un paese che non ha fiducia in te. E che non crede in ciò che fai, nelle ragioni per cui lo fai, e ti rispetta solo quando hai pagato il prezzo più alto. Molti italiani che rappresentano le istituzioni, e non solo i soldati, si trovano in questa situazione. Gli italiani fin dall’Unità hanno un rapporto conflittuale con lo Stato – e con chi lo rappresenta».
Un giorno crede che riuscirà finalmente ad andare in Afghanistan?
«Andrò in Afghanistan quando non ci saranno più bombe né insorti né carri armati né guerra né nemici. Quando sarà un paese libero. La libertà può significare molte cose. Ma io intendo la libertà di pensare, esprimere opinioni senza essere uccisi per questo, libertà di scrivere, di non rinnegare la propria identità, di lavorare, di guidare un’automobile, di parlare con chiunque e andare ovunque senza sembrare una provocazione vivente, una minaccia o una spia. Senza queste libertà essenziali e non negoziabili, per me non ci sono le condizioni per affrontare un viaggio, qualunque ne sia la meta».
Francesco Musolino®
Fonte: La Gazzetta del Sud
Pubblicato il 2013/10/13, in Interviste con tag afghanistan, amata, Annemarie Schwarzenbach, bassotto, cammello, einaudi, limbo, Manuela, Manuela Paris, mazzucco, Melania Mazzucco, paris, ragno, regina, scrittura. Aggiungi il permalink ai segnalibri. Lascia un commento.
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