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Fra Caravaggio e la vendetta spietata. Il ritorno di Lisa Hilton, aspettando “Ultima”.
DOMINA, LISA HILTON, LONGANESI pp.416 EURO 16,90
FRANCESCO MUSOLINO
Bionda, occhi cerulei, una laurea in Storia dell’arte ad Oxford e un talento per la scrittura che mescola adrenalina e ambientazioni suggestive, ironizzando sull’ego dei nuovi ricchi e concedendosi venature d’eros. La scrittrice inglese Lisa Hilton parla perfettamente l’italiano e con il suo libro d’esordio, Maestra (Longanesi), ha venduto un milione nel mondo, tradotta in quarantadue paesi e destinata a sbarcare in tv con una serie prodotta da Amazon Studios. Con il secondo capitolo della sua trilogia, Domina riporta al centro della scena la sua eroina Judith Rashleigh, una donna bellissima, fiera e altamente pericolosa, disposta a seminare cadaveri sul proprio cammino per prendersi ciò che la vita le ha negato. Dimenticate le protagoniste remissive alla Rossella O’Hara perché Judith non crede nell’amore, considera i sentimenti un mero impedimento e rivendica il diritto di concedersi il piacere carnale senza alcun senso di colpa. Nelle primissime pagine di Domina, Judith ha provato a cambiare identità e ha aperto una piccola galleria d’arte nella sua amata Venezia – in cui la Hilton progetta di trasferirsi presto, con la figlia adolescente – cogliendone le sfumature di luce, incensandone la bellezza decadente. Occasione perfetta soprattutto per mettere all’indice il mondo dell’arte moderna e l’idea che si possa decidere a tavolino chi sarà il prossimo artista che il pubblico adorerà, immolando le emozioni dinnanzi al portafoglio. Ma la Hilton non crede nel lieto fine e nel giro di poche pagine quel mondo dorato e intoccabile, andrà in frantumi, ridotto in polvere e pulviscoli proprio alla stregua di un vetro di Murano. La trappola scatta con le sembianze di un ricco oligarca, Pavel Yermolov, che convoca Lisa per sottoporle la sua maestosa collezione e ottenere una valutazione; abbagliata dall’offerta e dalla possibilità di posare i propri occhi su alcune opere inestimabili, Judith vacilla e troppo tardi si renderà conto di essere finita in una trappola fatale. Centrale, come detto, è il contesto delle case d’asta e del mondo dell’arte tout-court e se nel primo libro l’artista di riferimento era Artemisia Gentileschi, stavolta al centro della scena troviamo Caravaggio, cogliendo sia i lati oscuri della biografia che le suggestioni per il presunto ritrovamento di una sua opera inedita, scatenando una adrenalinica battaglia fatta di mosse e contromosse, depistaggi e abboccamenti, destinata a lasciare sul campo altre vittime, più o meno colpevoli. Come andrà a finire? Presto per dirlo, ma la Hilton ha appena annunciato che la prossima primavera sarà pubblicato anche il terzo volume, Ultima, ambientato in parte in Calabria, decisa a “raccontare l’Italia da un punto di vista non convenzionale”, lasciandosi ispirare dalla controversa vita di Paul Gauguin.
FONTE: IL MESSAGGERO, 2017
“Il crepuscolo degli chef” di Paolini. Il lato oscuro del voyuerismo gastronomico.
Gli chef intesi come una metafora della nostra concezione puramente mediatica del cibo. Con questo intento, il giornalista Davide Paolini ha scritto “Il crepuscolo degli chef” (Longanesi, pp. 216 euro 16.40). Altrimenti noto come Il Gastronauta, Paolini scrive di cibo dal 1983 ed è una delle voci più celebri di Radio24. Punto di partenza di questo saggio è il fatto che il cibo è diventato un’ossessione. Ha colonizzato internet (13 milioni di foto su Instagram, 25.000 blog, 1.000 siti web che raggiungono ogni mese oltre 35 milioni di persone), ammicca dalle vetrine delle librerie e domina anche in tv con format di successo – da “Cucine da Incubo” a “4 Ristoranti”, da “Hell’s Kitchen” a “Masterchef”. Eppure Paolini sottolinea come dietro tanto clamore ci sia un settore in crisi, difatti nel 2015 c’è stato un saldo nettamente negativo, con 7292 esercizi commerciali legati al cibo che hanno chiuso i battenti. “Guardare la tv e sognare non è alimentazione ma spettacolo”, afferma l’autore ma nonostante la crisi, si “moltiplica a dismisura il fenomeno del voyuerismo gastronomico”. In tale ottica secondo Paolini va intesa la moda imperante della cucina a vista, “protetta da uno schermo di vetro come se fosse un acquario per consentire ai commensali di assistere alla rappresentazione della messa in scena dello chef”. E in questa situazione il proliferare dei “cibi senza qualcosa” (senza glutine, senza olio di palma) rischiano di diventare solo l’ennesimo boom economico, come testimonia il successo del Kamut, definito da Paolini, “il novello Figaro”. Ma è tutto da buttare via? Nient’affatto a patto di riuscire ad invertire il senso di marcia. Secondo l’autore dovremmo ricordare la lezione di Roland Barthes, perché oggi più che mai il cibo è un sistema di significazione, una vera e propria lingua. Dovremmo nutrirci non tanto, non soltanto di alimenti, ma “di valori e contenuti insiti” nella nostra cultura. Per far ciò è necessario ricominciare a puntare sulla tradizione, sui prodotti locali, accantonando l’idea folle della cucina spettacolo e riabbracciare, finalmente, la terra.
IL CREPUSCOLO DEGLI CHEF. Gli Italiani e il cibo tra bolla mediatica e crisi dei consumi. Davide Paolini; pp: 216 € 16.40
FRANCESCO MUSOLINO
Fonte: Gazzetta del Sud
“Dal dolore dobbiamo trarre la forza per rinascere”. Intervista a Dorit Rabinyan al TaoBuk 2016
Liat ha appena conosciuto Hilmi. Si trovano a New York e le Torri Gemelle non ci sono più. Ogni amore nasconde insidie ma quello fra i due protagonisti di “Borderlife” (Longanesi editore, pp. 384 euro 16,90), il nuovo romanzo della scrittrice israeliana Dorit Rabinyan, si presenta come una vera fatica d’Ercole. Perché lei è ebrea e fa la traduttrice mentre lui vive a Brooklyn, fa il pittore ed è palestinese. “Borderlife” è una grande storia d’amore impossibile che sfida la ragione e i tabù, un potente inno alla pace. Eppure questo libro è stato bandito dal ministero dell’Istruzione israeliano («è stato uno shock ma la comunità intellettuale mi ha sostenuta») perché considerato una “minaccia all’identità ebraica”. Un controsenso assoluto che ha spiazzato l’autrice, facendo ottenere una visibilità internazionale a questo romanzo il cui unico messaggio è quello di dare all’amore la chance di superare tutte le barriere. La scrittrice e sceneggiatrice israeliana Dorit Rabinyan è stata una delle protagoniste più attese della terza giornata della sesta edizione del TaoBuk International Book Festival, dialogando sulla terrazza dell’Archivio Storico di Taormina con lo scrittore Moni Ovadia sul tema “Che questo amore sia un’isola nel tempo”. Israele e Palestina nello stato libero della letteratura. Leggi il resto di questa voce
«Ho sempre saputo che sarei stato uno scrittore». Wilbur Smith, il re del best-seller, si racconta
Con 122 milioni di libri venduti nel mondo, di cui ben 24 in Italia, Wilbur Smith è considerato il re dei bestseller dell’editoria moderna. Nato in Rhodesia del Nord – oggi Zambia – nel 1933, dopo aver condotto un’adolescenza davvero avventurosa – a soli 8 anni uccise il suo primo leone – il destino lo parcheggiò in un ufficio statale come contabile per quattro lunghi anni. Gli si prospettava un futuro agiato ma piuttosto sobrio per i suoi gusti ed inoltre i suoi primi libri furono rifiutati da numerosi editori. Finché cambiò il vento. Nel 1964 scrisse “Il destino del leone”, mettendo in pagina ciò davvero conosceva e lo emozionava: la sua Africa, la passione per le belle donne e la fame per l’avventura. Nacque così una vera e propria cavalcata nel segno del successo che lo consacrò ben presto, come il re incontrastato dei romanzi d’avventura. Oggi, 82enne, è ancora sulla cresta dell’onda e gira il mondo con la sua quarta moglie, Niso – più giovane di trentanove anni – conosciuta nel 2000 in una libreria londinese mentre stava per acquistare un libro di John Grisham… A proposito di amore, la scintilla fra Wilbur Smith e i lettori italiani è scoccata subito tanto che quest’anno ha scelto l’Italia per l’anteprima mondiale del suo ultimo romanzo, “Il dio del deserto” (Longanesi pp.496 €19.90) in cui ritorna in pagina, ben 22 anni dopo, il suo alter ego, Taita, riaprendo il celebre “ciclo egizio”, nato nel 1993 con “Il dio del fiume”. In questa nuova avventura, Taita, il fedele e geniale consigliere del Faraone, vestirà i panni del mentore per le giovani figlie della regina Lostris – Tehuti e Bakhata – ma dovrà soprattutto affinare le sue arti di stratega per tenere sotto controllo la minaccia degli hyksos, i nemici di sempre, che hanno preso possesso del delta del Nilo, minacciando il regno del Faraone. Una trama avvincente e ricca di colpi di scena, incentrata sulla necessaria alleanza con il re Minosse, in cambio della quale verrà richiesto un sacrificio estremo per Taita. La Gazzetta del Sud ha incontrato Wilbur Smith dialogando delle regole del successo, della sua passione per la scrittura e delle prossime sfide future, nel segno di William Shakespeare… Leggi il resto di questa voce
Ildefonso Falcones non ha dubbi: «Oggi viviamo in una situazione economica paradossale».
Il suo romanzo d’esordio gli è valso milioni di copie vendute nel mondo eppure l’ha dovuto riscrivere ben nove volte prima che un editore spagnolo lo prendesse in considerazione. Era “La cattedrale del mare” con cui Ildefonso Falcones – già avvocato di successo – è divenuto famoso, bissando il successo con “La mano di Fatima”. Una trilogia degli esclusi che trova compimento con il suo nuovo romanzo, “La Regina Scalza” (Longanesi, pp.704 €19,90). Il sentimento principale di questo libro che ruota attorno alla musica e alla schiavitù, è certamente l’amicizia che lega le due protagoniste e narratrici – Caridad e Milagros – e andranno incontro ad un destino assai diverso, muovendosi su un palcoscenico storico davvero significativo come il tentativo di sterminio ai danni dell’etnia gitana, messo in pratica nel XVIII° secolo. Dopo aver parlato di ebrei e moriscos, Falcones torna a parlare dei reietti e dei perseguitati occupandosi di un popolo senza tradizione scritta e perennemente frainteso. Una lunga chiacchierata in un noto albergo milanese durante la quale si è discusso anche di scrittura, politica, economia e fortuna editoriale: “il talento è importante ma la fortuna è l’unica condizione necessaria per raggiungere il successo. Ma nonostante il successo non lascerei mai il mio studio: in tribunale incontro gente vera ogni giorno e questo mi permette di restare con i piedi per terra”. Leggi il resto di questa voce
Wilbur Smith: «La scrittura è la mia vita»
Dopo ben 33 romanzi d’avventura e 122 milioni di libri venduti nel mondo, Wilbur Smith non ha affatto messo da parte la penna, la fantasia e l’ingegno. Difatti è pronto a rilanciare la sfida con una scelta nel segno del celebre Alexandre Dumas e non dimentica mai che nella vita avrebbe potuto fare tutt’altro che lo scrittore. Giunto in Italia per presentare in anteprima mondiale il suo nuovo romanzo – “Vendetta di Sangue” (Longanesi; pp. 510 euro 19,90) – lo scrittore d’origini zambiane e cresciuto in sudafrica che recentemente ha festeggiato l’ottantesimo compleanno accanto alla quarta moglie, ha risposto alle nostre domande. Per Wilbur Smith, indiscusso re dei romanzi d’avventura dal 1964 ad oggi, la scelta dell’Italia non è certo casuale visto che proprio nel nostro paese ha venduto oltre 33 milioni di copie. In “Vendetta di sangue”, vedremo il ritorno di Hector Cross – già protagonista ne “La legge del deserto” – in un fitto intreccio a base di vendetta, potere e denaro, ambientato fra la City londinese e l’Africa nordorientale. La firma di Smith? Il ritmo serratissimo e la morale salda.
Hector Cross, aveva trovato l’amore e la felicità ma in Vendetta di Sangue torna in pagina animato solo dal desiderio di rivalsa. Mr. Smith è arduo portare in pagina le emozioni più dilanianti dell’animo umano in modo realistico?
«Per prima cosa mi documento moltissimo e soprattutto scrivo solo di ambienti che conosco molto bene, ecco perché c’è sempre tanta Africa nei miei libri. Una documentazione più che esaustiva è fondamentale per la credibilità della storia. I lettori devono fidarsi di ciò che scrivo, come se si trattasse di personaggi reali. Per questa ragione le informazioni che sono sullo sfondo devono essere correttissime, altrimenti il tutto perde di veridicità e si finisce per avere la stessa sensazione che può avere un guidatore, quando supera un dosso artificiale lungo la strada: sobbalza, sente che c’è qualcosa che non va.
Per lo più scrivo di getto, per poi tornare indietro e rifinire in modo tale che ogni frase esprima al massimo emozione e forza».
Voleva fare il giornalista e per poco non divenne un contabile di stato, come desiderava suo padre. La pubblicazione de “Il destino del leone” nel 1964 le ha cambiato la vita?
«Ne sono più che sicuro. La scrittura non solo mi ha cambiato la vita, ma è la mia vita. E non credo tanto che sia stato io a scegliere la scrittura quanto piuttosto il contrario, è stata lei a scegliere me. Fin da prima che fossi in grado di scrivere ero affascinato dalle storie e dal modo in cui mi venivano raccontate. Mio padre e mio nonno prima di lui erano dei grandi contastorie. E mia madre, donna di grande cultura, amava moltissimo leggere e raccontarmi storie a sua volta. La voglia di raccontare fa parte del mio dna e da quando ho iniziato non sono più riuscito a farne a meno.
Ma cosa le piace di più della scrittura?
«Posso scatenare guerre, uccidere, torturare, guidare come un pazzo, violentare, incendiare e quant’altro…senza in realtà far del male a una mosca!»
In Italia i suoi libri hanno venduto 23 milioni di copie. Che rapporto ha con il nostro paese?
«Con l’Italia e gli italiani non potrei avere un rapporto migliore! Si tratta del paese in cui ho maggior successo e credo di aver ormai sviluppato una grandissima affinità con i suoi lettori. L’Italia è un paese meraviglioso, di cui amo ogni cosa, dalla vitalità e allegria degli abitanti al buon vino e al buon cibo. L’Italia è la culla della civiltà. Quando gli antichi romani arrivarono in Inghilterra con i loro eserciti, trovarono popolazioni che da un punto di vista culturale e civile erano terribilmente indietro.
Nel prossimo futuro potrebbe ambientare proprio qui un suo romanzo?
«Non saprei. Sono convinto che si debba scrivere solo di quello che si conosce più che bene, proprio per questo che amo scrivere dell’Africa».
I suoi libri sono colmi d’azione a perdifiato…la sua vita privata è altrettanto adrenalinica?
«Beh, di certo ho avuto una vita molto avventurosa, ho viaggiato molto, ho partecipato a pericolose battute di caccia, ma di qui a dire che sono come Hector Cross c’è parecchia strada!»
Recentemente ha siglato un contratto con l’editore HarperCollins. Un team di co-autori svilupperà sei trame da lei ideate. È un progetto molto interessante ma cosa l’ha convinta a condividere il suo genio creativo?
«La ragione principale sta nella fame dei miei libri che hanno i miei lettori: ne vorrebbero sempre di più, ma vede, come sa ho passato da un po’ i quarant’anni…! Non riesco a tenere un ritmo così alto o almeno non tanto alto quanto vorrebbero loro. Non sappiamo ancora esattamente come funzionerà questa nuova formula, ci stiamo lavorando, ma di certo ha dei precedenti illustri. Penso a Clive Cussler o James Patterson per parlare dei giorni nostri, o Alexandre Dumas per andare su un grande del passato. Sono certo che troveremo la formula adatta per lavorare bene in questo modo e credo che moltissimo dipenderà dal tipo di rapporto che si creerà tra me e i miei collaboratori».
Intervista pubblicata su La Gazzetta del Sud (di sabato 2 febbraio)
Francesco Musolino®
Carlo Martigli si confessa: «La mia scelta eretica? Mollare tutto per la scrittura»
Perché Carlo Martigli è divenuto un autore best-seller? Perché non inganna il lettore, non inventa soltanto ma prende spunto da situazioni storiche realmente accadute, da veri misteri, sviluppando trame dense che avvolgono il lettore. Proprio così accade nel suo nuovo libro, L’Eretico (Longanesi; pp. 504 €17.60) dove Pico della Mirandola, Savonarola e un misterioso testo orientale la fanno da protagonisti e tutto riparte da dove si era concluso 999. L’Ultimo Custode, il romanzo che lo consacrò, appena un anno fa, premiando la sua coraggiosa scommessa: mollare la sua tranquilla vita da bancario per dedicarsi completamente alla scrittura.
Il suo nuovo libro, “L’Eretico”, si riallaccia felicemente al precedente libro di grande successo. Com’è nata questa storia?
Esiste un filo rosso che unisce le due storie anche se si può tranquillamente leggere L’Eretico senza sapere nulla di 999 L’Ultimo Custode. Il fatto è che se in quest’ultimo Pico della Mirandola è il protagonista, ne L’Eretico invece, che è ambientato tre anni dopo la sua morte, è presente il suo spirito. Da lui, dalle sue ricerche e dai contatti avuti con l’oriente, storicamente accertati, nasce proprio il viaggio che spinge i protagonisti ad andare a Roma, pronti a levare il velo a un mistero. Non i soliti inventati, mi permetto di dire, ma un mistero reale, rigorosamente storico, mi piace immaginare e inventare situazioni, ma non ingannare il lettore.
Pico della Mirandola e Savonarola: perché ha scelto due figure così carismatiche?
Perché sono entrambi gli uomini chiave del Rinascimento. Mirandola rappresenta l’uomo nuovo,la primavera della libertà di pensiero e della libertà di scelta, dopo l’inverno del medioevo. Il più grande genio dell’epoca, molto superiore a leonardo, che era un tecnico eccezionale, ma di se stesso diceva che era homo sanza lettere, giustamente. Savonarola è il critico più feroce dello stato di degrado in cui si trovava la Chiesa cristiana a cavallo tra il 1400 e il 1500. Fu coerente fino in fondo, scegliendo, come Socrate, la morte, anche se poteva fuggire. Un misto tra un idealista e un talebano, in quanto a fanatismo. Si può dire che è anche grazie a lui se, pochi anni dopo, inizierà il processo della Riforma, contro il mercato delle indulgenze e la corruzione dei papi di allora, con Martino Lutero. Una curiosità: lui stesso racconta racconta che, tornato da un viaggio, quando a Roma parlava di anima, la gente lo scherniva e si metteva a ridere.
L’Eretico: potrebbe spiegare perché, nel tempo, questo termine ha preso un’accezione tanto negativa e sinistra?
L’Eretico deriva da airesis, che in greco significa scelta. Quindi eretico è semplicemente colui che sceglie, e nell’antica Grecia corrispondeva a essere un uomo giusto e ragionevole. In epoca medievale a questa parola venne nel tempo data un’accezione negativa perché chiunque avesse l’ardire di scegliere e non di obbedire supinamente, era considerato pericoloso. Ieri come oggi, l’uomo che sceglie è inviso al potere ottuso, compreso quello politico e religioso. E questo fatto danneggia chi crede e professa una religione, compresa quella cattolica, in libertà di scelta. Danneggia la stessa fede, quasi che questa abbia la necessità di essere imposta dall’alto con forza, come se fosse un peso anziché un dono meraviglioso.
Senza rovinare la gioia della lettura potrebbe svelarci chi è Nicolaj Notovic?
E’ un uomo dalla vita straordinaria sul quale ho preparato un soggetto cinematografico. Spia, letterato, avventuriero, geografo e storico, ritornò da una missione nel Tibet, forse commissionata dalla Ochrana, la polizia segreta dello zar, con una rivelazione sconvolgente. Aveva appreso dai monaci tibetani una storia che da secoli continua ancora oggi a essere tramandata in quei luoghi come la più normale del mondo e la conoscno tutti. Ovvero che un uomo chiamato Gesù, il nostro, detto Issa, dimorò in quei luoghi. Ha mai pensato che nessun vangelo, nemmeno gli apocrifi, parlano dei suoi anni tra i dodici e i trenta? Non è stano che sappiamo tutto di imperatori cinesi, faraoni egiziani e consoli e imperatori romani, uomini del suo tempo e vissuti prima di lui, mentre di Gesù non sappiamo nulla? Perché questo vuoto? Forse per non farlo apparire come personaggio storico ma come un’invenzione? Ma questo va contro la logica e la fede stessa. Le sembra naturale? Notovic fu perfino contattato dal cardinale Luigi Rotelli vicino a Leone XIII e da altri che tentarono in vari modi di convincerlo a non pubblicare il libro poi uscito con il titolo Gli Anni Perduti di Gesù in Francia e in Germania nel 1894. Poi, guarda caso, Notovic scomparve, e così altri che tentarono di far luce sulla vicenda. Spero di non fare la stessa fine, il mio è solo un romanzo che si legge sotto l’ombrellone o si tiene sul comodino la sera, come quelli di Ken Follett o di Ildefonso Falcones, cui sono stato avvicinato da una certa critica. Forse con un po’ più avventura e di ironia, visto il mio spirito toscano. Certo che se un lettore vuole poi approfondire certi temi tra le righe, troverà di che divertirsi ulteriormente.
Infine vorrei chiederle: è felice d’aver mollato la sua “precedente vita”, rischiando tutto per inseguire la scrittura?
Assolutamente sì. Quella scelta, molto “eretica”, dato che siamo in argomento, nacque con tanta paura e un pizzico di coraggio. Per me è stata una sorta di necessità interiore, amo immensamente di un’amore quasi passionale, la scrittura, e non a caso dico sempre alla fine delle mie conferenze che se Leggere Rende Liberi (parafrasando l’orribile e tragicamente ironico Arbeit Macht Frei dei campi di concentramento), scrivere rende felici, almeno me. Il mestiere dello scrittore è faticoso e meraviglioso e il sapere che riesco a emozionare con le mie storie i miei lettori mi rende ancora più felice. Non per nulla tra una presentazione e un’altra sto scrivendo il prossimo romanzo.
Fonte: Settimanale Il Futurista – gennaio 2012 (versione estesa)
Da Peron allo Ior, i fili della verità. Intervista a Marco Buticchi
La voce del destino (Longanesi), il nuovo libro di Marco Buticchi, si apre con un rocambolesco salvataggio attuato da Oswald Breil e Sara Terracini, che in tal modo verranno a conoscenza di un intreccio che lega la misteriosa Lancia di Longino all’ingente tesoro di Juan Domingo Peron e alla prigione dorata dei gerarchi nazisti in Sudamerica. La voce del destino è un libro d’azione rocambolesco che attraversa un secolo di storia e tira in ballo il “suicidio” Calvi, la drammatica sorte di Papa Luciani e il peso internazionale dello IOR, proponendo una realtà diversa da quella nota eppure assolutamente plausibile. Buticchi, narrando le barbare violenze, lo spregio della vita altrui di cui si sono macchiati i nazisti e gli ustascia di Pavelić, utilizza per la prima volta un tono vivido, cruento, capace di far trasparire sulla pagina tanto il terrore delle vittime che il piacere dei carnefici.
Racconta una storia assai diversa da quella nota, sottolineando il ruolo che Peron e la Chiesa hanno svolto per coprire la fuga dei gerarchi nazisti. Chiarire le responsabilità è l’unica via certa per la verità?
Il racconto è uno spaccato del mio secolo, logorato da due guerre e diviso dall’incendio alimentato dall’odio sociale e razziale. In questo contesto hanno agito biechi assassini coperti, da un lato dall’impunità che la guerra assicurava loro, dall’altro dall’abuso della loro autorità. Ma quando il turbine della guerra stava per terminare, questi assassini hanno goduto di ben altre garanzie che oggi appaiono incomprensibili.
Eppure tutto il mondo esigeva giustizia. Come hanno fatto a scamparla?
Attraverso organizzazioni internazionali sono giunte in Sudamerica decine di migliaia di criminali di guerra fascisti, ustascia e nazisti: i loro passaporti recavano in calce il nulla osta di organizzazioni umanitarie e delle più alte sfere del clero e venivano accolti da governi compiacenti e da antichi alleati, previo il pagamento di dazi, spesso costituiti da bottini strappati agli internati nei lager. Questa non è “un’altra storia” inventata da un romanziere. Questa è la Storia dell’umanità e qualcuno farebbe bene a rivelare al mondo intero la verità. Mi riferisco a chi ha aiutato uomini come Barbie, Mengele, Eichmann a prendere il largo. Non sarebbe difficile, del resto le loro firme sono apposte in calce ai documenti falsi di quegli aguzzini.
Luce ha un ruolo fondamentale e simbolico, poiché rinuncia ai suoi sogni per abbracciare il proprio destino e protegge il tesoro dei Peron…
Luce De Bartolo è una protagonista straordinaria del suo tempo e della mia storia. Lei protegge il tesoro dei Peron per bene dell’intera umanità. Difatti se una ricchezza inestimabile fosse finita nelle mani sporche di sangue dei criminali sopravvissuti alla disfatta del Terzo Reich…
Fonte: Il Futurista n°24 del 17 novembre 2011
Sogni e ciclismo sulle note di Conte. Intervista a Laura Bosio
La giovane Caterina Guerra è la protagonista de Le notti sembravano di luna (Longanesi), il nuovo romanzo di Laura Bosio, già autrice di diversi romanzi fra cui Annunciazione. Solo in sella alla sua bici Caterina si sente finalmente felice, riuscendo a scacciare via l’aria che si respira in casa dove i genitori non riescono a celare i loro disagi e le loro insofferenze. La Bosio racconta la vicenda con la voce di Caterina divenuta ormai adulta, rivelando, con una scrittura diretta anche i sentimenti più inconfessabili.
Come descriverebbe la sua protagonista?
Caterina ha dieci anni e ha un sogno: diventare un ciclista come i corridori del Giro d’Italia e del Tour. Il suo cognome, Guerra, come quello di un grande corridore, e le sue gambe sode, sottili e senza peli, le sembrano ottime premesse, forse una promessa. Con il ciclismo sogna la libertà solitaria ma Caterina non sa che per una donna degli anni Sessanta, il suo è un sogno impossibile. Attraverso lei volevo raccontare proprio l’infanzia stessa, quando tutto è nuovo e nulla è indifferente e il mondo sembra popolato da potenze misteriose: i bambini, non essendo coscienti, sono l’essenza stessa della vita.
La vita della famiglia borghese di Caterina sembra bonariamente perfetta ma in realtà è ricca di contraddizioni.
La vicenda è compresa tra il 1963 e il 1964, anni di espansione economica ma anche di crisi. I ruoli e i comportamenti erano rimasti rigidi e non corrispondevano alle spinte dinamiche della società, fra l’altro era imminente la più importante rivoluzione dei costumi della nostra epoca. I genitori di Caterina, un caporeparto di una fabbrica e una casalinga, hanno stranezze e insofferenze collegate al momento in cui vivono. Talvolta, di sera, il padre fa comizi agli orti che ci sono intorno alla loro casa per sfogare la voglia di cambiamento e la madre, molto bella e molto contraddittoria, impone alla figlia regole “borghesi” nonostante lei stessa si senta prigioniera di quella dimensione. Sono però gli occhi di Caterina che ingrandiscono tutto quanto: i genitori sono visti dai bambini come attraverso una lente che li deforma, facendone dei giganti, degli esseri quasi mitologici.
Questo libro è il suo atto d’amore verso il ciclismo?
Sì, anche. Sono un’appassionata di ciclismo, che non ho mai praticato, tanto meno da bambina. Il ciclismo è energia, coraggio, slancio, mi sembrava perfetto per raccontare il movimento e la forza dell’infanzia. In una canzone, intitolata Velocità silenziosa, Paolo Conte dice che “una bici si declama come una poesia che fa volare via”, che “la si ama come l’ultima delle fantasie”. Mi riconosco in questa canzone, potrebbe essere la colonna sonora del romanzo.
Fonte: Il Futurista n°22 del 3 novembre 2011
Donato Carrisi: «Il serial killer non ha nessuna intenzione di farsi scoprire. É solo un falso mito creato per rassicurarci»
«Passo gran parte del mio tempo a fare ricerche perché credo che le storie migliori affondino dentro la realtà» e in tal modo, lo scrittore e sceneggiatore Donato Carrisi ha scoperto l’esistenza dei cacciatori del buio, dei cacciatori di anomalie, ponendoli al centro del suo nuovo romanzo Il Tribunale delle Anime (Longanesi; pp. 464; €18,60). Conscio di essere atteso al varco dopo il grande successo internazionale de “Il Suggeritore”, Carrisi ha accettato la sfida e ha puntato anche su un mestiere poco noto ma fondamentalmente connesso ai delitti ovvero quello dei fotorilevatori della polizia scientifica, «che devono essere capaci di cogliere i minimi dettagli e ricostruire per intero, la scena del crimine».
Tornare a scrivere dopo il mirabolante successo de “Il Suggeritore” che sensazioni ti ha dato?
E’ stata un’esperienza difficile perché comunque tutti mi aspettavano al varco per l’esame del secondo libro. Quando riscuoti un grande successo con il libro d’esordio ovviamente le aspettative sono enormi e così le pressioni nonostante io sia uno scrittore da molti anni e avendo già firmato numerose sceneggiature.
Ma queste sensazioni sono state anche un grande stimolo perché non mi sono accontentato della prima storia che mi è venuta in mente, ho cercato una storia che fosse bella e avvincente almeno quanto quella de “Il Suggeritore”.
Hai scelto di portare sulla pagina Sandra e hai documentato con perizia il mestiere del fotorilevatore della scientifica. Perché hai scelto questa figura poco nota e come ti sei documentato?
I fotorilevatori sono importantissimi, fondamentali. Tramite l’occhio della macchina fotografica devono cogliere dettagli, anche minimi, che possono sfuggire all’occhio nudo degli investigatori ed inoltre devono essere capaci di ricostruire, come un puzzle, la scena di un crimine. Ovviamente, da buon scrittore di thriller, mi sono servito di una consulente della polizia che mi ha illustrato e svelato i segreti del proprio mestiere.
Marcus afferma che la verità è incisa sulla pelle ma spesso ci fa più comodo fermarci all’apparenza…
Questo è il modo più semplici per sentirci migliori, superiori. Quando ci troviamo dinnanzi a qualcuno indiziato di reato ci limitiamo a giudicarlo in base ai nostri sentimenti senza andare a fondo, né aspettare il processo. Questo atteggiamento è piuttosto diffuso e non deriva dal cinismo quanto dalla necessità di assolvere se stessi: posso puntare il dito contro un mostro e riconoscerlo e in tal modo quel mostro non sono io.
Nel libro sfati il mito secondo cui i serial killer ingaggerebbero una sorta di lotta con gli investigatori al fine, inconscio, di farsi catturare. Insomma, hai abbattuto uno dei pilastri alla base di molti film e serie-tv.
Certamente, perché non esiste il serial killer che voglia farsi scoprire. Se il tuo hobby è andare a caccia o a pesca, desideri tutto meno che ti facciano smettere. Allo stesso modo, se il tuo hobby è quello di uccidere è chiaro che non hai interesse a farti beccare perché vuoi continuare a fare quello che ti piace.
Il libro è talmente denso e curato nei dettagli che questi cacciatori di anomalie sembrano muoversi davvero su casi reali.
I casi di cui scrivo si rifanno a casi reali, anche perché è davvero difficile superare la crudezza della realtà e mi interessa che il lettore senta l’atmosfera concreta che solo un fatto di cronaca realmente accaduto è capace di evocare. I cacciatori di anomalie, del resto, esistono davvero e nella nota finale del libro spiego la loro funzione e le modalità con cui collaborano con le forze dell’ordine. Hanno un modo di investigare scevro da qualsiasi riferimento di polizia scientifica, è un metodo antichissimo ma totalmente “nuovo”.
Scrivi che l’istinto di conservazione ci spinge ad essere positivi, ad ignorare il male. Ma cosa accade quando siamo costretti a fare i conti con il male stesso?
La natura umana è prettamente ottimista ed è giusto che sia così perché altrimenti come potremmo vivere. Statisticamente il male è predominante e quando siamo costretti a farci i conti ci sentiamo spiazzati, avviliti.
Donato Carrisi è nato nel 1973 a Martina Franca (Ta). Si è laureato in Giurisprudenza con una tesi su Luigi Chiatti, il «mostro di Foligno», per poi seguire i corsi di specializzazione in criminologia e scienza del comportamento. Nel 1999 ha iniziato l’attività di sceneggiatore per cinema e televisione. Fra le altre, ha scritto la sceneggiatura di Nassiriya – Prima della fine per Canale 5 ed è autore di soggetto e sceneggiatura della miniserie thriller Era mio fratello per Rai 1. E’ una firma del Corriere della Sera.
Sul web: http://www.donatocarrisi.it/