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“Dal dolore dobbiamo trarre la forza per rinascere”. Intervista a Dorit Rabinyan al TaoBuk 2016

Dorit Rabinyan

Dorit Rabinyan

Liat ha appena conosciuto Hilmi. Si trovano a New York e le Torri Gemelle non ci sono più. Ogni amore nasconde insidie ma quello fra i due protagonisti di “Borderlife” (Longanesi editore, pp. 384 euro 16,90), il nuovo romanzo della scrittrice israeliana Dorit Rabinyan, si presenta come una vera fatica d’Ercole. Perché lei è ebrea e fa la traduttrice mentre lui vive a Brooklyn, fa il pittore ed è palestinese. “Borderlife” è una grande storia d’amore impossibile che sfida la ragione e i tabù, un potente inno alla pace. Eppure questo libro è stato bandito dal ministero dell’Istruzione israeliano («è stato uno shock ma la comunità intellettuale mi ha sostenuta») perché considerato una “minaccia all’identità ebraica”. Un controsenso assoluto che ha spiazzato l’autrice, facendo ottenere una visibilità internazionale a questo romanzo il cui unico messaggio è quello di dare all’amore la chance di superare tutte le barriere. La scrittrice e sceneggiatrice israeliana Dorit Rabinyan è stata una delle protagoniste più attese della terza giornata della sesta edizione del TaoBuk International Book Festival, dialogando sulla terrazza dell’Archivio Storico di Taormina con lo scrittore Moni Ovadia sul tema “Che questo amore sia un’isola nel tempo”. Israele e Palestina nello stato libero della letteratura. Leggi il resto di questa voce

Frederick Forsyth non ha alcun dubbio: «Non ci dicono tutta la verità»

Dai suoi libri sono nati film che hanno fatto la storia delle spy stories, “Il giorno dello sciacallo” su tutti, e ancora oggi è considerato un autore cult tanto che le uscite dei suoi romanzi sono sempre degli eventi internazionali. Per documentarsi si sposta in tutto il mondo, da Bogotà a Mogadiscio sino a Buccinasco, dove si recò per documentarsi sulla ‘ndrangheta per scrivere “Cobra”. Autore da 45 milioni di copie vendute nel mondo, Frederick Forsyth è uno di quei pochi autori che interseca realtà e fiction con maestria. Ha mosso i primi passi da giornalista per poi divenire uno scrittore di enorme successo ma non ha mai dismesso i panni del reporter: “sono molto curioso e sempre scettico sulle versioni ufficiali dei fatti che ci raccontano”. Da poco è tornato in libreria con “La Lista Nera” (Mondadori, pp.282 €19) in cui racconta di una “kill list” custodita alla Casa Bianca, un elenco dei più pericolosi terroristi e della pericolosa caccia ad uno di questi, Il Predicatore, muovendosi fra il web e il Corano. L’occasione è perfetta anche per raccontare un Islam moderato e possibile che si contrappone alla folle violenza della Jihad, “qualcosa che si va radicando nel mondo e con cui dovremo ancora fare i conti”. Frederick Forsyth era uno degli ospiti di punta della kermesse letteraria BookCity.

Mr. Forsyth, com’è nato The Kill List?

«Un bel giorno lessi un trafiletto in un giornale. Si raccontava l’uccisione di un terrorista con l’uso di un drone in una sperduta regione asiatica, punto e basta. Ma come avevano fatto a scovarlo? Ho cominciato le mie ricerche e ho scoperto la kill list, la lista nera dei terroristi più pericolosi che è custodita alla Casa Bianca. Pochissimi sapevano della sua esistenza al punto che il mio editore, dopo aver letto il libro, mi ha chiamato per chiedermi se fosse tutto vero. Volevo intitolare il libro The Hound, il Segugio, ma il mio editore mi disse “no no, chiamiamolo The Kill List”».

Il 26 febbraio 1993 Ramzi Yousef fu uno degli attentatori contro il World Trade Center che causò 6 morti e 1042 feriti. Nel libro lei sottolinea come gli Usa sapevano ma non fecero nulla nemmeno per proteggersi da tentativi futuri. Perché?

«Questa domanda continuiamo a porcela da allora. La risposta è una sola: il presidente Bill Clinton. Oggi sappiamo che c’erano esperti senior del controterrorismo che imploravano che si facesse qualcosa finché si arrivò all’11 settembre 2001, durante la presidenza di George Bush. Era come se gli Stati Uniti fossero un gigante assopito che non si accorgeva di ciò che gli accadeva intorno, di tutti i segnali di pericolo che dovevano metterlo sull’attenti. Bill Clinton era troppo interessato a Monica Lewinsky perché si curasse d’altro, compresa la sicurezza del proprio paese». Leggi il resto di questa voce