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Frederick Forsyth non ha alcun dubbio: «Non ci dicono tutta la verità»

Dai suoi libri sono nati film che hanno fatto la storia delle spy stories, “Il giorno dello sciacallo” su tutti, e ancora oggi è considerato un autore cult tanto che le uscite dei suoi romanzi sono sempre degli eventi internazionali. Per documentarsi si sposta in tutto il mondo, da Bogotà a Mogadiscio sino a Buccinasco, dove si recò per documentarsi sulla ‘ndrangheta per scrivere “Cobra”. Autore da 45 milioni di copie vendute nel mondo, Frederick Forsyth è uno di quei pochi autori che interseca realtà e fiction con maestria. Ha mosso i primi passi da giornalista per poi divenire uno scrittore di enorme successo ma non ha mai dismesso i panni del reporter: “sono molto curioso e sempre scettico sulle versioni ufficiali dei fatti che ci raccontano”. Da poco è tornato in libreria con “La Lista Nera” (Mondadori, pp.282 €19) in cui racconta di una “kill list” custodita alla Casa Bianca, un elenco dei più pericolosi terroristi e della pericolosa caccia ad uno di questi, Il Predicatore, muovendosi fra il web e il Corano. L’occasione è perfetta anche per raccontare un Islam moderato e possibile che si contrappone alla folle violenza della Jihad, “qualcosa che si va radicando nel mondo e con cui dovremo ancora fare i conti”. Frederick Forsyth era uno degli ospiti di punta della kermesse letteraria BookCity.

Mr. Forsyth, com’è nato The Kill List?

«Un bel giorno lessi un trafiletto in un giornale. Si raccontava l’uccisione di un terrorista con l’uso di un drone in una sperduta regione asiatica, punto e basta. Ma come avevano fatto a scovarlo? Ho cominciato le mie ricerche e ho scoperto la kill list, la lista nera dei terroristi più pericolosi che è custodita alla Casa Bianca. Pochissimi sapevano della sua esistenza al punto che il mio editore, dopo aver letto il libro, mi ha chiamato per chiedermi se fosse tutto vero. Volevo intitolare il libro The Hound, il Segugio, ma il mio editore mi disse “no no, chiamiamolo The Kill List”».

Il 26 febbraio 1993 Ramzi Yousef fu uno degli attentatori contro il World Trade Center che causò 6 morti e 1042 feriti. Nel libro lei sottolinea come gli Usa sapevano ma non fecero nulla nemmeno per proteggersi da tentativi futuri. Perché?

«Questa domanda continuiamo a porcela da allora. La risposta è una sola: il presidente Bill Clinton. Oggi sappiamo che c’erano esperti senior del controterrorismo che imploravano che si facesse qualcosa finché si arrivò all’11 settembre 2001, durante la presidenza di George Bush. Era come se gli Stati Uniti fossero un gigante assopito che non si accorgeva di ciò che gli accadeva intorno, di tutti i segnali di pericolo che dovevano metterlo sull’attenti. Bill Clinton era troppo interessato a Monica Lewinsky perché si curasse d’altro, compresa la sicurezza del proprio paese». Leggi il resto di questa voce

Giancarlo De Cataldo: «Il proibizionismo ha fallito».

de-cataldo4Dopo aver narrato la nascita, la presa del potere e la drammatica fine della Banda della Magliana in “Romanzo Criminale”, Giancarlo De Cataldo – magistrato d’origini tarantine, drammaturgo e scrittore di successo ad ottobre tornerà in libreria per raccontare la cruenta vita criminale romana dei giorni nostri, in coppia con Carlo Bonini. In attesa della sua nuova fatica letteraria De Cataldo ha risposto alle nostre domande riguardo “Cocaina”, il progetto editoriale tutto italiano che ha riunito in pagina altri due grandi narratori nostrani – Massimo Carlotto e Gianrico Carofiglio (edito da Einaudi). Ma, da uomo di legge (De Cataldo è Giudice di Corte d’Assise) ha detto la sua anche in merito alla questione carceri e alle spinte di parte della società civile riguardo la depenalizzazione e la legalizzazione delle droghe. Toccherà proprio a De Cataldo inaugurare la quarta edizione di “A tutto volume”, la festa dei libri che si terrà a Ragusa dal 14 al 16 giugno, diretta dallo scrittore e giornalista Roberto Ippolito e concepita dalla Fondazione degli Archi.

L’idea di questo libro a tre voci è nata proprio da lei. Com’è stato lavorare con Carlotto e Carofiglio?

«Io amo molto il gioco di squadra, specialmente quando si gioca ad alto livello… qualcuno ci ha definiti, scherzosamente, i cocainomani. Qualcun altro i tre tenori, o Crosby, Stills&Nash… Sono amico di Carlotto e Carofiglio da tempo, apparteniamo, ciascuno a suo modo, e nel rispetto delle peculiarità dei singoli, a una “banda” di autori che amano confrontarsi con la realtà, estraendone magari linee metaforiche che vanno oltre la mera riproduzione della stessa. Soprattutto, ci stimiamo reciprocamente: era naturale incontrarsi per questa riflessione letteraria sulla cocaina».

Oggi cosa rappresenta la cocaina? 

«La cocaina rappresenta in forma concreta e simbolica allo stesso tempo l’abbattimento dei confini fra lecito e illecito, fra economie legali e criminali, fra classi sociali – ovviamente, quanto ai modelli di comportamento, e non certo sul piano delle differenze di reddito, che permangono e tendono anzi a crescere a dismisura. Se dovessi sintetizzare, direi che un tempo Scarface sognava di diventare come noi, mentre oggi molti di noi, e con sempre maggior frequenza, si comportano come Scarface».

Com’è cambiato, nel tempo, il suo impatto sulla società? Oggi non è certo più la droga dei ricchi, degli yuppies…

«Certo. E’ una droga trasversale, che fende le classi. Ciascun consumatore ne adatta poi l’uso alle sue esigenze: c’è chi la usa per sballare, chi per condire la serata in modo pepato, chi per lavorare di più, chi per tirare avanti (droga consolatoria, la definisce Massimo nel suo racconto, e Gianrico ce ne racconta, da par suo, l’effetto contagioso, inscenando una storia di passione e perdizione della quale la coca è il vettore principale). Anche la coca è liquida, globalizzata, parcellizzata».

Infine, com’è nata l’idea per il suo racconto? come ha scelto il suo punto di vista per narrare questo fenomeno?

«Il mio punto di vista è quello della “roba”. La seguo da quando è foglia di una pianta in sé innocente, usata da millenni dai contadini  per alleviare la fatica, a quando diventa denaro: è un percorso dal concreto (la materia prima) all’astratto (il valore di scambio), e l’idea di fondo è che a ogni passaggio di mano quelli che ne controllano il traffico ci guadagnano qualcosa, e quelli che la usano ci perdono il corrispondente».

Da uomo di legge come legge i dati di detenzione? Sono sempre più alti in termini percentuali i casi di detenzione per spaccio: sarebbe favorevole a pene alternative come auspicava il ministro Cancellieri?

«Il ministro Cancellieri si è affacciata all’universo carcerario e ha immediatamente respirato quell’aria terribile che da anni angoscia quelli che se ne occupano per mestiere, o che, come me, avendoci lavorato una volta, sono rimasti legati a quel settore. La Cancellieri afferma che occorre sicuramente fare qualcosa di ancora più radicale per la decarcerizzazione, e poi aggiunge: sarà difficile, ma c’è un sentimento diffuso in tal senso. Ecco, mentre sono d’accordo sulla prima parte, sulla seconda, purtroppo, dissento. Bisogna fare di tutto perché il carcere sia limitato ai casi che non si possono risolvere altrimenti, e che sia un carcere che redime e rieduca, e non un girone infernale che fortifica i delinquenti. Ma l’opinione pubblica, temo, va da tutt’altra parte».

Ovvero?

«Intanto, bisogna avere l’onestà di riconoscere che se le carceri italiane scoppiano è grazie a un certo numero di leggi approvate negli ultimi anni. Le maggioranze politiche che si sono succedute, con qualche differenza peraltro, hanno lavorato su tre direzioni: annullare o comunque limitare fortemente la discrezionalità dei giudici, rendere il processo penale una corsa ad ostacoli, introdurre sempre nuove forme di reato agitando come spauracchio (o feticcio) le pene. Il risultato è la situazione attuale: un processo sovente kafkiano, reati (come quello di clandestinità) che la Comunità internazionale ci ha severamente contestato, carceri che scoppiano di poveracci. Se non si ha l’onestà intellettuale di riconoscere tutto questo, non si possono studiare i rimedi corretti, e non si va da nessuna parte. In secondo luogo, l’invocazione di “penalità”, cioè nuovi reati e pene più severe, è un mantra che attraversa trasversalmente le componenti ideologiche del nostro Paese. Destra e Sinistra hanno ciascuna i propri miti e i propri punti di riferimento: per la Destra, la sicurezza e la proprietà, da cui le proposte di legge contro i soggetti pericolosi (stranieri, gruppi antagonisti, ecc.), l’aumento della recidiva, ecc. La Sinistra tuona contro le rendite, i delinquenti in guanti gialli, il razzismo, le violazioni dei diritti civili: da cui proposte di legge per inasprire le pene per i reati finanziari, introdurre il reato di tortura, aggravanti speciali ecc. ecc. Ognuno ha diritto di pensarla come gli pare sulla sostanza di tutto questo, ma resta il fatto che su una cosa sono tutti d’accordo: nel chiedere costantemente più reati e pene più severe. Come questo orientamento egemone nella società si possa conciliare con le sacrosante preoccupazioni della ministra Cancellieri è tutto da vedere».

Più in generale, crede che la legalizzazione delle droghe leggere e pesanti potrebbe essere la soluzione definitiva, tanto per la lotta alla criminalità organizzata che per un controllo sul consumo effettivo?

«Di certezze, in questo campo, ne esiste solo una: che il proibizionismo ha fallito, il consumo di droghe aumenta, i reati connessi pure. Si deve partire da qui per inventarsi strategie differenti e differenziate. Non credo che legalizzare farà finire il consumo, ma probabilmente lo renderà più controllabile e, in potenza, socialmente meno devastante di quanto l’attuale assetto probizionistico l’ha reso».

Ci vuole anticipare a cosa sta lavorando?

«In ottobre dovrebbe uscire un romanzo a quattro mani con Carlo Bonini, l’autore di Achab. Una storia sulla Roma criminale di oggi. Di più meglio non dire».

Francesco Musolino®

Fonte: La Gazzetta del Sud

La Vita Oscena di Aldo Nove

Per vent’anni lo scrittore Aldo Nove (al secolo Antonello Satta Centanin) ha convissuto con i suoi fantasmi. Rimasto orfano bambino dopo la morte di entrambi i genitori, è piombato dalla prima adolescenza nella dipendenza da alcol e psicofarmaci, decidendo di intraprendere, volontariamente, una discesa verso l’Abisso: «Compivo diciassette anni e il mio unico desiderio era quello di morire il più presto possibile». Amante della poesia – Aldo Nove è anche un poeta apprezzato oltre che tra gli storici redattori del mensile “Poesia” – giunto a Milano ha scelto la cocaina come vettore di morte, proprio come George Trakl, il grandissimo poeta tedesco che scelse di suicidarsi proprio con un’overdose di cocaina.

 

La Vita Oscena (Einaudi, pp. 111, €15,50) segna per Aldo Nove un momento fondamentale perché dà prova di saper padroneggiare una scrittura fatta di attimi sezionati con una prosa che sconcerta e trascina il lettore in un lungo cammino verso la ricerca di un limite umano che si trova sempre un gradino più in basso. I temi fondanti sono l’oscenità e la pornografia – sempre imperanti ma mutate oggi in modo (im)mediato-  il senso di colpa e la ricerca della morte con l’ausilio di una “coscienza anestetizzata” che diventa metafora attualissima di una società più cannibalizzata che cannibale.

Ha impiegato vent’anni per scrivere questo libro e poi lo ho terminato in un mese e mezzo. Perché adesso?

«L’ho fatto appena ho avuto l’impressione di aver raggiunto gli strumenti linguistici sufficienti per potermi muovere con della materia piuttosto incandescente. Quando mi sono reso conto che potevo rielaborare con la giusta serenità il materiale di cui volevo parlare, mi sono messo al lavoro»

Dopo aver involontariamente provocato l’esplosione di casa sua, lei viene ricoverato con gravi ustioni. Decide, metaforicamente, di indossare una maschera: “Io non ero più di me”, ripete più volte sulla pagina.

«Quando c’è una grande alterazione dello stato d’animo, il dolore, finisce per alienarci, ci allontana da noi stessi. Talvolta ciò scatena conseguenze assai pericolose come nel caso degli attentatori o dei kamikaze, che magari reagiscono a grandi sofferenze intese anche in chiave sociale. Il dolore ci trasforma. Il dolore trasforma anche il nostro modo di presentarci agli altri, talvolta anche in modo pericoloso».

L’oscenità è un concetto fondante nel suo libro. Gli altarini con le riviste hard nelle edicole hanno lasciato il posto ad una pornografia accessibile, a portata di mouse. Oggi cos’è osceno? Quali sono i tabù delle nuove generazioni?

«Ogni tanto si sente dire “io non sono moralista” oppure “non voglio fare della morale”. Queste frasi sembrano indicare che, nel periodo in cui tutti i valori sono stati capovolti, oggi la morale stessa sia divenuta un tabù, per cui l’osceno potrebbe essere rappresentato dalla semplice normalità».

In casa vostra nessuno pronunciò mai la parola “cancro”. Ancora oggi si esorcizza la malattia col linguaggio. Serve a qualcosa?

«No, fa male. E’ un errore profondamente umano, magari una forma di delicatezza ma non serve a nulla, anzi, ci allontana dalla realtà».

Che rapporto ha con la religione? Il senso di colpa è dominante in lei?

«E’ un discorso molto complesso. Fin quando il senso di colpa viene inteso come la semplice consapevolezza che ad ogni comportamento consegue un effetto, va bene. Ma l’errore del cattolicesimo, a mio avviso, sta nella sessuofobia, legando in modo indiscriminato la colpa alla sessualità, finendo per stravolgere l’intero senso della nostra esistenza. Quello che è più assurdo è che gli stessi preti si inculano i ragazzini…»

Lei scrive che “il dolore è l’unico maestro” e che “al massimo dolore corrisponde il massimo piacere”. Dobbiamo temerlo o no, il dolore?

«E’ impossibile non temere il dolore, nessuno può farlo. Credo che esista soprattutto un piacere derivante dalla sottrazione del dolore, come per un mal di denti che passa o per una sovreccitazione sessuale finalmente sfogata, ma non credo esista un piacere totalmente svincolato dal dolore».

Lei “doveva provare tutto”. Ma dopo averlo fatto cosa accade?

«Magari ci si annoia. Leggendo le biografie dei grandi santi, ad esempio San Francesco, scopriamo che lui aveva provato tutto e alla fine, aveva cambiato radicalmente vita. Magari facesse così anche Berlusconi. Ci mancherebbe altro che si mettesse a fare il santo…»

Sua madre si augurava che in futuro il mondo sarebbe migliorato, sarebbe diventato un bel posto in cui vivere. Mi sembra che siamo lontani.

«Non solo siamo lontani, siamo infinitamente lontani. La situazione è molto peggiore rispetto al passato. Voglio fare un esempio e restringo il campo alla politica italiana: se vent’anni fa avessi pensato che oggi Gianfranco Fini sia la chiave per migliorare la situazione politica italiana, sarei impazzito. Ma oggi accade questo ».

Comprendere che tutti non fanno altro che andare avanti giorno dopo giorno è intimamente connesso alla mercificazione dominante nella nostra società?

«Sottolineo che quella folgorazione giunge in un momento molto particolare per il protagonista del romanzo. Oggi mi rendo conto che questa è una forte tendenza negativa ma per fortuna non vale per tutta l’umanità».

La discesa verso l’abisso l’avrebbe dovuta condurre verso l’Oltre che desiderava. Invece cosa avvenne?

«”Abissum abissus invocat” come dicevano gli antichi, ad un abisso ne segue un altro. Ad un certo punto o subentra il limite naturale della morte oppure avviene una naturale presa di coscienza, la volontà di sopravvivere».

Per tornare al tema della moralità, è servito del coraggio per portare sulla pagina ciò che le è accaduto?

«Fortunatamente lo scrittore ha un filtro ovvero la letteratura, è cosa ben diversa dall’andare a “La Vita in diretta” a raccontare le proprie catastrofi. La finalità dello scrittore non deve semplicemente creare scandalo ma fare della letteratura e ciò gli permette di muoversi su registri più complessi».

Ritornando all’attualità italiana, fra scandali, escort e corruzione il popolo è vicino al limite di sopportazione secondo lei?

«La questione è proprio capire dove sia questo limite. Sicuramente si percepisce un disagio fortissimo e tutte le rivoluzioni, in fondo, sono partite dalla pancia piuttosto che dalla riflessione. In Italia si tira avanti ma il malessere interiore, sommato ai problemi derivanti dalla crisi economica, inevitabilmente comporterà delle conseguenze e francamente non credo che passerà ancora molto tempo».

Antonello Satta Centanin è rinato come Aldo Nove?

«Sicuramente. Aldo Nove è un laboratorio linguistico di quell’altro».

 

 

Fonte: Satisfiction del 30/11/2011