«La tecnologia? Croce e delizia delle nostre vite…». Jussi Adler-Olsen si racconta.
«La tecnologia, usata con attenzione, esalta le nostre vite quotidianamente. Il problema è che basta davvero poco, una disattenzione, per perdere il controllo e diventare una vittima inconsapevole». I suoi libri sono tradotti in più di 40 paesi ed è considerato uno degli autori del crime scandinavo più importante. Dopo il successo ottenuto con La donna in gabbia e L’effetto farfalla, Jussi-Adler Olsen torna in libreria con Selfie (Marsilio, pp.544 euro 19) e in questa intervista esclusiva per Gazzetta del Sud racconta il lato oscuro della Danimarca, lontana dallo stereotipo del welfare perfetto, il razzismo strisciante sotto la politica dell’accoglienza e il modo subdolo in cui, in ciascuno di noi, possano convivere in equilibrio il bene e il male. Sino alla scintilla fatale, come accade in questo nuovo thriller che ruota attorno un dissoluto trio di giovani ragazze danese che sognano le luci dello showbiz e le copertine delle riviste, ma intanto sfruttano gli uomini e la generosità del welfare danese. Peccato per loro che qualcuno abbia deciso di far fuori “i parassiti del sistema”. Ed è così che torna in pista, ancora una volta, Carl Mørck e la sua celebre sezione Q, dedicata ai cold-case (i crimini non risolti). Mescolando passato e presente, si evince il ruolo preponderante che la tecnologia, gli smartphone e i selfie, possono avere nelle nostre vite: «basta poco per passare un confine e perdere il controllo».
Questo è il settimo libro su Carl Mørck. Ma com’è nata la sezione Q e com’è mutata la tua relazione con Mørck in questi dieci anni?
«Molti anni fa un conoscente di affari mi suggerì di scrivere una serie di poliziotti che si svolgeva in Danimarca. Ma ho scartato subito l’idea. Il lavoro di polizia è limitato da tutti i tipi di regole mentre io volevo essere libero di poter scrivere di qualsiasi cosa. Così, anni dopo ho inventato questo dipartimento del cold case, la sezione Q. L’idea era una serie di dieci romanzi, come capitoli di un grande romanzo che avrebbe raccontato la storia di Carl, Assad e Rose. Sapevo già chi fosse Carl per me e nel tempo il suo ruolo è mutato. Oggi è un grande amico, che di tanto in tanto mi infastidisce».
Com’è nato Carl?
«Il signor Mørk (senza la “c”) era un paziente di mio padre. Aveva ucciso sua moglie, era un paziente psichiatrico. Avevo 6 anni, mi sembrava un uomo molto gentile e così ho imparato che il bene e il male possono convivere in una sola persona.
Ma le somiglia?
«Parzialmente. Combatte la pigrizia con gli schemi mentali, come me. Carl è un uomo semplice, ribelle e ordinario insieme che incoccia, per lavoro, diversi tipi di ingiustizie. Quando esplodono il suo risentimento e la sua voglia di giustizia, ha un potere catartico per me».
Lei cancella l’immagine del paradiso danese, raccontando la crescente tensione tra i beneficiari delle prestazioni sociali e una parte della popolazione. Cosa non funziona?
«A mio avviso il sistema sociale è diventato troppo rigido. Tutto deve essere controllato fin nei minimi dettagli. Quando ciò accade, alle persone che amministrano le regole non viene concessa alcuna possibilità di usare il loro buon senso, la loro discrezionalità, e ciò permette a persone malintenzionate di approfittare del “sistema”. Dobbiamo renderci conto che, a volte, rispettare alla lettera la legge non è affato un modo per compiere giustizia».
La preoccupa l’ondata xenofoba in Europa e in Scandinavia?
«Ciò che veramente mi preoccupa è la mancanza di empatia. Le persone fanatiche non danno spazio agli altri solo per ribadire il proprio credo ferreo. Per me un mondo ideale è quello in cui c’è un rispetto reciproco per il prossimo, indipendentemente dalla religione, dalla razza o dalle capacità finanziarie del prossimo. Invece, oggi, siamo concentrate su noi stessi e questo mi preoccupa moltissimo».
Dopo poche pagine lei rivela il colpevole. Una scelta inusuale…
«In un romanzo poliziesco ti aspetti di seguire le indagini e scoprire l’identità del colpevole solo alla fine. Ma nei miei thriller la grande domanda è un’altra: se sappiamo chi sia il killer, come possiamo fermarlo? Per me questo rende la storia molto più interessante».
Fra crimini e serial killer, nei suoi libri c’è posto anche per l’humour…
«Sì, è un ingrediente fondamentale. L’umorismo è l’arma perfetta per rendere sopportabile un clima di tensione. Ed è anche un piccolo trucco: se stai ridendo non ti assopisci e una pagina alla volta tiro il lettore dentro la storia sino alla prossima vittima».
FRANCESCO MUSOLINO®
FONTE: GAZZETTA DEL SUD, GENNAIO 2018
Pubblicato il 2018/01/29, in Interviste con tag crime, esclusiva, intervista, marsilio, Olsen, razzismo, selfie, tecnologia. Aggiungi il permalink ai segnalibri. 1 Commento.
L’approccio mi sembra interessante.Da lettore maniaco non lo trovò sulla guida tascabile.Peraltro caro Musolino non ci trovo neanche l’amica comune Andrea.Comunque lo leggerò.Faro’un confronto coi grandi giallisti del Nord