Simonetta Agnello Hornby non dimenticherà mai le sue origini: «La Sicilia mi scalda il cuore»

Nel lontano 1972 la palermitana Simonetta Agnello Hornby, scrittrice e autrice di diversi best-seller (fra cui “La Mennulara”), lascia la Sicilia per volare oltremanica. Oggi lʼInghilterra la sua casa e qui esercita la sua professione forense a favore delle comunità immigrate e musulmane. Ma la Hornby torna puntualmente nella sua Sicilia per trascorrere i mesi estivi nella sua casa di famiglia di Mosè, nellʼagrigentino.

Proprio alla memoria materna, agli anni dellʼinfanzia trascorsi nella casa di campagna e alla tradizione gastronomica della propria famiglia ha dedicato la sua ultima fatica letteraria, “Un filo dʼolio”, edito da Sellerio: «Ogni volta che giungo in Sicilia mi acchiappa lʼansia».

Ovvero?

«Mi succede sin da quando tornai in Sicilia quarantʼanni fa e seppi che mio padre era in ospedale. Mia madre, per affetto e per non farmi preoccupare, non mi aveva voluto dire nulla sin quando non fossi stata sullʼisola. Da allora appena metto piede a terra penso “mamma mia che è successo?”».

E dopo?

«Subito dopo sento unʼondata di conforto e di felicità pura per essere nella mia Sicilia».

In Inghilterra che immagine viene fuori dellʼItalia e della Sicilia?

«Al momento lʼimmagine allʼestero dellʼItalia è molto brutta. Non soltanto per via del nostro primo ministro Silvio Berlusconi, ma anche per tutto il quadro politico e morale dellʼItalia. Pensano che siamo un popolo di qualunquisti, un popolo fatto di individui che mettono i propri interessi davanti a quello dello Stato, un popolo profondamente corrotto, purtroppo».

Nel mondo politico italiano si discute mondo sulla mercificazione del corpo femminile. Che ne pensa?

«Credo che quando ci si lamenta della mercificazione del corpo femminile, si deve avere il coraggio di dare alle donne le proprie responsabilità. Non possiamo sempre dire “siamo costrette a farlo” perché delle volte si . pienamente consapevoli, purtoppo. Allora sarebbe meglio dire che a volte “piace” essere un bel corpo prima di una bella mente. Pensate che in Inghilterra, le bambine, sin dai tredici anni chiedono in regalo la chirurgia plastica, sia esterna che interna. Eʼ una società paurosa, in pieno degrado e delle volte, come detto, anche le donne hanno grosse responsabilità, non sono solo ignare vittime come piace pensare. Sempre in Inghilterra le stesse opinioniste che accusano duramente dalla tv e dai giornali sul degrado morale giovanile hanno i petti rifatti, le ciglia finte e le labbra gonfie. Le osservo e penso: ”chi volete fregare?”».

Questʼanno ricorre il 150° anniversario dellʼUnit. dʼItalia. Che ne pensa di chi rimette in discussione il Risorgimento?

«Oramai siamo parte dellʼEuropa e noi siciliani siamo parte dellʼItalia, qualcosa di più grande. Non c’è dubbio che lʼUnità, per com’è stata fatta, è stato un vero disastro per la Sicilia. Ormai tutti sanno che il 1860 ci ha dato calci ovunque e la mafia è fiorita proprio grazie a questo. Ma oggi siamo parte dellʼEuropa e sarebbe assurdo pensare altrimenti. Pensare ad una scissione ha dellʼincredibile perchè non ci sarebbe alcun futuro per un mondo occidentale diviso».

Fonte: Settimanale “Centonove” – 30 settembre 2011

Ruta E. Sepetys dichiara: «L’idea che la storia possa ripetersi, mi terrorizza»

Un viaggio in Lituania e la curiosità di ripercorrere la memoria paterna sono gli ingredienti essenziali di un libro molto toccante, appena uscito in libreria e subito capace di stregare il grande pubblico. Con Avevano spento anche la luna (Garzanti; tr. it di Roberta Scarabelli; pp. 304; €18.60) Ruta E. Sepetys ha voluto narrare – con una scrittura urgente ma sempre molto accurata – una delle pagine più drammatiche della storia ovvero le deportazioni nei gulag subite dagli stati baltici, schiacciati senza pietà dalla violenza stalinista. Un libro dedicato alla memoria: un omaggio verso milioni di vittime incolpevoli e insieme un modo per celebrare degnamente anche i sopravvissuti, trattati da veri e propri reietti una volta tornati in Lituania. La Sepetys ha incontrato i sopravvissuti per costruire fedelmente i propri personaggi, dotandoli del giusto bagaglio emotivo – della fierezza, della dignità e del loro coraggio – ed inoltre ha visitato i campi di lavoro in Siberia, dove i deportati giunsero dopo ben 440 giorni di viaggio massacrante (il tasso di mortalità nei gulag giunse a toccare l’80%)

Avevano spento anche la luna è un invito a scoprire la verità per non dimenticarla mai. Perché certi orrori possano non tornare mai più.

Quando ha sentito la necessità di intraprendere questo viaggio a ritroso nella memoria?

Tutto è cominciato quando ho fatto una visita alla mia famiglia in Lituania. Ho chiesto se avessero una foto di mio padre e nella stanza scese il silenzio e mi risposero: “No Ruta, noi abbiamo dovuto bruciare tutte le foto, non potevamo tenere niente che creasse un collegamento fra noi e tuo padre”. Così ho capito che sebbene tantissime persone fossero state colpite dalla violenza di Stalin, il mondo intero ignorava tutto questo dolore.

E’ stato difficile trovare il giusto tono per spiegare il dramma delle deportazioni, sia ai ragazzi che agli adulti?

Sì è stato difficile perché volevo che la storia trasmettesse un senso di urgenza e immediatezza. Volevo che il lettore si sentisse lì, nel dolore e nella totale precarietà, che si immedesimasse in quella situazione. Per questo ho usato frasi veloci e brevi ma al tempo stesso molto descrittive.

Trovandosi dinnanzi a tanti orrori e a tante sofferenze ha mai pensato di desistere?

Sì, certo. Più volte mi sono detta “non ce la faccio, non ce la faccio”. Mi preoccupava soprattutto il fatto di non riuscire a descrivere in modo reale le situazioni, le circostanze, mentre io volevo rendere omaggio alle persone che avevano subito queste disumane sofferenze.

Lei rivela che quando i lituani riuscirono a tornare in patria, ebbero vita durissima…

Certamente. Una volta tornati in Lituania sono stati trattati come criminali. Come se un ex-galeotto, dopo vent’anni di carcere, una volta fuori venisse ancora trattato come un reietto. Ma queste persone erano totalmente innocenti, non avevano fatto nulla di sbagliato. Eppure non potevano entrare in contatto con la famiglia, accedere all’istruzione né ad un lavoro, non avevano alcun diritto.

Se l’umanità ha scoperto relativamente presto i drammi dell’olocausto, come mai le deportazioni nei gulag sono rimaste segrete ben più a lungo?

Dopo la fine della seconda guerra mondiale, durante le conferenze in cui si discuteva il nuovo assetto mondiale, come a Yalta e a Postdam, Stalin ha convinto il mondo occidentale a lasciare gli stati baltici sotto il suo controllo. Sono rimasti sotto l’occupazione sovietica per cinquant’anni senza poterne parlare, pena una severa condanna come anti-sovietici.

Teme che il dramma delle deportazioni possa tornare, un giorno?

L’idea che la storia possa ripetersi, mi terrorizza. Spero che leggendo e venendo a conoscenza delle tragedie del passato, si possa imparare qualcosa, creando le basi per un futuro più giusto.

Nella costruzione dei personaggi, soprattutto per Lina e Jonas, ha tratto ispirazione da Anna Frank?

Ho amato Anna Frank e il suo Diario e ne ho tratto certamente ispirazione dalla sua vita. Tuttavia i miei personaggi sono la conseguenza diretta dell’incontro con i sopravvissuti alle deportazioni, i loro ricordi e le loro emozioni sono state la mia ispirazione diretta per costruire tutti i personaggi del mio libro.

Ho trovato molto significativo l’aver voluto rimarcare che l’indipendenza degli stati baltici sia giunta in modo pacifico…

Credo che questi paesi possano insegnare al mondo una lezione molto più grande. Stalin ha usato la lingua della violenza senza alcun scrupolo ma le sue vittime nel Baltico, si sono rifiutate di perpetrare quella stessa violenza e nella loro ricerca dell’indipendenza hanno parlato attraverso l’amore e il patriottismo, dimostrando al mondo che erano pronti per essere liberi. Ciò dimostra al mondo che spesso è più importante credere che bombardare.

Umberto Ambrosoli: «Mio padre, un eroe borghese»

«Sono convinto che in unʼItalia in cui si ha sempre più paura delle responsabilità, in un paese nel quale i furbi hanno sempre più potere, lʼesempio di mio padre possa essere utile». Umberto Ambrosoli è il terzo figlio di Giorgio, lʼavvocato che ebbe il compito di liquidare la Banca Privata Italiana ormai sommersa dai debiti ma protetta dai “poteri forti” e per tale motivo venne ucciso a Milano sotto casa, in via Morozzo della Rocca, nella notte tra lʼ11 e il 12 luglio del 1979 da un killer giunto dallʼAmerica e pagato da Michele Sindona. Quella notte i suoi figli avevano undici, dieci e otto anni. Oggi Umberto di anni ne ha 38: ha tre figli ed è avvocato come il padre e a 30 anni dalla sua morte ha scritto un libro toccante: Qualunque cosa succeda (Sironi editore; pp. 317, euro 18). Il titolo del libro prende spunto da una ormai celebre lettera trovata dopo la morte nella borsa del padre, quasi un testamento morale dedicato alla moglie: “Eʼ indubbio che pagherò a molto caro prezzo l’incarico: lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto perché per me è stata unʼoccasione unica di far qualcosa per il Paese (…). Qualunque cosa succeda, comunque, tu sai che cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo. Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto”.

Oggi Umberto Ambrosoli, invitato dallʼAssociazione “Amici di Onofrio Zappalà”, incontrerà gli studenti del Liceo Classico di Santa Teresa di Riva e alle ore 18, presso i locali dell’Antica Filanda di Roccalumera, incontrerà i suoi lettori.

Un libro nato sei anni fa in sala parto.

«In un certo senso sì. In quel contesto è nato per la prima volta il pensiero di volontà di migliorarlo, di dargli lustro. Una parte dʼItalia che va valorizzata perché cʼè ma talvolta sembra messa da parte, debole, come se tutti fossimo obbligati da una forza maggiore ad accettare il compromesso, la rinuncia agli ideali. Ecco, questa storia ci mostra che non è così. Tutti abbiamo la possibilità di decidere, tutti abbiamo la possibilità di contribuire e di dare lustro al nostro ruolo di cittadini».

Perché ha voluto condividere questa storia?

«Perché secondo me lʼesempio di mio padre può essere utile allʼItalia di oggi. Può essere utile perché evidenzia il fatto che non si possa sempre delegare ad altri la risoluzione dei problemi e come ciascuno di noi abbia il potere di incidere nelle società in cui vive. Una storia fatta di assunzione di responsabilità avvenuta con forza e consapevolezza, con pretesa del rispetto della propria libertà, un gesto di grande amor verso il paese inteso come la collettività, la società nella quale si vive. Un amore che si traduce nella volontà di contribuire a fare in modo che il paese possa migliorare, attraverso la propria azione. La responsabilità è una bellissima esperienza. Eʼ il rovescio della medaglia della libertà dʼazione, è la sua complementarietà. Sono queste due cose che ci permettono di vivere pienamente in una comunità».

Corrado Stajano definì suo padre, un eroe borghese. Eʼ una definizione che le piace?

«Mio padre, a mio avviso, non aveva alcuna intenzione di porre in essere gesta eroiche né tantomeno di ribellione. Fece semplicemente ciò che riteneva giusto fare. La definizione di Stajano va contestualizzata nel libro dove sottolinea la definizione fra lʼeroe, inteso nellʼaccezione popolare e lʼeroe borghese. Non è una distinzione di classe, lʼeroe popolare è un eroe rivoluzionario mentre lʼeroe borghese è colui che crede nelle norme, crede nellʼordinamento, crede nello Stato e si uniforma alle sue norme ma proprio per tale motivo da quello stesso Stato viene considerato come un nemico».

Toccante la vicinanza della società civile – che si avverte anche nella prefazione scritta da Carlo Azeglio Ciampi – cui fa da controcanto lʼassenza dello Stato ai funerali di suo padre. Ma oggi ci sono segnali importanti dato che la scomparsa di suo padre viene ricordata nelle scuole e negli incontri pubblici.

«Da quando ho scritto il libro incontro tantissime persone che mi dicono che per la loro vita, per le loro scelte, lʼesempio di mio padre è stato determinante. Vedo che cʼè unʼItalia che crede in quei valori espressi da mio padre, cʼè chi crede nella capacità di assumersi delle responsabilità nellʼinteresse di tutti e di agire con amore nel contesto civile nel quale vive, con la volontà di migliorarlo, di dargli lustro. Una parte dʼItalia che va valorizzata perché cʼè ma talvolta sembra messa da parte, debole, come se tutti fossimo obbligati da una forza maggiore ad accettare il compromesso, la rinuncia agli ideali. Ecco, questa storia ci mostra che non è così. Tutti abbiamo la possibilità di decidere, tutti abbiamo la possibilità di contribuire e di dare lustro al nostro ruolo di cittadini».

Oggi la legalità è un valore nel nostro paese?

«Diciamo che il mondo mediatico fatica a sottolineare la legalità o perlomeno gli esempi di chi rispetta le regole fanno meno clamore. Eʼ un contesto su cui si può e si deve molto lavorare perché il nostro paese offre tanti esempi di chi ha creduto e crede nel bene collettivo che danno risultati importanti: ventʼanni fa sarebbe stato impensabile prendere la decisione di escludere da Confindustria chi paga il pizzo. Fino a poco tempo fa chi lo pagava era visto solo come una vittima, oggi si è capito che cʼè dellʼaltro, che anche se in modo involontario si sostiene la realtà criminale. Da questo punto di vista si è fatto un grande passo avanti».

Anche la politica nazionale non sembra lanciare messaggi positivi. Mi riferisco al recente scudo fiscale.

«Beh, quando il paese con i suoi soggetti di rappresentanza parlamentare, non mette le legalità al primo posto e con provvedimenti come lo scudo fiscale afferma che per lo Stato i soldi sono più importanti di come sono stati conseguiti, non trasmette un messaggio utile per la crescita del paese».

Che rapporti ha con la Sicilia?

«Purtroppo non conosco affatto il messinese dove di terranno gli incontri con il pubblico. Dico purtroppo perché mi sono stati descritti come luoghi colmi di fascino. Sono stato solo alcune volte a Palermo e Catania ma solo per lavoro. Però dei bellissimi ricordi mi legano allʼisola di Ustica, dove trascorsi una splendida vacanza».

Le tre parole simbolo di questa iniziativa sono “Memoria, verità e giustizia”.

«Una bellissima prospettiva per guardare il futuro».

La spaventa il fatto che sia stato necessario scrivere un libro anche per far chiarezza sul ricordo di suo padre, la cui morte veniva talvolta accostata alle B.R.?

«Mi spaventa ogni ignoranza, mi spaventa ogni superficialità nellʼanalisi dei fatti storici del nostro paese. Ma possono essere anche degli stimoli per coinvolgere e approfondire».

Lʼassociazione “Amici di Onofrio Zappalà”, che promuove lʼincontro, è nata in ricordo di una delle 85 vittime della strage di Bologna. Una ferita ancora aperta sulla quale ancora oggi non cʼè la parola fine.

«Non bisogna mai rinunciare a cercare la verità. A guardare bene gli atti dei processi, le verità si capiscono. Il problema è che talvolta la fatica per raggiungere la verità non comporta sempre la giusta punizione per i colpevoli e questo ha sempre il sapore della sconfitta».

 

Fonte: Centonove 15 gennaio 2010