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«La nostra miopia sugli sbarchi odierni si somma a quella sul nostro passato storico». Alessandro Leogrande racconta “La Frontiera”.

Alessandro Leogrande

Alessandro Leogrande

«La frontiera è un termometro del mondo. Un insieme di punti immaginari, la moltiplicazione di una serie di luoghi in perenne mutamento». Nel suo nuovo libro, “La frontiera” (Feltrinelli editore, pp. 320 €17), Alessandro Leogrande – tarantino, classe ’77, giornalista, scrittore e curatore di diverse antologie – indaga con umanità il dramma dei migranti compiendo un piccolo miracolo, passando dal profilo generale della questione a quello personale, narrando l’epopea «senza alternativa» di diversi uomini, spesso giovanissimi, che hanno affrontato una morte probabile in mare per scongiurare una condanna certa, fuggendo dalla miseria, dalla guerra, dalla persecuzione in patria. Il racconto dei profughi non può prescindere dal nostro passato storico e non può essere governato senza uno sguardo al futuro. Il rischio è che si possano ripetere fatti violenti come quelli verificatisi nella notte di Capodanno a Colonia«l’inviolabilità del corpo delle donne non può essere messa in discussione, ma la politica delle perenne emergenza impedisce ogni tipo di possibile integrazione».  Leggi il resto di questa voce

#ioleggoperché e la lettura in Italia. L’opinione di Fabio Geda, Marco Missiroli, Stefano Petrocchi, Stefano Piedimonte e Nadia Terranova

IoLeggoPerchéAlla vigilia della sua prima edizione, la manifestazione #ioleggoperché si annuncia come una mobilitazione di massa sotto l’egida dell’Associazione Italiana Editori per promuovere la lettura. In campo ci sono numeri impressionanti come le 240mila copie di 24 longseller che verranno donati ai non-lettori da trentamila volontari, i Messaggeri. Giovedì 23 aprile sono previsti oltre mille eventi in contemporanea lungo tutta la penisola e c’è attesa per il ritorno dei libri in prime-time con la diretta (Rai3, 21.05) della serata condotta da Pierfrancesco Favino dall’Hangar Bicocca di Milano con numerosissimi ospiti per condividere insieme i libri amati. Un’iniziativa fortemente mediatica – ma non priva di critiche – tanto che #ioleggoperché ha persino un suo inno inciso da Samuele Bersani e Pacifico con Francesco Guccini: “Le storie che non conosci”. Basterà a superare la crisi della lettura? Gazzetta del Sud ha voluto approfondire il tema chiedendo ad alcuni scrittori cosa ne pensano. Leggi il resto di questa voce

Ricordando Bruno Shulz. Nadia Terranova presenta “Bruno”

La scrittrice messinese Nadia Terranova ha voluto far rivivere la dolcezza e la bellezza della scrittura dello scrittore ed intellettuale Bruno Schulz (La bottega color cannella) in un libro agrodolce, cui è destinato il messaggio di far capire ai più piccoli (il libro è consigliato dai 10 anni in su) anche il dramma dell’Olocausto, del Male assoluto. Bruno (edito da Orecchio Acerbo, pp. 40, cm21x30,5 – €16) è un bambino ebreo. La grossa testa lo rende incerto e impacciato nei movimenti, il carattere è schivo e introverso. Curioso e attento a ogni cosa che lo circonda, è affascinato dalle eccentriche stravaganze del padre, dalle sue stupefacenti metamorfosi. Lo perderà anzitempo, ma, non volendosene separare del tutto, farà rivivere nei suoi disegni e nei suo scritti la straordinaria capacità paterna di riconoscersi e identificarsi in ogni oggetto, in ogni animale, in ogni persona. Fino a una giornata d’autunno del 1942, quando un ufficiale nazista lo ucciderà per strada, nel ghetto di Drohobycz, una piccola città della Galizia Orientale. Il racconto è accompagnato, non solo illustrato, dalle belle tavole di Ofra Amit.

Com’è nato “Bruno” e perché hai voluto raccontare di Bruno Schulz?

«Quasi dieci anni fa ero una neolaureata in filosofia, squattrinata e appena sbarcata a Roma per seguire un corso di editoria. Mentre scartabellavo in una libreria alla ricerca di testi che mi avrebbero dovuto illuminare sulle tendenze del mercato, sono stata attratta da questo librone che sembrava uno scrigno, “Le botteghe color cannella” di Bruno Schulz. A dispetto della sua mole, del prezzo che allora mi sembrò esoso e di un’aria fuori dal tempo e quindi completamente inutile per i miei scopi dell’epoca, me ne innamorai e lo divorai in pochi giorni. Da allora è una rilettura costante. Quando ho proposto a Fausta Orecchio, l’editore di Orecchio Acerbo insieme a Simone Tonucci, un racconto sulla vita di Bruno bambino, lei ne è stata incuriosita e poi entusiasta. La storia di Schulz è piena di simboli, è insieme umana e mitologica: c’è un continuo legame con la morte, con l’infanzia, con l’ebraismo e con un senso profondo di impotenza ed estraneità; e c’è questo adulto-bambino schivo, strano, che guarda il mondo con occhi obliqui e ce lo restituisce con parole immaginifiche e potenti».

Questa storia è anche, forse soprattutto, un modo per raccontare il Male e il dramma dell’Olocausto ai più piccoli. Credi sia importante che anche i bambini sappiano?

«Sì, ma non per un senso del dovere meccanico né per sbarazzarci la coscienza: è importante perché non ci siano contorte zone d’ombra dove crescono paure che possono diventare facilmente mostri senza nome. Invece è importante che i bambini diano un nome alle cose, che sappiano che non esistono il bene e il male come entità separate e assolute, ovviamente con gradualità e delicatezza, senza che si offenda mai la loro sensibilità».

Questo è il tuo primo albo illustrato: come cambia il tuo modo di scrivere e immaginare la storia sapendo che gli verranno affiancate delle immagini?

«Le parole devono essere essenziali e ben calibrate, secche ma anche ariose, in modo che l’illustratore possa attraversarle con rispetto ma anche lo spazio necessario a una riscrittura, a volte può anche stravolgere il testo, sempre ha il compito di raccontare la stessa storia attraverso un alfabeto parallelo, altrimenti è semplice didascalia che non serve a nessuno».

A proposito di immagini, la collaborazione con Ofra Amit è riuscita a dar vita a ciò che volevi immaginare con le tue parole?

«Sì, è stata eccezionale. Amo le immagini di Ofra, non posso più immaginare la mia storia slegata dai visi e dai dettagli del suo tratto».

Infine vorrei chiederti se c’è uno stile, un registro preciso per rivolgersi ai lettori più giovani. Credi sia un caso che molti narratori “per adulti” di grande fama, abbiano scritto anche per ragazzi e bambini?

«Il mio registro è: non sottovalutarli. Non ricorrere a vezzeggiativi o parole edulcorate, non cercare una morale. Siamo persone, sempre: bambini, adulti, ragazzi. Chi scrive ha il compito di trovare degli agganci che rendano la sua storia appetibile alla fascia di età a cui è rivolta, ma soprattutto ha il dovere di raccontarla così come la pensa, senza addolcire la pillola. Andare a cercare una parola più difficile sul vocabolario è qualcosa che io metto nel conto, ridurre all’osso la lingua è sbagliato. Divertire e far riflettere, suscitare lacrime e risate, incuriosire e meravigliare: questo possiamo e dobbiamo e su questo dobbiamo concentrarci. Non è un caso che molti scrittori sentano il bisogno di rivolgersi a una fascia di lettori che per tanti versi è migliore di quella adulta: se ne fregano delle mode e del nome in copertina, non leggono le recensioni, funziona soprattutto il passaparola tra loro… Più meritocratico di così!»

(di Francesco Musolino)

Fonte: Tempostretto.it del 19 aprile 2012