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Ricordando Bruno Shulz. Nadia Terranova presenta “Bruno”
La scrittrice messinese Nadia Terranova ha voluto far rivivere la dolcezza e la bellezza della scrittura dello scrittore ed intellettuale Bruno Schulz (La bottega color cannella) in un libro agrodolce, cui è destinato il messaggio di far capire ai più piccoli (il libro è consigliato dai 10 anni in su) anche il dramma dell’Olocausto, del Male assoluto. Bruno (edito da Orecchio Acerbo, pp. 40, cm21x30,5 – €16) è un bambino ebreo. La grossa testa lo rende incerto e impacciato nei movimenti, il carattere è schivo e introverso. Curioso e attento a ogni cosa che lo circonda, è affascinato dalle eccentriche stravaganze del padre, dalle sue stupefacenti metamorfosi. Lo perderà anzitempo, ma, non volendosene separare del tutto, farà rivivere nei suoi disegni e nei suo scritti la straordinaria capacità paterna di riconoscersi e identificarsi in ogni oggetto, in ogni animale, in ogni persona. Fino a una giornata d’autunno del 1942, quando un ufficiale nazista lo ucciderà per strada, nel ghetto di Drohobycz, una piccola città della Galizia Orientale. Il racconto è accompagnato, non solo illustrato, dalle belle tavole di Ofra Amit.
Com’è nato “Bruno” e perché hai voluto raccontare di Bruno Schulz?
«Quasi dieci anni fa ero una neolaureata in filosofia, squattrinata e appena sbarcata a Roma per seguire un corso di editoria. Mentre scartabellavo in una libreria alla ricerca di testi che mi avrebbero dovuto illuminare sulle tendenze del mercato, sono stata attratta da questo librone che sembrava uno scrigno, “Le botteghe color cannella” di Bruno Schulz. A dispetto della sua mole, del prezzo che allora mi sembrò esoso e di un’aria fuori dal tempo e quindi completamente inutile per i miei scopi dell’epoca, me ne innamorai e lo divorai in pochi giorni. Da allora è una rilettura costante. Quando ho proposto a Fausta Orecchio, l’editore di Orecchio Acerbo insieme a Simone Tonucci, un racconto sulla vita di Bruno bambino, lei ne è stata incuriosita e poi entusiasta. La storia di Schulz è piena di simboli, è insieme umana e mitologica: c’è un continuo legame con la morte, con l’infanzia, con l’ebraismo e con un senso profondo di impotenza ed estraneità; e c’è questo adulto-bambino schivo, strano, che guarda il mondo con occhi obliqui e ce lo restituisce con parole immaginifiche e potenti».
Questa storia è anche, forse soprattutto, un modo per raccontare il Male e il dramma dell’Olocausto ai più piccoli. Credi sia importante che anche i bambini sappiano?
«Sì, ma non per un senso del dovere meccanico né per sbarazzarci la coscienza: è importante perché non ci siano contorte zone d’ombra dove crescono paure che possono diventare facilmente mostri senza nome. Invece è importante che i bambini diano un nome alle cose, che sappiano che non esistono il bene e il male come entità separate e assolute, ovviamente con gradualità e delicatezza, senza che si offenda mai la loro sensibilità».
Questo è il tuo primo albo illustrato: come cambia il tuo modo di scrivere e immaginare la storia sapendo che gli verranno affiancate delle immagini?
«Le parole devono essere essenziali e ben calibrate, secche ma anche ariose, in modo che l’illustratore possa attraversarle con rispetto ma anche lo spazio necessario a una riscrittura, a volte può anche stravolgere il testo, sempre ha il compito di raccontare la stessa storia attraverso un alfabeto parallelo, altrimenti è semplice didascalia che non serve a nessuno».
A proposito di immagini, la collaborazione con Ofra Amit è riuscita a dar vita a ciò che volevi immaginare con le tue parole?
«Sì, è stata eccezionale. Amo le immagini di Ofra, non posso più immaginare la mia storia slegata dai visi e dai dettagli del suo tratto».
Infine vorrei chiederti se c’è uno stile, un registro preciso per rivolgersi ai lettori più giovani. Credi sia un caso che molti narratori “per adulti” di grande fama, abbiano scritto anche per ragazzi e bambini?
«Il mio registro è: non sottovalutarli. Non ricorrere a vezzeggiativi o parole edulcorate, non cercare una morale. Siamo persone, sempre: bambini, adulti, ragazzi. Chi scrive ha il compito di trovare degli agganci che rendano la sua storia appetibile alla fascia di età a cui è rivolta, ma soprattutto ha il dovere di raccontarla così come la pensa, senza addolcire la pillola. Andare a cercare una parola più difficile sul vocabolario è qualcosa che io metto nel conto, ridurre all’osso la lingua è sbagliato. Divertire e far riflettere, suscitare lacrime e risate, incuriosire e meravigliare: questo possiamo e dobbiamo e su questo dobbiamo concentrarci. Non è un caso che molti scrittori sentano il bisogno di rivolgersi a una fascia di lettori che per tanti versi è migliore di quella adulta: se ne fregano delle mode e del nome in copertina, non leggono le recensioni, funziona soprattutto il passaparola tra loro… Più meritocratico di così!»
(di Francesco Musolino)
Vanessa Diffenbaugh: «I fiori ci parlano. Basta saperli interpretare»
Fresia? Amicizia duratura. Giglio? Regalità. Lavanda? Diffidenza. Basilico? Odio. Tulipano? Dichiarazione d’amore. Ai primi posti delle classifiche di narrativa straniera, Il linguaggio segreto dei fiori (Garzanti, tr. it di Alba Mantovani; pp. 368; €18.60) sembra aver davvero stregato i lettori e non solo le lettrici di tutta Europa grazie al riuscito mix di sentimento e amore materno ma soprattutto per aver saputo schiudere la porta sul misterioso mondo dei fiori e sui loro molteplici e talvolta arcani, significati. Non a caso, proprio l’Italia, con il suo immenso e variopinto patrimonio floreale, è stato fra i paesi che hanno accolto con maggiore entusiasmo questo titolo.
Tempostretto.it ha incontrato l’autrice, Vanessa Diffenbaugh in occasione della sua presentazione al Salone del Libro di Torino.
«Non mi fido, come la lavanda. Mi difendo, come il rododendro. Sono sola, come la rosa bianca, e ho paura. E quando ho paura, la mia voce sono i fiori».
Cosa l’ha spinta a voler rivelare il linguaggio segreto dei fiori?
«Quando ho cominciato a scrivere questo libro non avevo idea di dove mi avrebbe condotto ma sono molto contenta di aver voluto parlare dei fiori e del loro significato nascosto perché sto ottenendo grandi risposte dai miei lettori, in special modo proprio da quelli italiani. Credo che i fiori siano un sistema meraviglioso per comunicare e adesso ho rivelato anche questo mio piccolo segreto che è alla base del mio libro»
Il significato di alcuni fiori come la rosa e il giglio è universalmente noto. Viceversa alcuni fiori l’hanno stupita per il loro significato?
«Sì, in particolare il vischio. Tutti lo associamo al Natale o al fatto che ci si baci sotto il suo rametto ma nel linguaggio specifico dei fiori significa “io supererò tutte le difficoltà”. Quando l’ho scoperto sono rimasta molto sorpresa e il fatto che fosse un messaggio colmo di speranza mi ha ispirato la primissima scena del romanzo nella quale avviene l’incontro fra Victoria e Grant: lei gli regala del rododendro – che significa “stai attento” – e lui risponde proprio con il vischio. In quel momento però Victoria non sa se Grant conosca o meno il significato recondito del vischio e da subito si instaura anche un’aura di mistero, legata al codice floreale…
Non è dunque un azzardo affermare che i fiori posseggano un linguaggio segreto.
«Affatto. Tuttavia il significato dei fiori, è importante sottolinearlo, varia da cultura in cultura e soprattutto col passare del tempo si modifica».
Chi è Victoria e perché decide di rifugiarsi nei fiori?
«Victoria è una ragazza che è nata e cresciuta nel sistema dell’affidamento americano. Non ha una famiglia stabile, è molto sola e si fida poco degli altri. Lei comunica attraverso i fiori perché le è stato insegnato dall’unica donna che l’ha amata come fosse sua madre, Elizabeth, e ciò le dà un senso di sicurezza».
A proposito: ha davo vita a Camellia Network. Di cosa si tratta?
«La scrittura e le vicende legate all’affidamento sono al centro della mia vita tutti i giorni. In generale il tema dell’affidamento negli USA non è al centro dell’attenzione e c’è sempre molta confusione sui media. Camellia Network è uno spazio online dove i ragazzini dati in affidamento possono postare le proprie foto, i dati, raccontare le loro storie, i loro desideri per il futuro, le loro necessità. Oggi i social network sono un mezzo molto potente e tramite facebook cerchiamo di costruire una rete salda e sicura con i donatori in modo da poter costruire un contatto stabile fra loro e i ragazzi».
Chiudiamo con una curiosità. Anche l’autrice comunicava con il linguaggio dei fiori?
«Sì e voglio raccontarvi un aneddoto. Quando ho scoperto il linguaggio dei fiori ero un adolescente e ne sono subito rimasta affascinata. Sono tornata a casa e ho scritto una poesia d’amore con il linguaggio vittoriano, legando insieme i fiori, uno per uno. Ho cercato tutti i fiori che mi servivano in giro per i vivai cittadini e ho allegato una grossa pesca perché il fiore che mi serviva non l’ho trovato. La pesca significa “sono tua prigioniera”. Ovviamente ho allegato anche il dizionario per tradurla!».
Diffenbaugh Vanessa. Per scrivere Il linguaggio segreto dei fiori Vanessa Diffenbaugh ha tratto ispirazione dalla sua esperienza come madre adottiva. Dopo aver studiato scrittura creativa alla Stanford, ha tenuto corsi di arte e scrittura ai bambini delle comunità di accoglienza. Lei e suo marito hanno tre figli e vivono a Cambridge, nel Massachusetts. Il linguaggio segreto dei fiori è il suo primo romanzo.