Amélie Nothomb si racconta.

Quando entra in una stanza, con il suo cappello a cilindro di velluto, la celebre scrittrice belga Amélie Nothomb non può davvero passare inosservata. Divenuta presto una vera e propria celebrità letteraria grazie anche alla sua proverbiale prolificità – sta ultimando il suo 75° libro – con Uccidere il padre (Voland), la Nothomb è tornata ai livelli dei suoi più grandi successi (Igiene dell’assassinoStupori e tremori) narrando la storia del talentuoso e irrequieto quindicenne Joe che incrocia il destino del più grande mago vivente, Norman e della sua compagna, Christina. Las Vegas con la sua promessa di fama e successo rimane a lungo un’esca visto che Norman vive nella ben più anonima Reno. Ma parafrasando la sua scelta controcorrente e di basso profilo, la Nothomb conclude che il Papa non possa essere una persona perbene proprio perché continua a risiedere nel Vaticano. Uccidere il padre, grazie ad una scrittura pungente e ad una arguta ironia si rivela un romanzo distillato da sorseggiare con cura o da ingollare d’un sorso, lasciandosi travolgere dal fascino della magia e dal demone del fuoco, dal continuo gioco fra controllo e abbandono, fedeltà e tradimento su cui ruota questo romanzo. E infine, come una perfetta illusionista, la Nothomb ci riserva anche un colpo di scena degno di nota. Chapeau.


Amélie, qual è stata la scintilla che ha dato il via al suo ventesimo romanzo?

Questa storia è nata grazie alla frequentazione dell’ambiente dei maghi, che risale a dieci anni fa. Pensavo mi avessero avvicinato per via del cappello che indosso e invece ho scoperto d’essere la lettura preferita dei maghi e, nel tempo, ho potuto frequentarli e conoscere e apprendere il loro ambiente. Il personaggio di Joe Whip è un antieroe, uno Iago moderno.

Com’è nato questo quindicenne?

Ha visto bene, sarebbe perfetto nei panni di uno Iago contemporaneo. L’ambiente dei maghi è stato lo sfondo ideale ma per scrivere sono tornata indietro sino ai miei quindici anni e vi garantisco che quella è un’età folle, in cui si può fare davvero di tutto, si può diventare ladri, scrittori o assassini.

Perché l’affascina tanto la magia?

La magia ha un fine generoso perché pone nell’altro il dubbio sulla realtà e proprio per questo c’è un forte legame con la vera letteratura.

É andata davvero al festival Burning Man?

 Certamente! Sono andata all’edizione del 2010 con molto scetticismo ma ne sono rimasta sbalordita. È un’utopia che funziona da vent’anni, una vera magia: una città che compare all’improvviso divenendo meta per circensi d’ogni tipo, per poi scomparire nella polvere del deserto. Dopo esserci stata ho pensato che ne dovevo scrivere, per i terrestri. I fire-dancer di cui scrive sono in qualche senso dei maghi, sempre in bilico fra pericolo e controllo? I più grandi maghi sono proprio loro, perché scendono a patti con il fuoco, lo dominano ma sono continuamente in pericolo. Li ammiro perché rischiano la vita eppure non lo fanno per i soldi ma solo per stupire, per ammaliare il pubblico, specie quello del Burning Man.

In inglese si scrive “fire-dancer”, in francese “danseur de feu”: non è affatto la stessa cosa..

Sì è vero, perché in francese si aggiunge un complemento che trovo superfluo. Non ho una particolare ammirazione per la lingua inglese ma in questo caso dà vita ad un’espressione molto più forte, lascia che le parole cozzino fra loro e diano vita a delle scintille. In francese c’è troppa struttura, come nella traduzione italiana e invece, bisogna lasciare che il fuoco possa danzare. Anche con le parole.

Alla fine Christine cede a Joe ma Norman vorrebbe non provare gelosia. Lei crede sia possibile un amore totalmente libero in una coppia?

 L’amore libero, quello degli hippie, esiste davvero e abbiamo sbagliato a prenderlo in giro, a svilirlo, sia perché non è fallito ma soprattutto perché le alternative successive sono state peggiori. Nel west degli USA ci sono ancora hippie e si tratta di una comunità molto più equilibrata di quanto si creda.

Joe è in cerca di un padre ma la voglia di paternità di Norman può tramutarsi in una ossessione?

Naturalmente non ho un’esperienza personale ma ho osservato che molti padri, semplicemente e in modo assai ingeneroso, non vengono riconosciuti dai propri figli. Credo che si tratti di un tipo di sofferenza prettamente moderno che andava analizzata e questa è stata un’altra delle scintille che ha dato vita al romanzo.

Lei scrive che il Vaticano e Las Vegas sono due luoghi illusori…

Las Vegas e il Vaticano vengono entrambe riconosciute nel mondo per qualità che non rispecchiano. Il Vaticano dovrebbe essere la sede del cattolicesimo e invece vi regna il clero con un potere enorme e molte ombre. Allo stesso modo, Las Vegas è la capitale del gioco ma in realtà è il luogo simbolo della magia. Adoro come questi due posti riescano ad illuderci ogni giorno, celando la propria natura al mondo.

Sta scrivendo il suo 75° libro: che rapporto ha con l’ispirazione?

È verissimo, lo sto finendo proprio in questi giorni. Sorprende anche me questa prolificità ma la mattina, quando mi sveglio, mi ritrovo incinta e devo scrivere. Come se anni fa si fosse aperta una ferita e da allora l’ispirazione è continua. Per fortuna.

Francesco Musolino

Fonte: Satisfiction

Luigi Farrauto: “Vi racconto il mio Medioriente. Senza alcun pregiudizio”

Alex e Jari sono il giorno e la notte eppure, come talvolta accade, li lega un’amicizia davvero forte. Entrambi condividono una grande passione, la fotografia, ma la declinano in modo totalmente divergente: Alex, predilige la patinatura delle foto commerciali ed è un vero maniaco dei dettagli, alla costante ricerca della perfezione; Jari, invece, è un fotoreporter che vuole catturare l’attimo, rubarlo e imprimerlo sulla pellicola. Sono loro due i protagonisti di Senza passare per Baghdad (Voland edizioni; pp. 208; €13), avvincente romanzo d’esordio di Luigi Farrauto, classe ’81 e dottorando di Design al Politecnico di Milano. Scritto di getto e in condizioni davvero “particolari”, il libro di Farrauto brilla per il potere evocativo delle parole e l’ironia, tanto da risultare un insieme di tante cose: un inno al viaggiare, all’amicizia e un invito a porre da parte i pregiudizi per aprirsi davvero al mondo. Anche senza diventare necessariamente nomadi.

Il titolo può essere davvero la marcia in più per un libro, oggi più che mai. Il tuo è molto intrigante. Come lo hai scelto?
È stato impegnativo, ma divertente. Sul titolo sono stato indeciso fino all’ultimo. Ho chiesto consigli a vari amici, avevo una lista infinita. Il titolo iniziale non era lo stesso. Ma poi, rileggendo il testo per le correzioni, quella frase si è staccata dal foglio. Mi è parso il titolo ideale. Riassume molto dell’immaginario del romanzo.
Chi sono i tuoi due protagonisti? Alex e Jari sembrano agli antipodi ma saldamente uniti da una forte amicizia…
In tutto il romanzo ho voluto estremizzare comportamenti, legami, punti di vista. Dunque le visioni che Alex e Jari hanno della fotografia, della paura, del viaggio, dell’ambizione… diverge quasi sempre. Ho cercato di raccontare due personaggi di natura antipodica, di esplorarne i limiti, le ‘terre più estreme’. Poi tra questi due estremi penso che ognuno possa trovare il suo spazio, rivedersi in qualche comportamento o pensiero.
I protagonisti del romanzo sono i classici amici di vecchia data che crescendo si dimostrano diversissimi. Ma condividono tutto e da sempre, dunque le loro differenze diventano legami, occasioni di confronto o motivo di invidia.
Alex e Jari esprimono le tue due nature o ti senti più vicino ad uno dei due?
Onestamente mi sento vicino a entrambi e a nessuno. Di sicuro mi rivedo in alcune delle loro caratteristiche, forse in quelle negative o di entrambi… In un certo senso ho un po’ preso in giro molte delle mie ‘manie’…
Ci racconti la genesi di questo romanzo d’esordio? Perché hai deciso di accostarti alla narrativa?
Scrivere mi piace. Lo faccio da sempre, e questo romanzo l’ho scritto di getto, in venti giorni. Vivevo ad Amsterdam, mi era venuta una tendinite fortissima e non potevo usare il mouse. Dunque non lavoravo. Per di più ero caduto dalla bici quasi fratturandomi entrambe le mani. Avevo i pollici bloccati. Però scrivere mi riusciva, perché entrambi gli indici e i medi erano salvi. Dunque ho scritto per venti giorni senza mai smettere, tipo Mosè nel deserto. Più che parlare con dio, lo maledicevo per il dolore, ma alla fine sono contento dei risultati…
Per questo motivo ho voluto raccontare di mani e manisti. Era un periodo in cui ero molto concentrato sulle mani e la loro funzione, a furia di fisioterapia e massaggi. Finiti quei venti giorni il grosso del dolore era praticamente passato. Ovviamente anche grazie alle cure -sennò sembra una storia alla Padre Pio-, ma era passato. E il grosso della storia c’era. Poi negli ultimi tre anni ho lavorato ai dettagli, all’intreccio, ho visitato i luoghi che ho descritto. Adoro scrivere, ma sono molto lento, perché mi concentro allo sfinimento sulle parole e sulle immagini da evocare, dunque per una pagina ci posso mettere settimane, accidenti.
Secondo te esiste la fotografia perfetta? Se così fosse cosa dovrebbe raffigurare?
Credo sia impossibile dirlo a priori. La fotografia è talmente vincolata al contesto, alle tecniche, al soggetto, all’autore… Penso che definire la ‘foto perfetta’ sia un po’ come chiedere se esista il libro perfetto, o il quadro perfetto… Di sicuro esiste la fotografia ‘imperfetta’. Certo la tecnica può rendere una foto ‘precisa’, o ‘sbagliata’, come quelle di Alex e Jari nel romanzo. Ma la perfezione è un’altra cosa. Io non l’ho mai conosciuta, ma so che è un’altra cosa.
Cosa rappresenta la medina di Damasco? Perché hai scelto di ambientare il tuo romanzo d’esordio proprio in questi luoghi narrativi?
La medina di Damasco è uno dei luoghi più belli che abbia mai visitato. Ci sono andato molte volte, è stato l’argomento della mia tesi di laurea… Dunque è un luogo a cui sono particolarmente affezionato. Nel romanzo diviene un po’ il simbolo di tutto il Medioriente, uno specchio del mondo arabo che personalmente adoro.
Ho viaggiato molto nel Medioriente, perciò dire la mia su quei posti era il minimo che potessi fare. Non voglio sfociare in una facile retorica, nel buonismo, ma ultimamente quando si parla di arabi è solo per gridare allo stupratore. Nell’aria c’è un etnocentrismo che mi spaventa. Il mondo arabo continua ad essere lo spauracchio delle paure dell’Occidente. Ogni volta che dico di andare in Siria, o in Giordania, la gente mi saluta come se fosse l’ultima volta. Mentre andare a Londra è normalissimo. I media hanno disintegrato un’immagine favolosa, che si era creata attorno agli arabi in millenni. La cinematografia ci ha cresciuti abituandoci all’idea che gli arabi fossero sadici attentatori, terroristi, bari…Conosci il documentario “Planets of the Arabs”? Il mondo arabo a cui faccio riferimento nel romanzo è quello delle Mille e una Notte, quell’atmosfera imperfetta e avvolgente, difficilmente descrivibile a parole che si vive solo visitandolo: di quel mondo non c’è alcuna traccia su tivù e giornali.
Voland, nello stesso mese di marzo, ha ripubblicato il famoso breviario di Vanni Beltrami. Vorrei chiederti, ti senti affine allo spirito nomade?
Il Breviario lo sto per comprare, proprio oggi. Non l’ho ancora letto, dunque non so bene cosa intenda per ‘spirito nomade’. Qualunque cosa sia, mentirei se dicessi di non sentirmici in qualche modo affine. Adoro viaggiare e lo farei senza mai fermarmi, ma non mi sento davvero un ‘nomade’. Io amo anche tornare a casa. Come dice Saramago, “il viaggiatore torna subito”.

 

Luigi Farrauto. Nato nel 1981, Luigi Farrauto (www.faroutof.it) è dottorando in Design al Politecnico di Milano. Ha vissuto ad Amsterdam e a Boston, occupandosi di cartografia, mappe e wayfinding. Appassionato di archeologia, nel tempo libero studia l’arabo e scatta foto in giro per il mondo. Senza passare per Baghdad è il suo primo romanzo.

 

Fonte: www.tempostretto.it del 23/03/2011