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«Oggi il pm Di Matteo corre un rischio davvero enorme». Sebastiano Ardita racconta “Catania Bene”.
«Per capire il fenomeno mafioso oggi è necessario comprendere come si spostano gli ingenti capitali sul mercato» e proprio la dimensione affaristica è centrale nel fenomeno di Cosa Nostra catanese, la cui disamina è l’oggetto del libro “Catania Bene” (Mondadori, pp.200 €20) di Sebastiano Ardita, Procuratore Aggiunto presso la Procura della Repubblica di Messina. Un libro-vademecum per capire come si sia evoluta la mafia sotto l’Etna e come sia possibile comprendere gli scenari futuri.
Perché Catania Bene?
«Alla luce di decenni di esperienza professionale, ho voluto raccontare il fenomeno di Cosa Nostra catanese, giungendo a delle valutazioni complessive. Senza una ricerca del comune denominatore è impossibile comprendere la mafia odierna e i suoi rapporti con il potere e le istituzioni». Leggi il resto di questa voce
Manlio Sgalambro: «La scrittura è la mia psicanalisi»
In un’elegante e sobrio appartamento nel centro di Catania, incontro il noto filosofo, scrittore e poeta Manlio Sgalambro. Camicia bianca abbottonata sino al colletto e un gilet nero pendant con i pantaloni, ci accoglie dinnanzi ad un lungo tavolo ingombro di fogli d’appunti, moltissimi libri e plichi postali, su cui si trovano anche due computer portatili: “prima scrivevo solo a penna ma ora lavoro anche al pc ma – aggiunge – quello che utilizzo non è connesso ad internet”. In attesa dell’autunno, quando uscirà “Apriti Sesamo” – il nuovo album di Franco Battiato con cui collabora sin dal 1993 – Sgalambro ritorna in libreria con “Della Misantropia” (Adelphi, pp. 120 euro 10) dove ha indagato lo stretto legame che essa intrattiene con la filosofia stessa, cui l’autore ammette d’aver dedicato l’intera vita, senza rimpianto alcuno. A dispetto della vis dei suoi scritti, Sgalambro (nato a Lentini, nel 1924) sfoggia una calma serafica, merito, a suo dire, dello sfogo concessogli dalla scrittura…
Lei scrive che la misantropia è intimamente connessa alla filosofia. Perché, sino ad oggi, non era stato trattato questo legame?
«Le idee, nell’accezione platonica, nascono da un forte distacco dalla realtà, un momento di forte contrapposizione che possiamo definire misantropico. La difficoltà sta nel fatto che un pensatore accademico e pacato, non può cogliere questo momento d’odio per la realtà che coglie la fecalità dell’uomo».
Afferma che la psicologia la ripugna come guardare dal buco della serratura.
«L’ho scritto e lo confermo. Detesto chi si conosce, anzi, io non mi conosco affatto. Se dovessi bestemmiare, direi che la scrittura è la mia psicanalisi».
A proposito, colpisce la contrapposizione fra la forza dei suoi scritti e la sua figura sobria e serena. Merito proprio della scrittura?
«Certamente la scrittura è capace di dare fuoco alle polveri. Come ammoniva l’ars poetica di Aristotele è possibile anche liberarsi dalle passioni e così io mi libero dall’odio scrivendone. In tal modo il mio lato misantropo mi ha lasciato più quieto».
Non si iscrisse alla facoltà di filosofia, piuttosto la studiò da autodidatta. Perché?
«Mi iscrissi a giurisprudenza ma prima diedi un’occhiata alla facoltà di filosofia e lì vidi un uomo malinconico, estraneo a tutto e dissi all’amico con cui ero, “ecco un filosofo”. Ma lui replicò, “no, ha saputo che sua moglie l’ha tradito”.
Praticamente tutti i suoi libri sono editi da Adelphi. Perché scelse questa casa editrice?
«Mi indirizzai a loro con decisione perché i loro libri erano i più puri, i più avulsi da altri interessi. Inviai il manoscritto, avevo 55 anni e dopo due anni di silenzio mi chiamò Roberto Calasso e mi disse che le mie idee sulla pagina “non erano solo mature ma marcie”. Poco dopo uscì “La morte del sole”, il mio primo libro con Adelphi cui seguirono tutti gli altri».
Lei si è sempre schierato contro l’antimafia intellettuale propria di Sciascia e Fava. Conferma tutto?
«Senza dubbio, poiché costoro operavano solo con un tratto di penna, facendo il bene astratto e il male concreto. Ovviamente la lotta sul terreno contro la parte necessaria della mafia, quella condotta da Falcone e Borsellino, era cosa ben diversa. Viceversa questi intellettuali antimafiosi avevano perso di vista la realtà di fatto e non tenendo conto dei limiti del territorio, hanno contribuito ad un regresso, credo non momentaneo, della Sicilia. Del resto quando si tornano periodicamente ad esaltare le pagine di Leonardo Sciascia o Claudio Fava relativi a tali temi, si fa sfoggio della retorica tutta siciliana, in cui trionfano gli ideali del “non volere”, affini alla sua natura intimamente vegetativa e nirvanica».
Il libro si conclude con una presa di coscienza, “io mi possiedo”. Ovvero?
«Io posseggo delle idee, per cui non mi riferisco a me stesso soltanto dicendo “sono” ma anche e soprattutto “ho”. Le idee sono il mio patrimonio e almeno questo non lo possono tassare».
Le mancano alcune figure siciliane del passato come D’Arrigo e Bufalino?
«Certamente. D’Arrigo era davvero un genio straordinario ma venne lasciato colpevolmente isolato. Oggi invece si preferisce adorare Camilleri che, linguisticamente, è molto più povero e banale. Bufalino era un’altra grande intelligenza. Ricordo che un giorno era accanto a Sciascia e lo ascoltava parlare di mafia. Sulle sue labbra credetti di notare un leggerissimo sorriso, come chi compatisce benevolmente».
La collaborazione con Franco Battiato si rinnoverà?
«Sì, nel prossimo autunno uscirà un nuovo album che dovrebbe chiamarsi “Apriti Sesamo”. Lui non scriveva musica da quattro-cinque anni e sono stato io a convincerlo a farlo, cominciando a spedirgli testi di canzoni dallo scorso maggio. Credo proprio di aver fatto bene».
Vorrei chiederle un’ultima cosa…
«Quando morirò?».
Per carità. Piuttosto lei che idea ha dell’aldilà?
«Cosa vuole che ci sia amico mio? Noi siamo qui e dobbiamo cercare di fare qualcosa. Io ho fatto canzoni, ho scritto libri e mi sono messo un gruzzoletto da parte. Mi piacerebbe seguire le sorti di Kierkegaard il quale stabilì che la sua morte dovesse avvenire nel momento in cui liquidava l’ultima moneta del suo patrimonio. E fu proprio quello che avvenne».
Francesco Musolino®
Fonte: La Gazzetta del Sud
Prosa tagliente e carattere: alla scoperta di Viola Di Grado
Una delle sorprese del nuovo anno letterario, la giovanissima catanese Viola Di Grado, è approdata alla selezione finale del Premio Strega con il sostegno di Serena Dandini e Filippo La Porta. Il suo romanzo d’esordio, Settanta acrilico trenta lana, pubblicato da Edizioni E/O (pp. 192; € 16), sta riscuotendo grandi consensi fra la critica e il pubblico che stanno premiando una prosa originale e spigolosa, ironica e tagliente, vicina allo stile tipicamente britannico.
Viola, il tuo libro è giunto allo Strega con due padrini d’eccezione. Te l’aspettavi?
«Si prova contentezza ed emozione. Non so se me l’aspettavo, penso di no».
Un linguaggio elaborato eppure incisivo, arricchito da immagini eteree e una ficcante ironia british. Com’è nato questo libro e perché hai voluto questo titolo emblematico?
«Mi piace che nelle mie storie tutto sia qualcos’altro: Leeds è un personaggio, e pure gli ideogrammi, il tempo è un non tempo e lo spazio è un buco. Le parole sono vomito, le persone sono fiori (Camelia, Lily e diciamo pure io), il libro è un maglione in misto lana, perché racconta la spietatezza di un presente inadeguato».
Orfana di padre, anoressica nel linguaggio, traduce manuali di elettrodomestici e si veste con abiti tagliuzzati: Come nasce il personaggio di Camelia?
«Da un buco. Come tutti, in effetti. Ma lei non da un buco umano, più da un buco di senso: dall’idea di un fosso al di là del tempo, dello spazio e del linguaggio, dove sono cadute tutte le parole e il tempo si è incantato come un disco vecchio. Lei era il personaggio di una storia bucata, un personaggio-buco, ma piena di vita e sempre a caccia di significati».
Ti sei laureata a Torino, hai viaggiato in Cina e Giappone, vivi a Londra e il tuo romanzo si ambienta a Leeds ma che legami hai con la tua terra natìa?
«Nessuno. Mi sento a casa solo nei posti che non conosco bene.
Leggendoti si ha sempre l’impressione di essere sull’orlo di una voragine, di un buco. Può essere intesa come una vera e propria sensazione generazionale?
«E’ possibile. E’ stato detto così».
Viola Di Grado ha ventitré anni. È nata a Catania, si è laureata in lingue orientali a Torino e studia a Londra.
Fonte: www.tempostretto.it del 20 maggio 2011