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“Al Nord, c’è la Milano da bere. Giù, la Palermo da morire”. Intervista ad Antonio Calabrò.
Il 10 febbraio 1986 ebbe inizio il maxi-processo nell’aula bunker dell’Ucciardone di Palermo “che si concluse dopo 349 udienze, 1314 interrogatori, due lunghissime requisitorie dei pubblici ministeri Giuseppe Ayala e Domenico Signorino e 635 arringhe difensive d’una folla di oltre duecento avvocati, con 475 imputati”. Cosa Nostra, per la prima volta, venne punita in modo esemplare: Michele Greco, Salvatore Riina detto Totò ’u curtu, Bernardo Provenzano e altri 16 killer furono condannati all’ergastolo per un totale di 2665 anni di galera, confermando l’impianto accusatorio del pool antimafia guidato da Antonino Caponnetto e composto da Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta. Ma come si arrivò a questo maxiprocesso? “I mille morti di Palermo. Uomini, denaro e vittime nella guerra di mafia che ha cambiato l’Italia” (Mondadori, pp.256 €18.50) di Antonio Calabrò nasce dall’esigenza di non dimenticare il sacrificio delle vittime e la truce violenza dei carnefici, “ragionando con il passo della storia anche nei confronti delle nuove generazioni”. Del resto Calabrò – giornalista di lungo corso, nato a Patti nel 1950, oggi responsabile Cultura di Confindustria, vicepresidente di Assolombarda e Consigliere delegato della Fondazione Pirelli – negli anni della guerra di mafia era in strada, taccuino alla mano, raccontando quei fatti di sangue per “L’Ora” di Palermo, di cui era caporedattore. Un libro fatto di pagine dense di fatti, nomi e crimini efferati – fra cui l’omicidio del cronista Mauro De Mauro e quello di Piersanti Mattarella, l’allora presidente della Regione siciliana, fratello di Sergio, attuale presidente della Repubblica – ma è nel comporre il quadro d’insieme, lo sfondo animato, che Calabrò dimostra le sue doti narrative: negli anni Ottanta, al Nord, i soldi giravano, gli italiani impazzivano per Carmen Russo e Drive-in e quasi nessuno si curava del fiume di sangue che scorreva in Sicilia. Ovvero, per dirlo proprio con le parole di Calabrò, “al Nord, c’è la Milano da bere. Giù, la Palermo da morire”.
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Il giornalista Piero Melati: “oggi il movimento dell’antimafia è all’anno zero”.
Cade oggi, in un clima infuocato, il ventitreesimo anniversario della strage di via d’Amelio a Palermo. Il 19 luglio 1992 vennero uccisi da un’autobomba imbottita di tritolo, il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta: Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Dopo le dimissioni da assessore alla sanità di Lucia Borsellino – primogenita di Paolo e Agnese – sono giunte le intercettazioni telefoniche – vere o presunte – fra il governatore della Sicilia, Rosario Crocetta e il chirurgo Matteo Tutino, ad esacerbare il clima di sospetto di possibili collusioni ancora in atto fra stato e mafia. La Gazzetta del Sud ha intervistato il giornalista palermitano Piero Melati – oggi vice caporedattore del “Venerdì” di Repubblica – che seguì per “L’Ora” di Palermo le guerre di mafia e il primo maxiprocesso a Cosa Nostra. Melati, in “Vivi da morire” (Bompiani, pp.320 €16) racconta – con il giornalista palermitano Francesco Vitale – vicende di mafia e sangue, donando coraggiosamente “voce” ad eroi civili come il giornalista Matteo Rostagno, lo scrittore Leonardo Sciascia, il poliziotto Ninni Cassarà e i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Un libro – presentato alla kermesse letteraria palermitana “Una Marina di Libri” – in cui gli autori sussurrano suggestioni che colpiscono in pieno il lettore poiché fanno riferimento a fonti e documenti reali spesso poco noti o dimenticati. Un libro ricco di porte socchiuse, di domande senza risposta che oscilla fra il romanzo e il saggio; dalle tre guerre di mafia alle numerosissime coincidenze nella storia insanguinata della Sicilia sino al Castello Utveggio e lo stadio cittadino, teatro della morte dimenticata di cinque operai da cui si apre la narrazione di questo libro ambientato a Palermo, città metafora della condizione umana. Leggi il resto di questa voce
«Sono convinto che le persone che sanno morire possono insegnarci come vivere». Alessandro D’Avenia racconta Padre Pino Puglisi
«Sono sempre stato un appassionato della storia della mafia e quando ho letto che il killer Salvatore Grigoli, uno dei criminali mafiosi più efferati, avesse perso il sonno per il sorriso di Don Pino Puglisi, ho capito che dovevo scrivere questo libro». Alessandro D’Avenia oltre ad essere uno scrittore di successo (autore di “Bianca come il latte, rossa come il sangue”, trasposto cinematograficamente con successo per la regia di Giacomo Campiotti) è uno dei professori più amati d’Italia. Sul suo blog, Prof2.0, ogni giorno si confronta e si racconta con quel giovane pubblico che trova in lui, nella sua voce e nel suo modo di raccontare, un punto saldo negli anni spesso turbolenti dell’adolescenza. D’Avenia, palermitano di nascita classe 1977, oggi insegna lettere in un liceo milanese mettendo in pratica quotidianamente gli insegnamenti di una figura speciale che ha cambiato davvero la sua vita e quella di una generazione: Don Pino Puglisi. Assassinato brutalmente dalla mafia, Don Pino Puglisi (affettuosamente 3P per i suoi alunni) e il suo sorriso misericordioso, sono assurti a simbolo di una lotta fattiva contro la mafia e i suoi insegnamenti sono al centro di “Ciò che inferno non è” (Mondadori, pp. 300 €19), il nuovo romanzo di D’Avenia (che verrà presentato sabato 8 novembre a Palermo ai Cantieri della Zisa con il presidente del Senato, Pietro Grasso e la giornalista Adriana Falsone). Nel romanzo D’Avenia fa perno sulla figura di Federico – studente del liceo classico Vittorio Emanuele II nella Palermo del 1993 – un ragazzo pieno di dubbi e domande che trova nel suo insegnante di religione, 3P, uno spiraglio e una guida per riscoprire la sua Palermo ripartendo proprio dai casermoni di Brancaccio mentre sullo sfondo, la città combatte la lotta impari fra bene e male, fra legalità e mafia. Leggi il resto di questa voce