«Sono convinto che le persone che sanno morire possono insegnarci come vivere». Alessandro D’Avenia racconta Padre Pino Puglisi
«Sono sempre stato un appassionato della storia della mafia e quando ho letto che il killer Salvatore Grigoli, uno dei criminali mafiosi più efferati, avesse perso il sonno per il sorriso di Don Pino Puglisi, ho capito che dovevo scrivere questo libro». Alessandro D’Avenia oltre ad essere uno scrittore di successo (autore di “Bianca come il latte, rossa come il sangue”, trasposto cinematograficamente con successo per la regia di Giacomo Campiotti) è uno dei professori più amati d’Italia. Sul suo blog, Prof2.0, ogni giorno si confronta e si racconta con quel giovane pubblico che trova in lui, nella sua voce e nel suo modo di raccontare, un punto saldo negli anni spesso turbolenti dell’adolescenza. D’Avenia, palermitano di nascita classe 1977, oggi insegna lettere in un liceo milanese mettendo in pratica quotidianamente gli insegnamenti di una figura speciale che ha cambiato davvero la sua vita e quella di una generazione: Don Pino Puglisi. Assassinato brutalmente dalla mafia, Don Pino Puglisi (affettuosamente 3P per i suoi alunni) e il suo sorriso misericordioso, sono assurti a simbolo di una lotta fattiva contro la mafia e i suoi insegnamenti sono al centro di “Ciò che inferno non è” (Mondadori, pp. 300 €19), il nuovo romanzo di D’Avenia (che verrà presentato sabato 8 novembre a Palermo ai Cantieri della Zisa con il presidente del Senato, Pietro Grasso e la giornalista Adriana Falsone). Nel romanzo D’Avenia fa perno sulla figura di Federico – studente del liceo classico Vittorio Emanuele II nella Palermo del 1993 – un ragazzo pieno di dubbi e domande che trova nel suo insegnante di religione, 3P, uno spiraglio e una guida per riscoprire la sua Palermo ripartendo proprio dai casermoni di Brancaccio mentre sullo sfondo, la città combatte la lotta impari fra bene e male, fra legalità e mafia.
Perché hai voluto raccontare Don Pino Puglisi?
«Questa storia l’ho vissuta non sulla carta ma sulla carne. Lui è stato il professore dei miei fratelli e insegnava nel liceo Vittorio Emanuele II a Palermo. Quando non tornò più, tutto si paralizzò. La morte di Don Pino Puglisi è stato uno spartiacque: improvvisamente ci siamo trovati nel bel mezzo della lotta alla mafia. Ho deciso di diventare insegnante mettendo in pratica ciò che avevo imparato da 3P, il voler essere di servizio ai ragazzi senza mettersi mai sul piedistallo».
Eppure hai dichiarato che non avevi alcuna intenzione di scrivere questo libro…
«Esattamente, del resto metto in pratica i suoi insegnamenti tutti i giorni ma la decisione di scrivere questo romanzo è scaturita dopo aver letto la confessione di Salvatore Grigoli e di quel sorriso che Don Pino gli offrì prima d’essere ucciso. Come scrittore mi sono chiesto come fosse possibile che un uomo sorridesse al proprio assassino. Cosa significa essere così liberi da sorridere al proprio carnefice mentre si va incontro alla morte? Sono convinto che le persone che sanno morire possono insegnarci come vivere».
Questo romanzo è fortemente catartico. Non a caso è un parola che il tuo Federico adora.
«Questo è un punto fondamentale. Scrivere questo libro è stato un viaggio nella vita dei personaggi, soprattutto di Don Pino e il titolo ne è la sintesi perfetta. L’inferno è gravido di possibilità paradisiache ovvero anche nella storia più cupa ci sono tracce di salvezza e sta a ciascuno di noi scegliere se farsi o meno investire dal fascio di luce o se, invece, preferire il buio e le tenebre».
Ma c’è ancora spazio per la speranza?
«Oggi il cinismo e la disperazione ci stanno ottenebrando il cuore e la mente. Volevo raccontare questa storia proprio per capire se possiamo ancora sperare in tempi migliori, se possiamo permetterci di non perderla, la speranza. La storia di Don Pino è nella sua essenza, la dimostrazione che ciascuno di noi deve darsi da fare nella propria realtà, creando il futuro con le proprie azioni. Pochi giorni fa sono stato a Brancaccio, uno dei quartieri più difficili di Palermo e vi ho trovato uomini e donne che lottano proprio come faceva 3P. Ma la speranza dobbiamo crearla da noi, fare in modo che guidi le nostre mani».
Palermo la volevi così, talmente presente fra le pagine da divenire un personaggio del tuo romanzo?
«Palermo è una città paradossale con cui tutti i personaggi debbono confrontarsi. Da un lato è una città “tutto-porto” (Panormos, dal greco) come dice il suo nome ma è anche lo spasimo di chi non resiste, perde il respiro e vorrebbe scappare via».
Oggi torneresti a vivere a Palermo?
«Sono andato via a diciott’anni, convinto che altrove ci fosse più speranza. Oggi ho trentasette anni, sono lontano dalla mia città da diciannove anni e tutte le volte che torno rimango incantato dalla sua bellezza. Ma dietro l’angolo, c’è l’inferno. Il turista gode di passaggio delle sue grandi bellezze ma viverci oggi sarebbe impossibile perché il cuore profondo della città è in crisi».
Cosa significa saper morire con il sorriso al proprio carnefice?
«Ho scritto il libro per quelle pagine finali che sono come un colpo di martello al cuore. Agostino diceva, c’è la città degli uomini e c’è la città di Dio e Don Pino camminava nella città degli uomini, libero dai condizionamenti poiché si trovava già nella città di Dio. Per questo può sorridere al suo assassino come per dirgli, tu sei molto di più del gesto che stai compiendo in questo momento. Vorrei poter vivere la libertà di quel sorriso tutti i giorni, rimanendo liberi e colmi d’amore anche dinnanzi ai fallimenti e alle brutture della realtà».
Francesco Musolino®
Fonte: La Gazzetta del Sud, 6 novembre 2014
Pubblicato il 2014/11/07, in Interviste con tag 3p, bellezza, brancaccio, cinismo, d'avenia, falsone, grasso, inferno, mafia, mondadori, padre puglisi, palermo, prof2.0, spasimo, speranza. Aggiungi il permalink ai segnalibri. Lascia un commento.
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