Archivi Blog
Andrea Camilleri svela: «Montalbano non morirà mai. Ma un giorno finirà».
Andrea Camilleri sarà la punta di diamante della fiera dell’editoria “Una Marina di Libri” che partirà oggi a Palermo – presso la Galleria d’Arte Moderna – dando spazio e visibilità sino a domenica 7 giugno, a ben quarantanove case editrici indipendenti. Saranno numerosi i laboratori, i workshop e gli incontri in programma che richiameranno in Sicilia – secondo i dati Istat, nel 2014 il 71,8% dei siciliani non ha letto un libro – grandi nomi della narrativa italiana: da Francesco Piccolo ad Alessandro Robecchi, da Piero Melati a Michela Murgia, da Vincenzo Pirrotta a Giorgio Fontana e Gian Mauro Costa. Leggi il resto di questa voce
#HoLettoCose – Sette brevi lezioni di fisica (Carlo Rovelli, Adelphi, 2015)
#HoLettoCose – Sette brevi lezioni di fisica (Carlo Rovelli, Adelphi, 2015)
Milano è la patria dell’aperitivo. Ormai si sa.
Per cui trovandomi sotto la Madonnina mi aspettavo un tavolo imbandito di leccornie. E invece la mia amica Anna mi ha invitato ad un aperitivo-bufala. Non nel senso che era a base di mozzarella, piuttosto è stato un furto e ci ha lasciati affamati. Ma la compagnia era ottima e per ¾ del tempo abbiamo, ovviamente parlato di libri. Come sempre.
Anna ti voglio bene ma te l’avevo promesso che saresti stata nella quarta puntata di #HoLettoCose la rubrica libri scanzonata, non richiesta ed emotiva, nata per una sana voglia di parlare di libri.
Tornando in aereo ho finito di leggere “Sette brevi lezioni di fisica” di Carlo Rovelli, nell’elegante livrea Adelphi. Leggendolo mi sono sentito come mio papà che era sempre attratto da tutte le novità tecnologiche, dagli ultimi telefonini alle magie dei pc, e leggeva tutto ciò che trovava sui giornali a riguardo. Però non ci capiva nulla.
Per questo è geniale la premessa di Rovelli, luminare italiano, fisico teorico e membro dell’Institut universitaire de France e dell’Académie internationale de philosophie des sciences.
«Queste lezioni sotto state scritte per chi la scienza moderna non la conosce o la conosce poco». Leggi il resto di questa voce
«Parafrasando Churchill, i nuovi radical chic sono il peggiore degli ambienti possibili, esclusi tutti gli altri». Michele Masneri racconta “Addio, Monti”.
«Monti, antica suburra, luogo di schiavi, gladiatori e prostitute, è rimasto più o meno così fino agli anni Ottanta, poi è diventato improvvisamente il posto giusto per l’aperitivo e la cena di fusion giapponese-brasiliana». L’ossessione degli eventi, Cortina e i supermercati in cui andare a fare la spesa, passando per omaggi più o meno espliciti – da Arbasino a Gadda, da Risi a Balzac – il giornalista Michele Masneri nel suo romanzo d’esordio “Addio, Monti” (Minimum Fax, pp.167 €14), racconta la società e i salotti romani, lo sfoggio delle riviste e delle amicizie giuste, in un libro folgorante dalla prosa torrenziale, rapsodica, che trascina tutto dentro, mischiando l’alto e il basso, il cervello e la pancia, in un vortice da cui nessuno si salva; eppure la bravura del Masneri (bresciano, classe ‘74) è quella di pungere armato di humour british senza mai giudicare, senza mettere nessuno alla gogna perché in fondo i radical chic descritti da Tom Wolfe, oggi sono gli hipster, «ragazzi con grandi barbe e occhiali tartarugati appena ritornati da Berlino…sono, come scrive Walter Siti in Troppi paradisi, “la fascia alta dei morti di fame”». Un libro pungente, sfrontato ma soprattutto intelligente, che ruota sul rione Monti e sulla dorata Cortina ma soprattutto sul concetto di “gentrifricazione”, un processo che affascina il Masneri, svelando come nascono le tendenze e la ricerca delle “zone alternative”, dal Pigneto in avanti…
Un libro che somiglia ad un lavoro antropologico per la capacità di rendere con fulminanti descrizioni look, manie, tic verbali e gestualità. Com’è nato Addio, Monti?
«L’idea di Addio, Monti nasce molto poco da una trama e molto di più da un fatto linguistico; avevo voglia di scrivere un romanzo con una lingua veloce e rapida, senza tanta psicologia, con un chiacchiericcio tra due persone abbastanza colte, molto disilluse, forse molto superficiali, che raccontano di avvenimenti esistenziali anche drammatici, e fino in fondo non si capisce se sono dei cinici tremendi o se invece in fondo a questo cinismo c’è qualcosa. L’ispirazione è Fratelli d’Italia di Alberto Arbasino, per me il più grande romanzo del dopoguerra italiano, e per il quale Addio, Monti è un piccolo omaggio, a partire dall’incipit. Un Fratelli d’Italia aggiornato ai tempi della troika e della austerity; lì c’erano ragazzi-bene a scorrazzare tra Capri la Baviera e il festival di Spoleto durante l’Italia del boom. Qui, nell’Italia della crisi, si sta chiusi in un supermercato a parlare delle proprie diete e disavventure sentimentali e lavori part time». Leggi il resto di questa voce
«Sono convinto che le persone che sanno morire possono insegnarci come vivere». Alessandro D’Avenia racconta Padre Pino Puglisi
«Sono sempre stato un appassionato della storia della mafia e quando ho letto che il killer Salvatore Grigoli, uno dei criminali mafiosi più efferati, avesse perso il sonno per il sorriso di Don Pino Puglisi, ho capito che dovevo scrivere questo libro». Alessandro D’Avenia oltre ad essere uno scrittore di successo (autore di “Bianca come il latte, rossa come il sangue”, trasposto cinematograficamente con successo per la regia di Giacomo Campiotti) è uno dei professori più amati d’Italia. Sul suo blog, Prof2.0, ogni giorno si confronta e si racconta con quel giovane pubblico che trova in lui, nella sua voce e nel suo modo di raccontare, un punto saldo negli anni spesso turbolenti dell’adolescenza. D’Avenia, palermitano di nascita classe 1977, oggi insegna lettere in un liceo milanese mettendo in pratica quotidianamente gli insegnamenti di una figura speciale che ha cambiato davvero la sua vita e quella di una generazione: Don Pino Puglisi. Assassinato brutalmente dalla mafia, Don Pino Puglisi (affettuosamente 3P per i suoi alunni) e il suo sorriso misericordioso, sono assurti a simbolo di una lotta fattiva contro la mafia e i suoi insegnamenti sono al centro di “Ciò che inferno non è” (Mondadori, pp. 300 €19), il nuovo romanzo di D’Avenia (che verrà presentato sabato 8 novembre a Palermo ai Cantieri della Zisa con il presidente del Senato, Pietro Grasso e la giornalista Adriana Falsone). Nel romanzo D’Avenia fa perno sulla figura di Federico – studente del liceo classico Vittorio Emanuele II nella Palermo del 1993 – un ragazzo pieno di dubbi e domande che trova nel suo insegnante di religione, 3P, uno spiraglio e una guida per riscoprire la sua Palermo ripartendo proprio dai casermoni di Brancaccio mentre sullo sfondo, la città combatte la lotta impari fra bene e male, fra legalità e mafia. Leggi il resto di questa voce
«Un uomo, un voto. Da questa consapevolezza partono tutti i cambiamenti». Luis Sepúlveda a Taormina racconta le sue battaglie.
Seduto nel giardino all’aperto dell’Hotel San Domenico di Taormina, Luis Sepúlveda fuma una sigaretta fatta a mano e parla di letteratura, con passione. E’ la star della quarta edizione del TaoBuk festival – kermesse letteraria presieduta da Antonella Ferrara che si concluderà il prossimo venerdì 26 – e ascoltandolo parlare si ha la netta sensazione che sia una di quelle persone che merita il grande successo ottenuto. Quasi sessantacinquenne (li compirà il prossimo 4 ottobre) gli occhi di questo pluripremiato e amatissimo scrittore cileno, emanano una grande serenità quando confessa di non aver mai coltivato l’odio per i suoi aguzzini, nonostante abbia passato più di due anni e mezzo in una minuscola cella a seguito del colpo di stato militare che, nel 1973, depose l’allora presidente cileno, Salvator Allende. Da allora la vita di Sepúlveda è stata incentrata all’attivismo civile – al fianco dell’Unesco e Greenpeace – e dopo anni da cronista e inviato speciale in Africa e Sud America, nel 1989 cominciò a scrivere narrativa. Con enorme successo. Ospite a Taormina per ritirare il TaoBuk Award, il legame di Sepúlveda con la Sicilia è forte e radicato nel tempo – nel 1999 ritirò ad Agrigento l’Efebo d’Oro e questa è la sua quarta visita sull’isola – e la sua passione per la scrittura è sempre forte: «ho scritto una nuova fiaba, parlerà di un cane molto speciale e un libro di racconti. Ed entro l’anno spero di terminare un nuovo romanzo».
Lei sembra perfettamente a suo agio in Sicilia…
«Sì, questa terra è parte della mia geografia sentimentale. E’ un luogo così diverso dal resto d’Italia, al confine con l’Europa, qui ci si sente veramente nel sud del mondo.
Giuseppe Tomasi di Lampedusa e Camilleri rappresentano il suo legame narrativo invece.
«Quando lessi la definizione della malinconia di Tomasi di Lampedusa, la felicità dell’essere triste, mi colpì ma io non volevo essere un uomo melanconico. Camilleri è un grande maestro, un vero amico, capace di scrivere in un modo che riecheggia lo stile classico ma al tempo stesso è modernissimo. Mi colpisce sempre il trattamento dei suoi personaggi, unico nella letteratura contemporanea. Camilleri è uno scrittore impressionista, capace di dire molto con poche parole». Leggi il resto di questa voce
Amélie Nothomb si racconta: «Nella mia natura convivono l’estrema bellezza nipponica e il grottesco della realtà belga».
Ogni anno il nuovo libro della scrittrice belga, Amélie Nothomb è un evento letterario se non propriamente mediatico. Il suo cappello a cilindro di velluto nero e la prosa, lieve eppure insieme pungente, surreale e sofisticata, ne segnano il cammino letterario sin dall’esordio con “Igiene dell’assassino” nel 1992, cui sono seguiti ben venti libri, con una invidiabile cadenza annuale. Del resto è ormai noto che la Nothomb scriva ogni giorno dalle 4 alle 8 di mattina in una stanza riservatale dal suo editore parigino e ogni anno, tocca a lei decidere in piena autonomia, quali dei suoi manoscritti verranno riposti in delle scatole di scarpe – pare siano ormai centinaia gli inediti custoditi – e quale di questi, invece, verrà dato alle stampe. Nei suoi libri ci sono sempre elementi autobiografici ma in alcuni si narra esclusivamente il suo vissuto, come accade nel ventunesimo romanzo da poco edito, “La nostalgia felice” (Voland, pp. €). In questo libro, grande protagonista della réentre letteraria francese e nato da un «senso d’urgenza», l’autrice ricuce il legame affettivo con la sua patria, il Giappone, in cui nacque e visse la propria infanzia – il padre era un celebre diplomatico – prima di lasciarlo bruscamente e non senza traumi affettivi. “La nostalgia felice” nasce come naturale conseguenza di un documentario per la televisione francese, “Amélie Nothomb: une vie entre deux eaux”, che ha seguito il ritorno in Giappone della Nothomb nella primavera del 2012, dopo ben sedici lunghi anni di lontananza, culminati con l’incontro con il primo amore d’un tempo, Rinri – di cui si parla in “Né di eva né di Adamo”, 2004 – ma soprattutto nell’abbraccio con la sua tata, Nishio-San, considerata una seconda madre. Un legame talmente forte che la casa editrice Voland – nel loro catalogo l’intero corpus romanzesco della Nothomb – ha scelto una loro tenera foto d’epoca per la copertina del libro. Un libro-documentario, molto personale e capace di trasmettere al lettore occidentale cosa sia la nostalgia felice: un sentimento ignoto all’animo occidentale che colpisce puntualmente chi si innamora del Giappone e della sua tragica bellezza.
“Ricapitoliamo. È il 28 marzo 2012. Sono una scrittrice belga che, dopo un’assenza molto lunga, ritrova il paese dei suoi primi ricordi”. Madame Nothomb, qual è il suo rapporto con la memoria? È pericoloso immergersi nei ricordi e nelle sensazioni dolci e amare del passato?
«Sì, è molto pericoloso. Quando l’emittente francese France 5 mi ha proposto di fare un documentario sul mio ritorno in Giappone ho accettato perché pensavo che nessuno avrebbe investito dei soldi in questo progetto: chi poteva mai essere interessato al mio ritorno in Giappone? Invece 2 mesi dopo Laureline Amanieux e Luca Chiari mi hanno detto che avevano trovato i fondi e che potevamo partire. Così, nella primavera del 2012 sono tornata in Giappone, 16 anni dopo averlo lasciato. Vuole la verità? Sembra che non possa stare lontana dal suolo nipponico, ho bisogno di poggiare i piedi su quel suolo vulcanico per ritrovare le mie energie».
Con che animo è partita per questo viaggio nella memoria?
«Ero molto preoccupata. È sempre molto pericoloso tornare nei luoghi sacri della propria infanzia e fa ancora più paura se si decide di tornare accompagnati da una telecamera che ti segue ovunque. Invece si è rivelato tutto perfetto e quello che sembrava poter diventare un incubo si è rivelato un miracolo».
Sin dalla copertina (italiana) ci si immerge nel suo vissuto. Il passato non torna mai ma ci si può far pace?
«Quando ho ritrovato, Nishio-San la mia tata giapponese, la mia seconda madre da cui ero stata strappata a 5 anni ero molto agitata, ci eravamo parlate per telefono e lei aveva ancora una voce giovanile. Avevo lasciato una donna che aveva circa trentacinque anni e che nei miei ricordi era alta, invece ho ritrovato una signora molto anziana, piccolissima e fragile. E poi ho trovato una donna molto sola, aveva lavorato tutta la sua vita per le figlie e si ritrovava da sola a vivere in un palazzo popolare nella periferia di Kobe. Quando le ho chiesto di Fukushima non ne sapeva niente: è incredibile quali miracoli possa compiere la vecchiaia. Alla fine del nostro incontro la riservatezza ed educazione giapponese è scomparsa, ci siamo abbracciate e ritrovate».
Il fascino che emerge parlando del Giappone è quello di un paese proiettato verso il futuro, all’avanguardia, ma ancorato alle tradizioni. Come compiere un passo avanti con lo sguardo indietro?
«Il Giappone è un paese molto tecnologico ma dove le tradizioni si conservano, sembra che riescano a modificarsi al minimo di un centimetro ogni dieci anni. Spesso la gioventù giapponese fa pensare che ci sia un vero e proprio cambiamento nei costumi, ma è un’illusione, vale solo per i giapponesi dai 13 ai 25 anni. Perché compiuti i 25 anni rientrano nei ranghi, si vestono come si deve e si pettinano normalmente».
Che tratto ha lasciato nel suo carattere il Giappone? Forse la costante ricerca della bellezza e dell’armonia?
«Io sono nata in Giappone ma da genitori belgi. Ho in me l’estrema bellezza del Giappone e il grottesco belga. È uno strano miscuglio».
Che vita sarebbe stata la sua, se fosse rimasta in Giappone, con la tata amorevole e il suo fidanzato…se l’è mai domandato?
«Ad essere sinceri non l’ho fatto. Ma ho capito perché con Rinri, il mio primo amore, una persona meravigliosa, non potevo restare. Con lui c’era una sorta di disagio, non in una accezione negativa, piuttosto è una sorta di attenzione eccessiva per l’altro; è come se si spostasse il proprio centro di gravità verso l’altro. È un sentimento anche bello ma soprattutto scomodo. Probabilmente esistono coppie giapponesi che vivono così una vita intera ma per me non poteva andar bene».
Sappiamo le sue abitudini nello scrivere, gli orari che segue rigidamente e il tè nero con cui si accompagna. Ma scrivere cos’è per lei? Catarsi, ragione di vita, piacere…?
«Per me scrivere è essenziale, è vivere. Devo scrivere quelle 4 ore, dalle 4 alle 8 di mattina, e mi costa anche fatica farlo perché non sono certo masochista, ma se non lo facessi, semplicemente starei male».
Ogni anno i lettori attendono di tutto il mondo attendono il suo nuovo libro. Un giorno pubblicherà tutti gli inediti che conserva nelle scatole delle scarpe?
«No, ho pensato di consegnarli agli archivi del Vaticano. L’unico luogo veramente sicuro al mondo».
Francesco Musolino®
Fonte: La Gazzetta del Sud, aprile 2014
“Una storia d’amore al tempo della crisi”. Silvia Avallone si racconta
Dopo il grande successo riscontrato con “Acciaio”, la scrittrice Silvia Avallone era certamente attesa al varco, tanto dai suoi lettori che dal mercato editoriale. L’Italia che porta in pagina nel suo secondo romanzo, “Marina Bellezza” (Rizzoli, pp. 528 Euro 18,50) è quella dei figli degli anni ’90, una generazione cresciuta davanti alla tv con il mito del successo e della fama. Marina ha vent’anni e una bellezza assoluta che la porterà a lasciare la natìa Valle Cervo in cerca di fortuna mentre Andrea, come un salmone controcorrente, desidera tornare alla terra per fare il margaro, colui che alleva il bestiame. Ispirato alla storia d’amore dei suoi nonni ma declinato in chiave moderna, Marina e Andrea si respingeranno e si attrarranno nel corso dell’intero libro, sino a giungere ad un finale aperto. Sullo sfondo si muove una generazione di ragazzi insoddisfatti, privati del futuro, convinti che se la vita fosse giusta dovrebbe risarcirli…
Marina Bellezza nasce nel 1990 e cresce davanti alla tv. Poi cosa accade?
«La tv le tiene compagnia durante la sua infanzia e la sua adolescenza mentre la sua famiglia va in pezzi. Diventa per lei un punto di riferimento, una via di fuga possibile; nello stesso tempo, il mondo della televisione, rappresenta la meta per il suo rancore e il sentimento di ingiustizia per il trattamento riservatole dalla famiglia».
Proprio il supposto diritto ad una forma di risarcimento è un punto focale del libro…
«Sì, è il suo grande errore. Anche quando la vita ti tradisce non è affatto detto che ti debba risarcire. Ma lei ne è convinta».
Perché ha voluto che la bellezza fosse il tratto più evidente della sua protagonista?
«Desideravo un personaggio femminile molto scomodo da giudicare. Mi piaceva che, scrivendone, fosse capace sia di farmi arrabbiare sia di provare tenerezza nei suoi confronti. Per trarre ispirazione ho iniziato a pensare alle grandi cantanti americane come Britney Spears e Rihanna; sono convinta che dietro queste vite ci siano traumi e ferite che fungono da benzina per ottenere un successo colossale. Così, ho immaginato una Britney Spears di provincia con una carica da leonessa ma anche molto fragile».
Il fatto di superare degli ostacoli se non addirittura dei traumi, può dare uno slancio permettendo di lanciare il cuore oltre l’ostacolo?
«Se penso a questo momento storico e alla difficoltà che incontrano i miei coetanei nel mondo del lavoro, voglio sperare che il coraggio possa aiutare a tirare fuori le proprie qualità, rendendoci non solo più forti ma anche più lungimiranti. Non avere la strada spianata davanti a sé può permetterci di trovare dei sentieri inaspettati da intraprendere».
“Storia d’amore al tempo della crisi”: poteva essere questo il sottotitolo del suo libro?
«Sì! Decisamente sì».
Andrea, proprio come un salmone controcorrente, sembra voler tornare alla terra, ad una vita molto slow…
«Marina è una rockstar arrabbiata nata in provincia, invece Andrea è ispirato ai margari che facevano la transumanza del gregge, figure silenziose che mi hanno sempre affascinato. Ma per scrivere il libro sono andata a caccia di storie di miei coetanei, con una mentalità da anni ’80 e con alle spalle degli studi, che decidono di tornare alla terra, di recuperare anche il proprio territorio. Di storie simili ne ho scovate tante, da nord a sud».
La provincia che porta in pagina sembra molto diversa da ciò che siamo abituati a leggere. Come mai?
«Volevo che in questo libro ci fosse uno spirito da pionieri, che rivivesse il mito della frontiera da conquistare. Oggi mancano i far west ma abbiamo le nostre provincie, piena di tesori e di bellezze incolte, abbandonate, impoverite per decenni. Si tratta di un recupero essenziale, qualcosa di simile alla ricostruzione post-bellica per importanza. La mia provincia non è rifugio ma luogo di conquista».
Se la sentirebbe di lanciare un appello ai giovani italiani per indurli a non lasciare il paese, a giocare qui la battaglia del proprio futuro?
«Sia chi rimane sia chi va all’estero è un piccolo eroe, in entrambi i casi serve davvero molto coraggio per affrontare le difficoltà odierne. Io sono stata anche fortunata. Diciamo che sento un forte legame con la mia lingua, con il mio paese e mi fa rabbia che il nostro enorme potenziale, il patrimonio culturale e paesaggistico, il Made in Italy e le eccellenze siano sprecate, lasciate a se stesse se non addirittura osteggiate. Mi sento dire che dobbiamo ripartire da noi stessi, riprenderci le ricchezze del nostro paese, farle rivivere. Vorrei ci fosse un’alternativa, invece, andar via è spesso una necessità».
Tornare a scrivere dopo il successo di “Acciaio” è stata una liberazione o un esame da superare?
«Ho cercato di dimenticare completamente la pressione e quando ho cominciato a scrivere per fortuna, è accaduto. Mi piace alternare la fase della scrittura – che consiste nello stare chiusi per uno, due anni senza fare nient’altro – per poi condividere il libro per diversi mesi, viaggiando in giro per l’Italia».
Per lei cosa rappresenta l’atto della scrittura: più simile ad una necessità fisica o ad una forma di piacere?
«Non mi hanno mai posto questa domanda, almeno in questi termini. Ho bisogno di vivere ma sento la necessità di raccontare il mondo, quello che mi sta a cuore, per salvaguardare certe province, certe storie. È un bisogno di liberta soprattutto: il mio tempo storico è denso di difficoltà e non posso cambiarlo ma scrivendo posso reagire, sovvertire tante cose che non mi piacciono».
Almeno nella scrittura le cose possono andare come dovrebbero?
«Sì, scrivere significa dare ordine ad un caos spesso indecifrabile. Un modo per ridare importanza a ciò che conta davvero».
Francesco Musolino®
Fonte: La Gazzetta del Sud, 26 ottobre 2013