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«Parafrasando Churchill, i nuovi radical chic sono il peggiore degli ambienti possibili, esclusi tutti gli altri». Michele Masneri racconta “Addio, Monti”.
«Monti, antica suburra, luogo di schiavi, gladiatori e prostitute, è rimasto più o meno così fino agli anni Ottanta, poi è diventato improvvisamente il posto giusto per l’aperitivo e la cena di fusion giapponese-brasiliana». L’ossessione degli eventi, Cortina e i supermercati in cui andare a fare la spesa, passando per omaggi più o meno espliciti – da Arbasino a Gadda, da Risi a Balzac – il giornalista Michele Masneri nel suo romanzo d’esordio “Addio, Monti” (Minimum Fax, pp.167 €14), racconta la società e i salotti romani, lo sfoggio delle riviste e delle amicizie giuste, in un libro folgorante dalla prosa torrenziale, rapsodica, che trascina tutto dentro, mischiando l’alto e il basso, il cervello e la pancia, in un vortice da cui nessuno si salva; eppure la bravura del Masneri (bresciano, classe ‘74) è quella di pungere armato di humour british senza mai giudicare, senza mettere nessuno alla gogna perché in fondo i radical chic descritti da Tom Wolfe, oggi sono gli hipster, «ragazzi con grandi barbe e occhiali tartarugati appena ritornati da Berlino…sono, come scrive Walter Siti in Troppi paradisi, “la fascia alta dei morti di fame”». Un libro pungente, sfrontato ma soprattutto intelligente, che ruota sul rione Monti e sulla dorata Cortina ma soprattutto sul concetto di “gentrifricazione”, un processo che affascina il Masneri, svelando come nascono le tendenze e la ricerca delle “zone alternative”, dal Pigneto in avanti…
Un libro che somiglia ad un lavoro antropologico per la capacità di rendere con fulminanti descrizioni look, manie, tic verbali e gestualità. Com’è nato Addio, Monti?
«L’idea di Addio, Monti nasce molto poco da una trama e molto di più da un fatto linguistico; avevo voglia di scrivere un romanzo con una lingua veloce e rapida, senza tanta psicologia, con un chiacchiericcio tra due persone abbastanza colte, molto disilluse, forse molto superficiali, che raccontano di avvenimenti esistenziali anche drammatici, e fino in fondo non si capisce se sono dei cinici tremendi o se invece in fondo a questo cinismo c’è qualcosa. L’ispirazione è Fratelli d’Italia di Alberto Arbasino, per me il più grande romanzo del dopoguerra italiano, e per il quale Addio, Monti è un piccolo omaggio, a partire dall’incipit. Un Fratelli d’Italia aggiornato ai tempi della troika e della austerity; lì c’erano ragazzi-bene a scorrazzare tra Capri la Baviera e il festival di Spoleto durante l’Italia del boom. Qui, nell’Italia della crisi, si sta chiusi in un supermercato a parlare delle proprie diete e disavventure sentimentali e lavori part time». Leggi il resto di questa voce
Pino Aprile attacca: «Dov’è l’equità di questa Italia?»
«Fin quando la protesta sarà confinata in Sicilia, il resto dell’Italia la snobberà, anzi, a qualcuno fa persino piacere…». Il giornalista e scrittore Pino Aprile in questi è al centro dell’attenzione perché aveva già raccontato – e in tempi non sospetti – la genesi del Movimento dei Forconi che sta scaldando la rete e gli animi dei siciliani. Se “Terroni” aveva aperto con prepotenza la ferita delle predazioni risorgimentali al Sud, “Giù al Sud” (entrambi editi da Piemme) è molto di più, è un orgoglioso manifesto per la futura rinascita dell’orgoglio meridionale che ha scosso molte coscienze e creato grandi aspettative. Aprile non lesina critiche ad Equitalia e a Mauro Moretti, e sottolinea che neppure con l’arrivo del governo Monti la situazione sembra migliorare: «Nei suoi discorsi non cita mai il Mezzogiorno. Dovrebbero spiegargli che anche Lampedusa è Italia».
L’Italia sta scoprendo il Movimento dei Forconi e la sua forza di disperazione: una sorpresa per tutti meno che per lei…
L’anno scorso ero stato invitato allo scuola di politica di Filaga, fondata da padre Pintacuda, sui monti sicani. C’erano moltissimi agricoltori ma anche diversi politici, fra cui l’onorevole Arturo Iannacone e Antonio Ciano. Lì ho scoperto un mondo che ignoravo e che sta per essere schiacciato, quello degli agricoltori e degli allevatori: gente orgogliosa ma silenziosa, almeno sino a ieri. Questa gente ci ha raccontato che le norme italiane per la tutela dei prodotti impongono, giustamente, una serie di percorsi di produzione come garanzia del prodotto, dei diritti dei lavoratori e anche degli stessi produttori. Ma sul mercato non vi è alcuna tutela per questi prodotti certificati e così il nostro grano, il nostro latte, i nostri formaggi, finiscono per essere schiacciati da merce di provenienza sconosciuta o, al meglio, senza alcuna certificazione. Così facendo le aziende hanno speso molto ed incassato poco, finendo ben presto sul lastrico e accumulando debiti soprattutto con l’Inps».
Ma l’Inps a sua volta, ha ceduto tutto ad Equitalia…
«Sì e quest’ultima, riscontrando l’impossibilità ad incassare le intere somme richieste, procede alla messa all’asta e al sequestro dei beni, senza alcuna remora. L’ulteriore beffa sta nel fatto che Equitalia ha acquisito il debito dall’Inps appena all’8-10% e ovviamente, a queste condizioni, i produttori avrebbero potuto concordare l’estinzione del debito senza problemi. La gente è disperata e non mi sorprende l’esplosione del movimento. Mi hanno detto “prima o poi prendiamo le armi, ci serve solo un leader”».
Perché dovremmo commuoverci per gli imprenditori veneti se i siciliani in strada vengono presi per briganti?
«Le difficoltà sono le stesse per tutti gli imprenditori, al nord come al sud, è il governo ad attuare due pesi e due misure. Difatti quando rimasero invendute 100mila forme di parmigiano, il governo lombardo-veneto ad attuazione leghista e anti-meridionale, le acquistò con soldi in buona parte destinati propri al sud. Ma quando si pose lo stesso problema per il pecorino, la polizia, inviata da un ministro dell’interno leghista, si scagliò con grande durezza contro gli allevatori sardi. Parmigiano e pecorino, eppure il trattamento fu ben diverso…»
Dunque ci dobbiamo aspettare l’intervento della polizia contro il Movimento?
«Queste persone devono essere ascoltate perché con la violenza non si può risolvere nulla. Ma sono convinto che finché il Movimento resterà confinato in Sicilia, l’Italia lo ignorerà, del resto ad una parte dell’Italia non dispiace che la Sicilia si faccia male da sola. Allo stesso modo, l’unico modo per far capire all’innominabile amministratore delegato di Trenitalia che non può tagliare impunemente le tratte dirette dal sud verso il nord, è quello di bloccare l’unica tratta che gli interessa ovvero la Roma-Milano. Ma quando ho chiesto al Movimento dei forconi quali fossero le loro intenzioni, loro mi hanno risposto: “non abbiamo i soldi per andare a protestare in continente”».
In “Giù al Sud” denuncia l’imbroglio federalista bollandolo come “fregalismo” eppure il governo Monti non prende nemmeno in considerazione il Mezzogiorno…
«Il signor Monti deve essere informato che l’Italia esiste anche sotto Roma. Persino sotto Napoli. Il presidente del consiglio si dimentica di parlare del rilancio del sud e dovrebbe chiamare Mauro Moretti per mandarlo immediatamente a casa. Tuttavia nel governo tecnico c’è anche un ottimo ministro come Fabrizio Barca (Ministro alla Coesione Territoriale) che sta lavorando benissimo e sottotraccia. Ma sino ad oggi, Barca è davvero l’unico elemento positivo».
Crede che il Movimento dei forconi sia la mossa decisiva per il risveglio del sud?
«Questo movimento è figlio della pura disperazione e non ha, alle sue spalle, una programmazione né una strategia vera e propria. E’ difficile fare previsioni poiché nel passato movimenti nati in questo modo hanno ottenuto grandi risultati ma, spesso, sono finiti assai male, come accadde ai Vespri. La speranza è che l’Italia scopra e si interroghi sul disagio del sud e soprattutto che i meridionali, prendano finalmente coscienza della propria condizione disperata e comincino ad esigere, non solo a pietire».
A proposito di Equitalia, crede che si corra il rischio di una degenerazione del malcontento popolare?
Equitalia, pur se deve ottemperare a fini legittimi, ha ottenuto dei poteri eccessivi che le permettono di essere prepotente verso il cittadino. L’idea che per recuperare poche centinaia di euro si impedisca all’intera azienda di lavorare, mi sembra folle o peggio, in malafede. Pensate che nel Tavoliere molti imprenditori hanno dovuto svendere la propria azienda perché gli avevano reso inutilizzabile macchinari di enorme valore. Sono solo prepotenze o bisogna domandarsi a chi faccia comodo tutto ciò? Se io fossi un mafioso approfitterei di questa occasione per riciclare il mio denaro. Sono solo sospetti ovviamente, ma che senso ha mettere in ginocchio delle aziende sane, pignorare case e rovinare vite solo per recuperare pochi soldi? Dov’è l’equità di questa Italia?
Fonte: Settimanale “Centonove” del 20 gennaio 2012
Quando crollò l’Euro – il racconto
Vi presento il mio primo racconto, pubblicato online sulla rivista letteraria Stilos.
Si intitola “Quando crollò l’Euro” ed è stato scritto nel mese di dicembre 2011 (pubblicato il 30 dicembre 2011). Alla luce dei sacrifici richiesti dal governo tecnico e dal futuro a tinte fosche che si profila, forse, potrebbe persino risultare profetico. In ogni caso spero lasci qualcosa al Lettore…
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Da mesi ballavamo sul baratro. Prima ci dissero che potevamo stare tranquilli, che Noi non eravamo mica come Loro. Noi c’eravamo mossi per tempo, Noi avevamo previsto tutto e avevamo i granai pieni e gli argini ben saldi. Ma quando furono costretti ad aprire le bisacce davanti all’Europa, mostrando meno di niente, tutti capimmo. Non c’era più tempo per nani e ballerine, per politica e antipolitica. Chi poté, semplicemente fuggì e gli altri si chiesero «E ora?».
Arrivò Il Professore e tutti giù a togliersi il cappello, che Lui certo avrebbe risolto l’inghippo se non altro perché Lui era Il Professore e certi titoli non vanno solo sulla carta intestata, ti segnano per tutta la vita.
Si presentò con aplomb, occhiali a giorno, chioma canuta e lo charme del nerd. Nessuno rimpiangeva il passato mentre Lui elencava i sacrifici che Noi avremmo dovuto compiere per salvare Lei, l’Italia. Rimpiangevamo solo le illusioni, sanità pubblica e un giorno, la pensione. Bei tempi.
La medicina si rivelò peggiore del male. Nessuno investì più nelle imprese italiane e i buoni del tesoro languivano desolati sugli scaffali dei banchieri, nonostante offerte e promozioni telefoniche degne della Telecom con Ficarra, Picone e anche la Hunziker.
Il Professore però non si diede per vinto, vuoi perché ci credeva davvero, vuoi perché ormai il suo titolo lo precedeva cupamente e così, partirono le missioni.
Negli States, fra una nuova guerra e una social invention, la disoccupazione giovanile era persino in calo ma Noi non avremmo potuto seguirli. Il problema non erano i cervelli fuggiti altrove ma quelli che erano rimasti qui e non potevamo dichiarare guerra a nessuno perché poi non avremmo potuto cambiare schieramento (l’unica tattica militare italiana assodata negli anni, con successo).
La Cina ci ricevette con tutti gli onori però ci fece notare che la colonizzazione non solo era già cominciata ma, fra un involtino primavera cotto in una latta arrugginita, un intimo sintetico e una scarpa senza plantare, era ormai a buon punto. E salutando Il Professore, il Deng Xiao Ping di turno, ebbe cura di passargli un piccolo dizionario di mandarino: «Presto Le servirà», aggiunse.
Alla fine dovette persino andare da quei paesi che, sprezzantemente, abbiamo chiamato per anni Euroscettici, facendoci beffe del fatto che non volessero essere al passo con i tempi dell’economia globale, trattandoli alla stregua di chi preferisce avere nel salone un grammofono impolverato nell’era dell’mp3. Gente delle caverne insomma, questo erano. Così giornalisti e politici ci avevano insegnato a giudicarli, del resto Noi avevamo il grande privilegio di essere fra i membri fondatori dell’UE. Lo ricevettero. Il Professore sembrava stremato fra un viaggio e l’altro per il mondo, con la borsa sempre a piangere miseria. In cuor suo, già meditava.
Andammo a nord e ad est e poi persino dalla Regina madre e non da Carlo o da Pippa. Lo guardarono, lo ascoltarono, annuirono e poi gli dissero tutti, chi più chi meno: «Professore, scusi, ma lei non l’aveva previsto?».
Il Professore si recò, estrema ratio, anche dal Pontefice. «Santità, Lei ha spesso sottolineato che la solidarietà è la virtù cristiana per eccellenza…» – ma Lui intuì, lo interruppe garbatamente e chiamò le Guardie Svizzere per accompagnarlo fuori, sebbene con somma grazia.
«Il giorno che la Chiesa donerà senza chiedere è ancora lontano», disse fregandosi le mani e osservando la (Sua) città dalla finestra.
Il Professore capì la lezione e con i risparmi di una vita – e gli stipendi di senatore, a vita – lasciò Lei, l’Italia, nelle Nostre, di mani.
Avevamo le chiavi di tutta la casa ma nessuno sapeva dove fosse l’interruttore della luce.
E piombò il caos.
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Pochi giorni prima del crollo della zona Euro ci fu persino chi predisse il ritorno al baratto e ovviamente non mancarono quelli che condivisero tutto su Facebook, la tribuna politica degli stupidi. I primi a pagare dazio furono quelli che avevano costruito le proprie fortune sui corsi di formazione europei. Importanti percorsi professionali come operatore di call center o decoratore di vasi scomparvero tristemente nell’oblio. Poi cambiò tutto.
Da un giorno all’altro chi andava a comprare aveva, come il Buddha, delle rivelazioni improvvise.
Che un etto di prosciutto di parma costasse 4,50 € era una cosa risaputa dal 2002. Ma la tiritera che “la qualità si deve pagare” o “meglio non risparmiare sul cibo”, lasciò il posto alla pura rabbia quando venne operata la semplice conversione con la buona e vecchia Lira. Ed ecco che 9 mila lire per quattro fette di maiale sembrarono improvvisamente troppe e fra proteste e sbuffi, i salumieri poterono solo riproporre i cartellini con il doppio prezzo. Sì 4,50 € erano senza dubbio pari a 9 mila lire circa. Eppure nessuno comprava.
Il natale del 2012 era alle porte ma gli alberi restarono nudi, frigoferi e dispense restarono sguarnite.
I ricchi – come sempre – fecero presto a sdegnarsi: «i soldi mica ce li regalano! Li rubiamo magari, ma nessuno ce li regala!».
Persino gli stessi commercianti erano indispettiti gli uni verso gli altri. Così, il gioielliere lasciava il negozio desolatamente vuoto e si beava della folla di ragazzine che protestava e sbraitava per le 41 mila lire richieste per il nuovo, ennesimo, libro di Fabio Volo (certi libri, come le sigarette, vennero giudicati superflui e continuavano ad aumentare di prezzo). Nessuno comprò più nulla ad eccezione del pane, il cui prezzo saliva e scendeva seguendo l’umore delle folle. Il cibo stesso non si vendeva. I camion non scaricavano la merce e in un lampo, si tornò ad una dieta essenziale: pane e incazzatura. E acqua.
In breve scomparvero tutte le pubblicità con scritto “solo a …”, che la stessa parola “solo” faceva incazzare la gente. Ci fu anche una parentesi vandalica ovunque e si sfiorò la fine dello stato civile e poi, piano piano la pizza margherita tornò a costare 5 mila lire, le 500 lire ripreso ad avere un valore e a tutti, improvvisamente, sembrò folle spendere 300 mila lire per un paio di jeans firmati o peggio, 400.
Ma ciò che cambiò davvero dopo il crollo della zona euro e il ritorno della cara e vecchia lira fu il fatto che chi aveva in armadio dei jeans Dolce & Gabbana o un giubbino Blauer da 500 mila lire o una borsa Gucci da un milione di lire, piuttosto che sfoggiare queste cose, le lasciò chiuse negli armadi, al riparo dagli occhi altrui.
Non per paura che le potessero rubare ma per timore di sentirsi dire “davvero hai pagato un milione e cinquecento mila lire per il tuo iPhone?”.
Perché sarebbe stato impossibile non sentirsi dei coglioni.