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L’importante è partecipare. Ovvero anche se l’Italia ha fatto pena ai Mondiali almeno ci restano delle belle letture.
“L’importante non è vincere ma partecipare». Questa massima di Pierre de Frédy, altresì noto come barone di Coubertin può, forse, aiutarci ad uscire dalle polemiche relative alla prematura – assai prematura anche se non sorprendente ad essere sinceri – eliminazione della nazionale italiana dai mondiali di calcio che si stanno svolgendo in Brasile. Di fatto con Balotelli e compagnia già a casa, bisognerà pazientare sino a domenica 13 luglio quando alle 21 (italiane) si svolgerà la finale nel mitico, seppur rinnovato, stadio Maracanà. Ma pur non avendo alcun rimedio contro il malumore e le scelte effettuate dall’ormai ex ct Cesare Prandelli, possiamo comunque rifugiarci in quattro ottimi libri, sperando di dimenticare in fretta la disfatta ma soprattutto per capire perché noi italiani, e non solo, siamo matti per il gioco del pallone. Leggi il resto di questa voce
Quando crollò l’Euro – il racconto
Vi presento il mio primo racconto, pubblicato online sulla rivista letteraria Stilos.
Si intitola “Quando crollò l’Euro” ed è stato scritto nel mese di dicembre 2011 (pubblicato il 30 dicembre 2011). Alla luce dei sacrifici richiesti dal governo tecnico e dal futuro a tinte fosche che si profila, forse, potrebbe persino risultare profetico. In ogni caso spero lasci qualcosa al Lettore…
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Da mesi ballavamo sul baratro. Prima ci dissero che potevamo stare tranquilli, che Noi non eravamo mica come Loro. Noi c’eravamo mossi per tempo, Noi avevamo previsto tutto e avevamo i granai pieni e gli argini ben saldi. Ma quando furono costretti ad aprire le bisacce davanti all’Europa, mostrando meno di niente, tutti capimmo. Non c’era più tempo per nani e ballerine, per politica e antipolitica. Chi poté, semplicemente fuggì e gli altri si chiesero «E ora?».
Arrivò Il Professore e tutti giù a togliersi il cappello, che Lui certo avrebbe risolto l’inghippo se non altro perché Lui era Il Professore e certi titoli non vanno solo sulla carta intestata, ti segnano per tutta la vita.
Si presentò con aplomb, occhiali a giorno, chioma canuta e lo charme del nerd. Nessuno rimpiangeva il passato mentre Lui elencava i sacrifici che Noi avremmo dovuto compiere per salvare Lei, l’Italia. Rimpiangevamo solo le illusioni, sanità pubblica e un giorno, la pensione. Bei tempi.
La medicina si rivelò peggiore del male. Nessuno investì più nelle imprese italiane e i buoni del tesoro languivano desolati sugli scaffali dei banchieri, nonostante offerte e promozioni telefoniche degne della Telecom con Ficarra, Picone e anche la Hunziker.
Il Professore però non si diede per vinto, vuoi perché ci credeva davvero, vuoi perché ormai il suo titolo lo precedeva cupamente e così, partirono le missioni.
Negli States, fra una nuova guerra e una social invention, la disoccupazione giovanile era persino in calo ma Noi non avremmo potuto seguirli. Il problema non erano i cervelli fuggiti altrove ma quelli che erano rimasti qui e non potevamo dichiarare guerra a nessuno perché poi non avremmo potuto cambiare schieramento (l’unica tattica militare italiana assodata negli anni, con successo).
La Cina ci ricevette con tutti gli onori però ci fece notare che la colonizzazione non solo era già cominciata ma, fra un involtino primavera cotto in una latta arrugginita, un intimo sintetico e una scarpa senza plantare, era ormai a buon punto. E salutando Il Professore, il Deng Xiao Ping di turno, ebbe cura di passargli un piccolo dizionario di mandarino: «Presto Le servirà», aggiunse.
Alla fine dovette persino andare da quei paesi che, sprezzantemente, abbiamo chiamato per anni Euroscettici, facendoci beffe del fatto che non volessero essere al passo con i tempi dell’economia globale, trattandoli alla stregua di chi preferisce avere nel salone un grammofono impolverato nell’era dell’mp3. Gente delle caverne insomma, questo erano. Così giornalisti e politici ci avevano insegnato a giudicarli, del resto Noi avevamo il grande privilegio di essere fra i membri fondatori dell’UE. Lo ricevettero. Il Professore sembrava stremato fra un viaggio e l’altro per il mondo, con la borsa sempre a piangere miseria. In cuor suo, già meditava.
Andammo a nord e ad est e poi persino dalla Regina madre e non da Carlo o da Pippa. Lo guardarono, lo ascoltarono, annuirono e poi gli dissero tutti, chi più chi meno: «Professore, scusi, ma lei non l’aveva previsto?».
Il Professore si recò, estrema ratio, anche dal Pontefice. «Santità, Lei ha spesso sottolineato che la solidarietà è la virtù cristiana per eccellenza…» – ma Lui intuì, lo interruppe garbatamente e chiamò le Guardie Svizzere per accompagnarlo fuori, sebbene con somma grazia.
«Il giorno che la Chiesa donerà senza chiedere è ancora lontano», disse fregandosi le mani e osservando la (Sua) città dalla finestra.
Il Professore capì la lezione e con i risparmi di una vita – e gli stipendi di senatore, a vita – lasciò Lei, l’Italia, nelle Nostre, di mani.
Avevamo le chiavi di tutta la casa ma nessuno sapeva dove fosse l’interruttore della luce.
E piombò il caos.
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Pochi giorni prima del crollo della zona Euro ci fu persino chi predisse il ritorno al baratto e ovviamente non mancarono quelli che condivisero tutto su Facebook, la tribuna politica degli stupidi. I primi a pagare dazio furono quelli che avevano costruito le proprie fortune sui corsi di formazione europei. Importanti percorsi professionali come operatore di call center o decoratore di vasi scomparvero tristemente nell’oblio. Poi cambiò tutto.
Da un giorno all’altro chi andava a comprare aveva, come il Buddha, delle rivelazioni improvvise.
Che un etto di prosciutto di parma costasse 4,50 € era una cosa risaputa dal 2002. Ma la tiritera che “la qualità si deve pagare” o “meglio non risparmiare sul cibo”, lasciò il posto alla pura rabbia quando venne operata la semplice conversione con la buona e vecchia Lira. Ed ecco che 9 mila lire per quattro fette di maiale sembrarono improvvisamente troppe e fra proteste e sbuffi, i salumieri poterono solo riproporre i cartellini con il doppio prezzo. Sì 4,50 € erano senza dubbio pari a 9 mila lire circa. Eppure nessuno comprava.
Il natale del 2012 era alle porte ma gli alberi restarono nudi, frigoferi e dispense restarono sguarnite.
I ricchi – come sempre – fecero presto a sdegnarsi: «i soldi mica ce li regalano! Li rubiamo magari, ma nessuno ce li regala!».
Persino gli stessi commercianti erano indispettiti gli uni verso gli altri. Così, il gioielliere lasciava il negozio desolatamente vuoto e si beava della folla di ragazzine che protestava e sbraitava per le 41 mila lire richieste per il nuovo, ennesimo, libro di Fabio Volo (certi libri, come le sigarette, vennero giudicati superflui e continuavano ad aumentare di prezzo). Nessuno comprò più nulla ad eccezione del pane, il cui prezzo saliva e scendeva seguendo l’umore delle folle. Il cibo stesso non si vendeva. I camion non scaricavano la merce e in un lampo, si tornò ad una dieta essenziale: pane e incazzatura. E acqua.
In breve scomparvero tutte le pubblicità con scritto “solo a …”, che la stessa parola “solo” faceva incazzare la gente. Ci fu anche una parentesi vandalica ovunque e si sfiorò la fine dello stato civile e poi, piano piano la pizza margherita tornò a costare 5 mila lire, le 500 lire ripreso ad avere un valore e a tutti, improvvisamente, sembrò folle spendere 300 mila lire per un paio di jeans firmati o peggio, 400.
Ma ciò che cambiò davvero dopo il crollo della zona euro e il ritorno della cara e vecchia lira fu il fatto che chi aveva in armadio dei jeans Dolce & Gabbana o un giubbino Blauer da 500 mila lire o una borsa Gucci da un milione di lire, piuttosto che sfoggiare queste cose, le lasciò chiuse negli armadi, al riparo dagli occhi altrui.
Non per paura che le potessero rubare ma per timore di sentirsi dire “davvero hai pagato un milione e cinquecento mila lire per il tuo iPhone?”.
Perché sarebbe stato impossibile non sentirsi dei coglioni.