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«Tutti noi abbiamo un cuore primitivo». Andrea De Carlo si racconta

Andrea De Carlo

Andrea De Carlo

A due anni di distanza da “Villa Metaphora”, lo scrittore milanese classe ’52, Andrea De Carlo, torna in libreria con il suo diciottesimo romanzo, Cuore Primitivo (Bompiani, pp. 254, €17.50), portando in pagina la storia di una coppia giunta alla celebre crisi del settimo anno: Craig Nolan, di professione antropologo e Mara Abbiati, scultrice di gatti nel tufo. Come se non bastasse lo sfiorire della passione – De Carlo racconta i loro primi focosi tempi insieme con l’uso di flashback – dovranno anche fare i conti con il terzo incomodo, Ivo Zanonelli: costruttore edile dai modi spicci, chiamato a sistemare il tetto della loro dissestata seconda casa a Canciale, in liguria. Lentamente Ivo si insinua nella vita domestica della coppia – bloccata in quella casa a causa di un infortunio domestico con cui si apre il libro – e a ciascun personaggio, l’autore fornisce la possibilità di raccontarsi in prima persona, ricorrendo sovente ad una pungente ironia.

(http://www.youtube.com/watch?v=cVI2k29KDwQ qui il lancio di “Cuore Primitivo“) Leggi il resto di questa voce

L’importante è partecipare. Ovvero anche se l’Italia ha fatto pena ai Mondiali almeno ci restano delle belle letture.

“L’importante non è vincere ma partecipare». Questa massima di Pierre de Frédy, altresì noto come barone di Coubertin può, forse, aiutarci ad uscire dalle polemiche relative alla prematura – assai prematura anche se non sorprendente ad essere sinceri – eliminazione della nazionale italiana dai mondiali di calcio che si stanno svolgendo in Brasile. Di fatto con Balotelli e compagnia già a casa, bisognerà pazientare sino a domenica 13 luglio quando alle 21 (italiane) si svolgerà la finale nel mitico, seppur rinnovato, stadio Maracanà. Ma pur non avendo alcun rimedio contro il malumore e le scelte effettuate dall’ormai ex ct Cesare Prandelli, possiamo comunque rifugiarci in quattro ottimi libri, sperando di dimenticare in fretta la disfatta ma soprattutto per capire perché noi italiani, e non solo, siamo matti per il gioco del pallone. Leggi il resto di questa voce

Intervista esclusiva a Vittorio Sgarbi: «Il vero tesoro artistico è italiano, quello di Hitler è una bufala».

«L’Italia è un paese ricco, con un tesoro di inestimabile valore disperso ogni due kilometri quadrati di cui gli italiani sanno poco, o nulla. E dunque finiscono per sciuparlo». O peggio, svenderlo. Il nuovo libro di Vittorio Sgarbi, critico e storico dell’arte di chiara fama, è un vero e proprio viaggio nel tesoro artistico del nostro paese, condotto con minuziosa cura, spaziando per tutta la penisola, da nomi eccelsi a talenti ingiustamente sconosciuti. L’amore dell’arte passa per la conoscenza e contro il disamore dovuto all’ignoranza, al pressapochismo degli studi, negli anni passati Sgarbi ha risposto portando l’arte in televisione – dunque rendendola di fatto nazionalpopolare – e, in seguito, con numerose pubblicazioni. La più recente (in libreria da domani, 13 novembre) è “Il Tesoro d’Italia. La lunga avventura dell’arte” (Bompiani, pp. 300 €22 con prefazione di Michele Ainis). Con Vittorio Sgarbi abbiamo parlato in esclusiva di un progetto editoriale destinato a diventare una trilogia, senza dimenticare i temi legati all’attualità e l’imminente partenza del reality Masterpiece (17 novembre su RaiTre), fortemente voluto dal direttore editoriale di Bompiani, Elisabetta Sgarbi.

Professor Sgarbi, a suo avviso, gli italiani, sono consapevoli del tesoro artistico del proprio paese?

«Affatto. Tant’è vero che si parla del tesoro di Hitler ma è una bufala perché quelle erano opere che detestava. In realtà, Hitler aveva in mente un solo tesoro ed era quello d’Italia e tramite il benestare di Galeazzo Ciano e Giuseppe Bottai, l’allora ministro della cultura, ottenne di poter trasferire in Germania un cospicuo numero di quadri dei musei italiani fra il ‘400 e il ‘500. I tedeschi sapevano bene che il tesoro artistico era il nostro e non quello ritrovato in questi giorni, quadri minori che Hitler avrebbe voluto buttare via».

Ieri, il ministro dei beni culturali, Massimo Bray, ha inaugurato il progetto della “Strada degli Scrittori”, 30 km che uniranno Racalmuto a Porto Empedocle. Le piace questa idea?

«Sì, perché la letteratura italiana fra la fine dell’800 e il ‘900, nonostante l’antagonismo leghista, è prevalentemente siciliana. Da Verga a Sciascia, i grandi scrittori italiani vengono da qui e questo progetto si lega perfettamente nella scia del 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Il problema semmai è che questo progetto include la stessa Racalmuto che, in modo arbitrario e fascista, ha visto lo scioglimento del proprio comune su presunzioni infondate. Esiste, evidentemente, uno stato dal doppio volto: da una parte c’è la figura competente di Massimo Bray che sente la priorità dei beni artistici e letterari come fondamentale da un punto di vista pedagogico, come liberazione da ogni mafia; ma purtroppo c’è anche una visione fortemente retorica che svilisce il ruolo stesso delle istituzioni».

A proposito di lingua, lei sottolinea come il Cristo Pantocratore del duomo di Cefalù e i primi poeti siciliani di lingua italiana siano sostanzialmente contemporanei…

«Nel libro i riferimenti letterari sono associati esclusivamente per contestualizzare al meglio le immagini. Il Cristo Pantocratore è bizantino,  risale al 1145 e ha una potenza inedita che sembra parlare una lingua nuova; allo stesso modo e nei medesimi anni, Ciullo d’Alcamo e Giacomo da Lentini, in Sicilia prima che altrove, scrivono in lingua italiana. Ciò è emblematico d’un cambiamento in atto».

Il Tesoro d’Italia è un lungo cammino nel mondo dell’arte italiana, un progetto ambizioso davvero ambizioso…

«Studiando e commentando opere d’arte non ho mai pensato che fosse possibile intendere la storia dell’arte come necessità di un progresso espressivo, si tratta di una teoria positivista ormai superata. “Il Tesoro d’Italia”, invece, è il primo di tre volumi che si spingeranno sino al ‘600, narrando in modo organico e rispettoso, la storia dell’arte del nostro paese. Tuttavia è ancora in ballo l’ipotesi che l’opera possa essere composta da cinque volumi e in quel caso si può immaginare che vi sarà una maggiore connotazione saggistica, interpretativa e letteraria».

Che ne pensa del fatto che l’insegnamento della storia dell’arte sarà praticamente abolito nelle scuole italiane?

«Ad essere onesti elimineranno la storia dell’arte da molti corsi di studi per essere potenziata solo nei licei classici, come accade per il greco e il latino. In questo modo si finisce per considerarla un insegnamento di settore, forse a ragione, ma l’arte italiana è viva e fortemente legata all’economia, come evidenzio nel libro».

Ma, senza insegnarla a scuola, non sarà ancor più arduo far innamorare gli italiani dei propri tesori?

«Non c’è dubbio però, temo, che insegnarla a non basterebbe. Occorrerebbe magari che venisse spiegata in tv, premiando la potenza delle immagini contro tante schifezze presenti nei palinsesti. Questa potrebbe davvero essere una didattica di più ampia gittata. Del resto, sebbene sia molto amata, nemmeno la musica viene insegnata in Italia e d’altra parte si studia letteratura ma nessuno legge più Parini e Alfieri… Chi fa la battaglia per insegnare l’arte nelle scuole forse dovrebbe essere più coerente e battersi anche perché si insegni la musica e la storia dei suoi illustri protagonisti nostrani, da Verdi a Puccini».

A proposito di tv, partirà a giorni Masterpiece, il reality sui libri in onda su RaiTre. Che ne pensa di questo progetto voluto da Elisabetta Sgarbi?

«Mi piace molto. È un altro tassello dell’incrocio dei nostri destini. Quando ho cominciato la mia attività, mia sorella era una ragazza disciplinata e avrebbe voluto fare la farmacista ma adesso, forse per stimolo diretto della mia esperienza, farà la televisione, anche se un tempo la considerava lontana da se. Se io reso popolare l’arte in televisione, mi sembra bello e utile, che lei adesso faccia lo stesso con la letteratura».

C’è anche un chiaro auspicio politico che emerge dal suo libro.

«Mostrando il patrimonio artistico italiano si giunge a suggerire l’idea di giungere ad una riforma dello stato in cui il ministero dei beni culturali e dell’economia possano coincidere, creando un ministero del tesoro dei beni culturali. Così il patrimonio spirituale e artistico sarà davvero considerato anche materiale, qualcosa di cui l’economia deve tener conto come una ricchezza, non come un peso».

Francesco Musolino®

Fonte: La Gazzetta del Sud, 12 novembre 2013

«Scrivere è l’unico modo per esprimere me stesso». Andrea Carlo racconta “Villa Metaphora”

Andrea De Carlo

Andrea De Carlo

In un lussuosissimo resort nell’immaginaria isola di Tari a sud della Sicilia, si incontrano quattordici personaggi assai diversi fra loro – come il petulante politico, il ricchissimo banchiere e una famosa attrice – specchio della nostra contemporaneità piuttosto desolante, lungo un arco narrativo che sfiora le mille pagine. Si presenta così “Villa Metaphora”, il nuovo libro dello scrittore milanese Andrea De Carlo (Bompiani, pp. 924 euro 19,50) una vera e propria sfida per il lettore. Ma l’autore di “Treno di panna” e “Due di due” precisa: «tutto ciò fa parte della medesima catena narrativa sbocciata quando mia madre mi regalò una Lettera22 portatile, rossa». Senza dimenticare l’incoraggiamento ricevuto da Italo Calvino.

È vero che questa storia la inseguiva da diversi anni?

«Sono passati otto anni dalla prima volta che ho immaginato Villa Metaphora e ne sono serviti cinque per scriverla. La mia idea era quella di raccontare la nostra realtà mediante il punto di vista di un gruppo di quattordici persone molto diverse fra loro, bloccate per un periodo nel medesimo luogo ovvero un lussuoso resort sull’isoletta di Tari».

La struttura narrativa che utilizza ricorda il Decameron.

«È una struttura antica che permette al narratore – e anche al lettore – di osservare e registrare tanto le azioni che le reazioni dei personaggi. È come una riproduzione in scala della contemporaneità».

Ha dichiarato che costruisce i personaggi come fossero all’Actor’s Studio, donandogli un retroterra adeguato. Far collimare tante personalità sulla pagina è stato arduo?

«Ha richiesto molto tempo e attenzione. Ho dovuto condurre studi e ricerche in diversi campi prima di mettermi a scrivere ma la cosa più impegnativa è stato il processo di immedesimazione, voler vedere il mondo dal punto di vista del personaggio, trasferendomi in ciascuno di esso».

Che quadro ne viene fuori?

«Piuttosto desolante. Emergono grandi contraddizioni, conflitti fra mondi paralleli. Ciascuno persegue la propria strategia per raggiungere i propri fini partendo dal presupposto che il mondo sia sempre in nostro controllo e, dunque, inevitabilmente destinato ad essere spremuto sino alla fine per perseguire i nostri interessi».

decarlo1Ha scelto di creare l’isola di Tari e persino una nuova lingua. Perché?

«Volevo essere libero di muovermi e di inventare, per tale motivo ho scelto un’isola immaginaria e le ho costruito una storia fatta di successive occupazioni e colonizzazioni, da cui è sorta una strana lingua, frutto di tante miscele. Creare una lingua e una grammatica minima, è stato molto divertente ma anche faticoso, mi ha condotto nel campo delle lingue artificiali e sperimentali come l’esperanto o l’ido».

Nel libro ricorre il numero 7 e proprio il 7 novembre Villa Metaphora è giunto in libreria. Lei ha dichiarato di credere nel destino e non nelle singole coincidenze ma non sono due facce della stessa medaglia?

«Più vivo più sento che le coincidenze non siano tali ma le conseguenze inevitabili di percorsi tracciati dai quali è impossibile allontanarsi. Sì, nel libro ricorre il numero 7, del resto è un numero che ha sempre affascinato tutte le culture, talvolta considerato simbolo di perfezione e associato al ciclo lunare. Credo che pensare ad un percorso piuttosto che a singoli eventi casuali, ci permetta di essere più ricettivi, cogliendo il fatto che alcune cose possano verificarsi solo quando è scritto e altre, semplicemente, non accadono e faremmo meglio a non nuotare contro corrente, aspettando che i tempi siano maturi».

Fondamentale fu l’incontro con Italo Calvino. Come accadde?

«Inviai il mio primo romanzo, “Treno di panna” a diversi editori che non mi risposero nemmeno. Mi consigliarono di inviarlo all’Einaudi, proprio all’attenzione di Calvino ma il manoscritto finì a Natalia Ginzburg che mi rispose con una cortese lettera di rifiuto. Tuttavia il libro arrivò infine a Calvino, il quale mi rispose con grande entusiasmo. Un’apparente coincidenza? Penso che ci fosse la mano del destino nella possibilità che un grande scrittore volesse aiutare un nuovo autore ad emergere».

È vero che leggendo Fenoglio ha appreso una grande verità circa il successo letterario?

«“Il Partigiano Johnny”, il suo capolavoro, fu pubblicato solo postumo anche per colpa dell’invidia dei suoi colleghi. Ma alla fine è giunto al lettore con tutta la sua forza. Ciò testimonia che alla lunga l’apprezzamento arriva e che non bisogna farsi influenzare troppo dal successo delle vendite. Del resto, anche Scott Fitzgerald, ai suoi tempi, non era certo in cima alle classifiche».

Recentemente Philip Roth ha annunciato di aver rinunciato a scrivere. Per lei cosa significa scrivere?

«Continua ad essere una sfida, un piacere, l’unico modo per esprimermi, per parlare di ciò che sento. La posizione di Roth è degna di rispetto, si vedono troppi artisti che si trascinano innanzi, ripetendo se stessi. Credo che quando non troverò più dentro di me le giuste motivazioni, smetterò anch’io».

Francesco Musolino®

Fonte: La Gazzetta del Sud, 21 dicembre 2012