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La Polveriera. Un libro-tributo ad Anna Maria Rimoaldi.

StefanoPetrocchiFondazioneBellonciPremioStregaLa storia d’Italia letteraria passa dal Premio Strega. Amato, odiato, temuto, ambito, vilipeso, il riconoscimento editoriale più prestigioso del nostro paese, divide da sempre le opinioni. A priori. In Italia il popolo dei lettori è sempre più esiguo, eppure tutti hanno una propria teoria sui candidati, le cinquine e i ovviamente i vincitori del Premio Strega, istituito nel 1947 all’interno del salotto letterario di Casa Bellonci a Roma e organizzato dalla Fondazione Bellonci dal 1986. Il primo a trionfare fu Ennio Flaiano, l’ultimo, in ordine cronologico, Nicola Lagioia. Con gli anni il Premio si è evoluto e sotto la guida di Stefano Petrocchi, attuale direttore della Fondazione Bellonci e segretario del comitato direttivo del premio Strega, con l’istituzione del Premio Strega Giovani e adesso anche del Premio Strega Ragazze e Ragazzi, cui si affiancano anche nuove metodologie di voto e una maggiore attenzione alle nuove leve fra la critica letteraria in seno agli ormai mitici Amici della Domenica, giuria votante del Premio più ambito da tutti gli scrittori. Per onorare la memoria di Anna Maria Rimoaldi, detta affettuosamente Il Capo, proprio Petrocchi ha scritto “La Polveriera” (Mondadori, pp.194 €17) un libro-memoir ripercorrendo numerosi episodi salienti della storia del Premio e dei suoi protagonisti, con un velo di malinconia verso i protagonisti del passato e una grande fiducia nell’immediato futuro.
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«La sofferenza è uno strumento di conoscenza dei propri limiti e delle proprie forze». Marco Peano racconta “L’invenzione della madre”

Marco Peano

Marco Peano

Per congedarsi dalla madre morente, Mattia decide di rallentare il tempo, di sublimare ogni istante che gli è concesso per restarle accanto, per poter prolungare il momento – inevitabile – dell’addio. Per questo Mattia decide di rimanere in provincia, nel suo bozzolo caldo e protettivo, dove si sente a suo agio, nonostante tutto. Ma è solo un’illusione. La realtà incombe e il tempo non rallenta mai e per nessun motivo. Ne “L’invenzione della madre” (Minimum Fax, pp.280 €14), Marco Peano parte da una dolorosissima esperienza personale per raccontare il più grande degli amori, quello d’un figlio che deve dire addio alla madre, malata terminale. Tutti gli altri rapporti personali di Mattia – l’unico personaggio cui l’autore ha voluto assegnare un nome – sono cristallizzati nel tempo della malattia, ritualizzati nell’illusione della perpetuità. Torinese, classe ’79, Marco Peano – editor della narrativa italiana Einaudi – firma un libro d’esordio dolorosamente necessario, di una bellezza lacerante, in cui la malattia come tabù viene affrontata di petto, conducendo il lettore per mano e con grande coraggio.  Leggi il resto di questa voce

«Scrivere è l’unico modo per esprimere me stesso». Andrea Carlo racconta “Villa Metaphora”

Andrea De Carlo

Andrea De Carlo

In un lussuosissimo resort nell’immaginaria isola di Tari a sud della Sicilia, si incontrano quattordici personaggi assai diversi fra loro – come il petulante politico, il ricchissimo banchiere e una famosa attrice – specchio della nostra contemporaneità piuttosto desolante, lungo un arco narrativo che sfiora le mille pagine. Si presenta così “Villa Metaphora”, il nuovo libro dello scrittore milanese Andrea De Carlo (Bompiani, pp. 924 euro 19,50) una vera e propria sfida per il lettore. Ma l’autore di “Treno di panna” e “Due di due” precisa: «tutto ciò fa parte della medesima catena narrativa sbocciata quando mia madre mi regalò una Lettera22 portatile, rossa». Senza dimenticare l’incoraggiamento ricevuto da Italo Calvino.

È vero che questa storia la inseguiva da diversi anni?

«Sono passati otto anni dalla prima volta che ho immaginato Villa Metaphora e ne sono serviti cinque per scriverla. La mia idea era quella di raccontare la nostra realtà mediante il punto di vista di un gruppo di quattordici persone molto diverse fra loro, bloccate per un periodo nel medesimo luogo ovvero un lussuoso resort sull’isoletta di Tari».

La struttura narrativa che utilizza ricorda il Decameron.

«È una struttura antica che permette al narratore – e anche al lettore – di osservare e registrare tanto le azioni che le reazioni dei personaggi. È come una riproduzione in scala della contemporaneità».

Ha dichiarato che costruisce i personaggi come fossero all’Actor’s Studio, donandogli un retroterra adeguato. Far collimare tante personalità sulla pagina è stato arduo?

«Ha richiesto molto tempo e attenzione. Ho dovuto condurre studi e ricerche in diversi campi prima di mettermi a scrivere ma la cosa più impegnativa è stato il processo di immedesimazione, voler vedere il mondo dal punto di vista del personaggio, trasferendomi in ciascuno di esso».

Che quadro ne viene fuori?

«Piuttosto desolante. Emergono grandi contraddizioni, conflitti fra mondi paralleli. Ciascuno persegue la propria strategia per raggiungere i propri fini partendo dal presupposto che il mondo sia sempre in nostro controllo e, dunque, inevitabilmente destinato ad essere spremuto sino alla fine per perseguire i nostri interessi».

decarlo1Ha scelto di creare l’isola di Tari e persino una nuova lingua. Perché?

«Volevo essere libero di muovermi e di inventare, per tale motivo ho scelto un’isola immaginaria e le ho costruito una storia fatta di successive occupazioni e colonizzazioni, da cui è sorta una strana lingua, frutto di tante miscele. Creare una lingua e una grammatica minima, è stato molto divertente ma anche faticoso, mi ha condotto nel campo delle lingue artificiali e sperimentali come l’esperanto o l’ido».

Nel libro ricorre il numero 7 e proprio il 7 novembre Villa Metaphora è giunto in libreria. Lei ha dichiarato di credere nel destino e non nelle singole coincidenze ma non sono due facce della stessa medaglia?

«Più vivo più sento che le coincidenze non siano tali ma le conseguenze inevitabili di percorsi tracciati dai quali è impossibile allontanarsi. Sì, nel libro ricorre il numero 7, del resto è un numero che ha sempre affascinato tutte le culture, talvolta considerato simbolo di perfezione e associato al ciclo lunare. Credo che pensare ad un percorso piuttosto che a singoli eventi casuali, ci permetta di essere più ricettivi, cogliendo il fatto che alcune cose possano verificarsi solo quando è scritto e altre, semplicemente, non accadono e faremmo meglio a non nuotare contro corrente, aspettando che i tempi siano maturi».

Fondamentale fu l’incontro con Italo Calvino. Come accadde?

«Inviai il mio primo romanzo, “Treno di panna” a diversi editori che non mi risposero nemmeno. Mi consigliarono di inviarlo all’Einaudi, proprio all’attenzione di Calvino ma il manoscritto finì a Natalia Ginzburg che mi rispose con una cortese lettera di rifiuto. Tuttavia il libro arrivò infine a Calvino, il quale mi rispose con grande entusiasmo. Un’apparente coincidenza? Penso che ci fosse la mano del destino nella possibilità che un grande scrittore volesse aiutare un nuovo autore ad emergere».

È vero che leggendo Fenoglio ha appreso una grande verità circa il successo letterario?

«“Il Partigiano Johnny”, il suo capolavoro, fu pubblicato solo postumo anche per colpa dell’invidia dei suoi colleghi. Ma alla fine è giunto al lettore con tutta la sua forza. Ciò testimonia che alla lunga l’apprezzamento arriva e che non bisogna farsi influenzare troppo dal successo delle vendite. Del resto, anche Scott Fitzgerald, ai suoi tempi, non era certo in cima alle classifiche».

Recentemente Philip Roth ha annunciato di aver rinunciato a scrivere. Per lei cosa significa scrivere?

«Continua ad essere una sfida, un piacere, l’unico modo per esprimermi, per parlare di ciò che sento. La posizione di Roth è degna di rispetto, si vedono troppi artisti che si trascinano innanzi, ripetendo se stessi. Credo che quando non troverò più dentro di me le giuste motivazioni, smetterò anch’io».

Francesco Musolino®

Fonte: La Gazzetta del Sud, 21 dicembre 2012

I libri cambiano davvero il destino delle persone.

Confesso di avere un debole per i libri che parlano di libri. Da Calvino a Yehoshua, da Vargas Llosa a Hornby, da Miller a Manguel per fortuna sono numerosi – ma mai abbastanza per quanto mi riguarda – i romanzi che piuttosto che scandagliare il processo narrativo in modo didascalico-accademico, mirano semplicemente a farci incuriosire e innamorare, innescando un processo di scatole cinesi che il vero Lettore non potrà non seguire. Così, una volta chiuso il libro sarà già pronta una lista di nuovi titoli da scovare in libreria, su consiglio di autori che apprezziamo e che magari, qualcun altro libro ci ha fatto conoscere. E il piacere è maggiore se i titoli in questione sono in fase di traduzione o difficili da reperire come nel caso diLa Casa di Carta edito da Sellerio (pp. 96; tr. it. di Maria Nicola; €10), che è stata capace di assicurarsi una piccola perla che non potrà non ingolosire i bibliofili o bibliofolli, citando il bel libro di Alberto Castoldi.

La Casa di Carta (che Alberto Manguel cita neIl diario di un lettore) è il surreale racconto dell’incrociarsi di quattro destini, tutti legati ai libri in modo molto stretto. Perché, come l’autore sottolinea, i libri cambiano il destino delle persone. Il romanzo esiguo nel numero di pagine ma non per la densità di contenuti, prende avvio con un decesso: Bluma Lennon, docente universitaria a Cambridge, viene travolta da un auto proprio mentre leggeva un volume di versi di Emily Dickinson dopo averlo acquistato in una libreria di Soho. Incredibilmente tutto ciò da il via ad una sorta di diatriba accademica per calcolare quale verso stesse leggendo con precisione nel momento dell’impatto. E’ evidente che Dominguez non debba nutrire grande stima per gli accademici vista l’ironia utilizzata per dipingerli. 

Sarà proprio il successore in pectore di Bluma, un docente argentino di ispanistica, a prendersi cura dei suoi studenti ma la sua attenzione sarà attratta da un volume recapitato proprio alla defunta collega dall’Uruguay e giunto troppo tardi: una copia del 1946 de La Linea d’Ombra di Joseph Conrad. Come se non bastasse la dedica nel libro, vergata dalla stessa Bluma per un misterioso uomo, il volume presenta inequivocabili tracce di cemento che rischiano di far impazzire la domestica del professore, sempre alle prese con l’impari battaglia contro la polvere e i parassiti della carta.

Come il cuore rivelatore di Poe, quel libro, piazzato sul leggio attrae fatalmente l’attenzione del docente, che prova sentimenti contrastanti verso i libri tanto che anno dopo anno cerca di evitare che la sua casa venga inondata dai libri:

“Ogni anno regalo non meno di cinquanta volumi ai miei studenti, eppure non riesco a smettere di aggiungere sempre un nuovo scaffale, una nuova doppia fila di libri; i libri avanzano per la casa, silenziosi, innocenti. Non riesco a fermarli”.

Chi è Carlos Brauer e perché ha rispedito indietro quel volume a Bluma? Cosa spinge il docente ad imbarcarsi in un viaggio verso la natìa argentina e poi verso l’Uruguay per scoprire la storia di Brauer e del suo folle archivio?

Dominguez ha scritto uno dei libri più interessanti sulla bibliofilia, l’arte di creare le biblioteche – con o senza un criterio logico – evidenziando che la fatica per procurarsi un libro non è nulla dinnanzi a quella per disfarsene. “Le biblioteche di una vita sono ben di più di una semplice somma di libri”, scrive Dominguez. “Una biblioteca è una porta sul tempo”, come scrisse Borges.