Michele Giuttari: «Dopo trent’anni di indagini, vi racconto la mia vita da poliziotto scomodo».
Dopo aver trascorso trentadue anni in polizia, Michele Giuttari ha deciso di raccontare la sua intensa attività investigativa, ripercorrendo la recentissima storia d’Italia attraverso casi altisonanti sui quali ha indagato in prima persona. Giuttari ha ricoperto incarichi alle Squadre Mobili di Reggio Calabria e Cosenza, ha prestato servizio presso la Dia di Napoli e Firenze per poi divenire capo della Squadra Mobile di Firenze. Dal 1997, inoltre, si dedica con successo all’attività di romanziere, tanto che sta attualmente terminando il suo tredicesimo thriller. In “Confesso che ho indagato” (Rizzoli, pp.368 €18), il messinese Michele Giuttari (classe ’50) narra un racconto di vita senza omissioni sino a giungere in Toscana, sulle tracce del celebre Pietro Pacciani, il “Mostro di Firenze” e dei “Compagni di merende”, con la chiara consapevolezza che non tutta la verità sia ancora emersa.
Perché ha scelto di scrivere un’ autobiografia?
«Ho voluto raccontare la mia vita di investigatore per più motivi. Innanzitutto per ricordare alcuni dei casi investigativi più complessi che mi hanno visto impegnato in prima persona, quale ad esempio l’inchiesta sulle stragi di mafia del 1993 a Firenze, Roma e Milano, svolta nelle funzioni di responsabile del settore giudiziario del Centro DIA di Firenze. Inoltre per far capire con precisi riferimenti oggettivi come deve formarsi un vero investigatore in un momento storico in cui in Italia si ha l’impressione che sia sempre più difficile trovare la soluzione a casi addirittura apparentemente non di particolare complessità, in cui si cerca di dare la supremazia al contributo scientifico. E ancora per far capire e sottolineare alcune storture del nostro sistema giudiziario, che andrebbero eliminate.
Trentadue anni in polizia più otto mesi nel settore investigativo. Com’è cambiato il suo mondo in questi decenni?
«Il mio mondo nel corso degli anni è stato segnato da soddisfazioni professionali e da amarezze, come quando nel 1999 dovetti assentarmi per oltre un anno dalle funzioni di capo della mobile di Firenze per usufruire di un lungo periodo di aspettativa. Il Capo della Polizia mi aveva trasferito ad altro incarico meno importante proprio quando stavo iniziando a indagare sui possibili mandanti del Mostro. Dovetti fare ricorso al TAR che mi diede ragione concedendomi la sospensiva, confermata dal Consiglio di Stato. Ritornai così al posto di capo della Mobile ma durante quell’arco di tempo scrissi il mio primo vero romanzo, “Scarabeo” (Rizzoli, 2004).
Nel libro riviviamo una storia d’Italia attraverso diversi casi altisonanti e su tutti spicca l’indagine sui Mostri di Firenze. A distanza di anni che bilancio farebbe di quel caso?
«Sostanzialmente un bilancio positivo. Dopo anni di indagini infruttuose per la ricerca del serial killer solitario, individuato poi in Pietro Pacciani – condannato in primo grado il 1.11.1994, prosciolto in appello nel febbraio 1996, infine di nuovo imputato dopo l’annullamento della sentenza d’appello da parte della Cassazione il 12.12.1996 – finalmente era stato possibile incanalare le investigazioni nella giusta ottica di più esecutori materiali, ottenendo in appena tre anni, caso più unico che raro nel nostro Paese, una sentenza definitiva a carico di Vanni Mario e Lotti Giancarlo, colpevoli in concorso – lo scrivono i giudici in sentenza – con Pacciani che nelle more della celebrazione del nuovo processo di appello, è morto in circostanze quanto mai sospette».
Ma non tutto è stato chiarito…
«Infatti, è rimasto insoluto l’aspetto dei possibili mandanti, come ipotizzato in sentenza dai giudici. E questo perché a un certo punto l’inchiesta in corso fu bloccata dall’iniziativa della Procura di Firenze che mi contestò il reato di abuso d’ufficio e di falso ideologico. Una iniziativa rivelatisi un buco nell’acqua essendo stati prosciolti entrambi, dopo quasi otto anni, con formula ampia ma che ha posto una pietra tombale sul proseguimento dell’inchiesta, di cui non si è saputo più nulla».
Da Reggio Calabria si spostò a Cosenza per sostituire un valoroso collega e amico, scomparso in azione…
«Mi è piaciuto particolarmente ricordare l’amico Nicola Calipari, grande servitore dello Stato oltre che investigatore dalle capacità professionali straordinarie, a cui diedi il cambio alla dirigenza della Squadra Mobile di Cosenza quando lui si trasferì alla Mobile della Capitale. Un funzionario coraggioso e altruista come ha dimostrato anche nell’azione che ha portato alla sua morte».
Accennava a Scarabeo, ma com’è nata in lei la decisione di iniziare la carriera di romanziere?
«Dopo aver repressa la mia passione per la scrittura per lunghi anni, si è manifestata nel 1978, quando insieme a Carlo Lucarelli ho raccontato l’indagine che diede la svolta al caso del Mostro di Firenze. Da quel momento la scrittura non mi ha mai abbandonato, tanto che sto completando il mio tredicesimo libro, un nuovo thriller con il solito protagonista di carta, Michele Ferrara, sostanzialmente il mio alter ego».
L’editore ha scelto di completare il titolo con la dicitura “autobiografia di un poliziotto scomodo”. Lei si sente davvero così?
«Per quanto vissuto, soprattutto durante le indagini sull’ultimo segmento investigativo dei duplici omicidi fiorentini, forse sono risultato davvero “scomodo” sia ad alcuni magistrati sia ad alcuni vertici della polizia, anche romani. Soprattutto il comportamento tenuto dai vertici mi ha particolarmente colpito avendo considerato da sempre la polizia come la mia seconda famiglia a cui avevo dato tutto il mio impegno, nel pieno rispetto della legge e animato da un profondo senso dello Stato che mi ha accompagnato negli anni».
FRANCESCO MUSOLINO®
FONTE: GAZZETTA DEL SUD, 10 MAGGIO 2015
Pubblicato il 2015/05/11, in Interviste con tag dia, firenze, gazzetta del sud, giuttari, indagato, indagini, messina, mobile, mostro, musolino, polizia, rizzoli, romanzi, scarabeo, scomodo. Aggiungi il permalink ai segnalibri. Lascia un commento.
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