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Amélie Nothomb: «Aveva ragione Barbablù, bisogna difendere i propri segreti».
Da molti anni ormai, con una puntualità che rende felice i suoi numerosi lettori, giunge alle soglie della primavera il nuovo romanzo della scrittrice belga Amélie Nothomb. Con “Barbablù” (come sempre edito dalla Voland di Daniela Di Sora) si tocca quota ventuno ma dato il bisogno quasi fisico di scrivere – un’alchimia che accade ogni giorno dalle 3 alle 7 di mattina – ad oggi la Nothomb ha scritto ben settantasei romanzi e gli inediti sono custoditi con cura nelle sue scatole delle scarpe. In questo nuovo libro viene riletta la celebre fiaba dai toni cupi di Charles Perrault, narrandola dal punto di vista del Mostro per denotare l’attualità della storia ovvero la quasi impossibilità di custodire un segreto nell’epoca moderna. Ma se l’amore è mistero anche per l’autrice, non si può venire meno a degli spazi protetti e la violazione della fiducia riposta nell’amato può comportare gravi conseguenza, proprio come accade per il femminicida Barbablù. Al centro della vicenda troviamo il ricchissimo don Elemiro, il più nobile fra i nobili di Spagna esule in Francia che, rinchiusosi nella sua lussuosa casa, ne affitta una stanza per avere una compagnia femminile. Si presenta una giovane belga, Saturnine che coglie al volo l’occasione ma è decisa ad indagare sulla sorte delle otto precedenti affittuarie, misteriosamente scomparse. In Barbablù ritornano i dialoghi scoppiettanti ed arguti che hanno resa famosa l’autrice ma si tratta di un titolo imperdibile per i suoi fan poiché la Nothomb riporta in pagina anche le sue più grandi passioni, oltre la scrittura ovviamente; vi si celebra l’oro liquido, lo champagne di grandi marche (come in “Causa di forza maggiore”), la passione per i nomi con carattere (già evidenziata in “Dizionario dei nomi propri”) e in ultimo, quella per i colori, del resto a 18 anni la Nothomb – che indossa sempre un caratteristico cappello a cilindro nero – scrisse un’inedita “Metafisica dei colori”. L’autrice ha risposto alle nostre domande dal suo ufficio parigino, a Montparnasse, sede del suo storico editore d’Oltralpe.
Perché ha scelto la fiaba-nera di Charles Perrault?
«Barbablù è sempre stata la mia favola preferita ma trovavo che Perrault non era stato giusto, corretto, con il suo personaggio. Io volevo mostrare che Barbablù aveva ragione».
Come mai il suo moderno Barbablù è spagnolo?
«Perrault per il suo Barbablù si è ispirato a Enrico VIII Tudor, che io detesto. Volevo per questo un Barbablù che fosse il suo opposto. L’opposto di un inglese è certamente uno spagnolo».
Un romanzo che parte da una fiaba ma tratta dell’importanza della privacy nella società odierna…
«Anche per questo il mio romanzo è d’attualità. Bisogna legiferare per proteggere i propri segreti».
I colori sono protagonisti assoluti però per se stessa ha scelto il nero…
«Il nero sta bene con tutti i colori! E così posso comprare solo un detersivo, il detersivo per il nero».
Stupisce sempre che cruenti criminali possano avere schiere di ammiratrici, eppure accade puntualmente. È questo cui si riferisce Don Elemiro fotografando il lato oscuro della femminilità?
«È esattamente così. Come dico anche in quest’ultimo romanzo nella maggior parte delle donne, esiste indubbiamente una forma di masochismo. Ho visto troppe donne soccombere all’attrazione di ripugnanti pervertiti».
Saturnine cerca di giustificare don Elemiro salvo poi arrabbiarsi con se stessa. La perdita del giudizio è uno dei rischi legati all’innamorarsi?
«Oh si! E’ una cosa che abbiamo continuamente sotto gli occhi».
Scrive che “Il concetto di sostituzione è alla base del disastro dell’umanità”. Perché?
«Il concetto di sostituzione contesta l’unicità della persona umana. Questo concetto rende possibile il capitalismo selvaggio».
Questo è il suo settantaseiesimo libro, che rapporto ha con l’ispirazione legata alla scrittura?
«L’ispirazione è come una ferita. Non bisogna lasciare che si cicatrizzi. Per farla continuare a sanguinare bisogna scrivere continuamente. È quello che faccio».
Anche lei è guidata dall’ascesi come profetizza debba farsi don Elemiro per ogni attività creativa?
«Si sono una asceta, tranne che per lo champagne».
Tutti i suoi libri italiani sono editi da Voland, un binomio perfetto. Come si trova il proprio editore ideale?
«Voland ed io siamo un miracolo fattosi realtà. Bisogna credere ai miracoli e cercare il proprio».
Francesco Musolino
Fonte: La Gazzetta del Sud, 6 marzo 2013
Hermès: la roccaforte del lusso. Intervista a Federico Rocca
Il mondo della moda, oggi, è dominato da due superpotenze: la holding francese LVMH (le iniziali derivano da Louis Vuitton, Möet et Chandon e il cognan Hennessy ma fanno parte di questa holding altisonanti marchi del lusso come Acqua di Parma, Fendi, Bulgari,Givenchy e Fendi) e la holding multinazionale PPR (la cui punta di diamante è rappresentata dal gruppo Gucci che, a sua volta controllaYves Saint Laurent, Stella McCartney, Balenciaga, Sergio Rossi e la catena di librerie Fnac).
Ma, come chiarisce Federico Rocca nel suo prezioso libro Hermès – L’avventura del lusso (Edizioni Lindau, pp. 256, €21, illustrazioni: N° 1/16 col. f.t.), fortunatamente ci sono due isole del lusso che resistono ovvero Chanel ed Hermès: «In esse, come in un regno antico, il potere si tramanda in linea familiare diretta». Sono accomunate da molte cose ma, a ben vedere «come Chanel – ma in maniera più radicale, ci pare – Hermès ha scelto di giocare la sua partita con un mazzo di carte diverso da quello delle megapotenze multinazionali».
Una scelta ben precisa dunque, che caratterizza da sempre questa maison di moda, sempre fedele alla propria “missione”, tanto che Rocca non esita a scrivere: «Hermès canta fuori dal coro […] Si potrebbe dire che Hermès sia l’unica e vera maison al 100% dedita al lusso rimasta a Parigi». Un’affermazione non da poco, giustificata nel corso della narrazione.
Un passo indietro è d’obbligo. La storia di Hermès comincia nel 1837 quando Thierry Hermès fonda la Maison a Parigi, come manifattura di finimenti dei cavalli ma la svolta avviene nel 1897 con la messa in commercio della Sac Haut à Courroies, una grande borsa in cuoio destinata a contenere sella, briglie, morsi e bardature varie. Tuttavia ben si comprese che al posto di sella e briglie la borsa può ospitare una gran quantità di oggetti differenti, tutti quelli che un vero viaggiatore desidera avere con sé, ovunque nel mondo e in qualsiasi momento. Così Hermès entra nel mercato della moda.
Ricostruendo in modo dettagliato e ricco di aneddoti, la storia di Hermès, il fashion editor di Style.it, Federico Rocca, pone al lettore considerazioni ricche di spunti ipertestuali: «Nei periodi di crisi internazionale, uno dei settori a risentire di meno è quello del lusso».
Le edizioni Lindau non sono nuove a questi volumi (da segnalare anche “Luxury Hackers – dal Fordismo al Tomfordismo e oltre” di Danilo Venturi) che si rivelano essenziali per capire le tendenze che muovono ogni giorno il mercato della moda, svelando logiche ben precise.
Federico, il destino di Thierry Hermès, fondatore della Maison, è inciso nel suo cognome, Nomen omen, per citare la sua introduzione…
Esatto. Hermes era il dio messaggero. Proteggeva i viaggiatori e i commercianti. Per Hermès era quasi “obbligatorio” dare vita a un commercio fortunato con i finimenti per cavalli. Certo, il destino uno se lo può anche inventare e costruire. E la famiglia Hermès ha saputo fare anche questo.
Parlando di Hermès, lei osa un paragone con un’isola, una vera e propria roccaforte del lusso. Se dovesse condensare la concezione stessa dello stile della maison francese in poche righe, cosa direbbe ai nostri lettori?
Ricerca testarda della qualità. Dell’eccellenza e dell’imperfezione nella perfezione. Senza strategie palesi. Senza calcoli fatti tornare a tutti i costi. Fiducia nel bello. Rispetto per la propria storia. Sguardo rivolto sempre al futuro, e persino all’innovazione.
I foulard e la Birkin sono gli emblemi di Hermés, noti persino a chi conosce poco o nulla di moda. In particolare la nascita della Birkin nasconde un gustoso aneddoto che ne spiega le ragioni delle dimensioni e le sue funzioni…
Sì, l’incontro casuale su un aereo di Jean-Louis Dumas con Jane Birkin, che si lamentava di non trovare una borsa sufficiente mente capiente per le esigenze di una mamma sempre in viaggio. La cosa da imparare è come il mito nasca spesso dal caso. E che il marketing non può proprio tutto.
Nel 1978, Jean-Louis Dumas prende le redini della maison. Qual è la direzione che imprime alla maison?
Dumas è un grande innovatore, ha un talento sottilissimo nel percepire le esigenze del mercato e di adattare Hermès ad esse, senza assolutamente stravolgerne il dna. grazie a lui Hermès è diventata quello che è oggi: l’unico lusso, o quasi, del quale oggi abbia ancora senso parlare.
Sorprende positivamente il fatto che la famiglia possegga ancor oggi, circa l’80% del capitale d’azienda visto che sono moltissime le aziende note ormai passate di mano. Cosa significa per Hermès essere in mano alla famiglia fondatrice?
Significa non tradire le proprie radici. Continuare a fare ciò che ha sempre fatto (o, meglio, cose nuove ma con lo stesso spirito). In un certo senso, continuare a giocare la partita della moda con regole diverse da quelle con cui giocano le altre squadre del campionato. ma continuando a fare goal.
Tom Ford afferma che il lusso non può essere democratico altrimenti cessa d’essere lusso: a suo avviso, la ricerca della borsa griffata d’imitazione a prezzo stracciato – rinunciando alla custodia e soprattutto alla cura dei materiali e dei finimenti – non è, ipso facto, un non-sense?
Sì, forse, ma anche no. Se quello che ho io non possono almeno desiderarlo anche gli altri, che gusto c’è? E’ una provocazione (ma fino a un certo punto)
Scrivi che “Nei periodi di crisi internazionale, uno dei settori a risentire di meno è quello del lusso”. Sembra un paradosso oppure il lusso è il bene rifugio per eccellenza?
Semplicemente il lusso non è per tutti e quei “pochi” non risentono, spesso, delle crisi quei pochi non devono forse fare rinunce, rispetto agli altri (che si “accontentano” del prodotto medio, e che a un certo punto devono rinunciare anche a quello).
Silvia Bergero: «Vi presento le mie Galline»
Dei ventenni sappiamo già tutto. E anche i trentenni non sono più un’incognita. Quelle generazioni X e Y le abbiamo lette in tutte le salse e viste al cinema in tutte le varianti possibili. Le quarantenni sono al centro dei nuovi serial tv americani ma in una società gerontocratica, che non lascia spazio ai giovani nel mondo del lavoro, le vere protagoniste devono essere le cinquantenni. Ma chi sono? «Sono quelli che hanno fatto in tempo a crearsi una carriera in un ambito di lavoro scelto e non subito; quelli che hanno messo su famiglia senza troppi patemi (e magari l’hanno anche disfatta) e ora hanno figli più che ventenni, la casa al mare e poche preoccupazioni finanziarie. Sono anche quelli che hanno potere d’acquisto e quindi determinano il mercato più dei “trentenni-mille euro”. E vivono un segmento di età di grande cambiamento, il che significa che gli toccherà reinventarsi». Parola di Silvia Bergero, giornalista d’esperienza nonché autrice dell’ironico ma profondo Galline (Rizzoli; pp. 252; €17,90), il primo libro che vuole aprire uno squarcio su donne benestanti e apparentemente a loro agio fra glamour, lusso e amanti vari ma «con molte crepe sotto il vestito». La Bergero si è affidata al suo intuito di reporter e ad una curiosità bulimica per andare a caccia di notizie e particolari – dai vestiti ai luoghi più chic non manca davvero nulla – per costruire le sue protagoniste e senza scadere nel perbenismo, consiglia il lifting ma soprattutto l’amicizia. Perché la lotta contro il tempo è spietata e le Galline lo imparano sulla propria pelle.
Cominciamo con una curiosità: dopo 12 anni durante i quali hai diretto la sezione Cultura e Spettacoli del settimanale “Grazia”, intervistando scrittori e personaggi famosi, che sensazione ti dà stare dall’altra parte del microfono?
«Divertente, inusitato, coinvolgente. Ho preso tutta l’avventura di Galline con lo spirito del “dài mettiamoci alla prova su qualcosa mai fatto prima” e anche le interviste, i diversi interventi fra radio e tv rientrano nel quadro. Ogni tanto ho delle sovrapposizioni. Come durante l’intervista a Jonas Jonassons, autore di “Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve”, due giorni prima dell’uscita del mio libro. Facevo le domande, ma dovevo trattenermi per non dare le risposte io! Una specie di sdoppiamento della personalità. O forse, più banalmente, solo la sindrome Marzullo…»
Tv e libri si sono sempre occupati dei 20/30enni e da qualche anno grazie a fortunati serial tv, è esplosa la curiosità per le 40enni, le cougar. Tu invece hai scelto di parlare delle 50enni. Dunque, chi sono le tue Galline?
«Sono certa di essere la capofila di un nuovo genere letterario – di cui qualcuno dovrebbe aiutarmi a trovare il nome – quello che ha come autori e personaggi gli over fifthy. Perché sono proprio loro i protagonisti dei nostri tempi, quelli che hanno fatto in tempo a crearsi una carriera in un ambito di lavoro scelto e non subito; quelli che hanno messo su famiglia senza troppi patemi (e magari l’hanno anche disfatta) e ora hanno figli più che ventenni, la casa al mare e poche preoccupazioni finanziarie. Sono anche quelli che hanno potere d’acquisto e quindi determinano il mercato più dei “trentenni-mille euro”. E vivono un segmento di età di grande cambiamento, il che significa che gli toccherà reinventarsi. Mi sembra che ce ne sia abbastanza per renderli interessanti. O no?»
L’amicizia, il lusso e uno stile di vita molto glamour sono da subito protagonisti del tuo romanzo. Tuttavia non è un mondo tutto sorrisi e lustrini tanto che uno spiacevole incidente nella Chinatown made in Milano rischia di rovinare tutto, persino la loro amicizia…
«Sotto il vestito c’è di più… ci sono crepe – come per tutti, per di più trattandosi di persone adulte, con un bel pezzo di vita alle spalle. Alcune sono crepe superficiali, che si possono rattoppare facilmente, altre sono “strutturali” come direbbe l’ingegnere del quintetto, Maddalena. E allora c’è molto da lavorare e le mie protagoniste debbono rimboccarsi le maniche».
Quanto c’è di autobiografico in ciò che racconti? C’è un personaggio cui ti senti maggiormente affine?
«Nulla di autobiografico o di biografico. Sono personaggi d’invenzione, nati certamente a partire dalla galleria di persone che ho conosciuto negli anni, o magari anche solo sbirciato in treno, ascoltato dal parrucchiere. Su quei materiali lì sono andata d’immaginazione. E infatti nei ringraziamenti confesso di aver rubato a molti: case, vestiti, animali domestici, tic, modi di dire, professioni. Qualche amica ogni tanto mi telefona: “Ma il vestito di Marras è il mio, vero?”. Un’altra mi ha mandato un messaggio che diceva: “Clarence è orgoglioso e ringrazia” laddove Clarence è il suo cane che io ho attribuito ad Andrea… insomma, è motivo di divertimento».
Il rapporto con il tempo che trascorre inesorabile è un altro tema focale accanto a quello dell’amicizia. Silvia qual è il modo migliore per combattere le rughe e gli anni che volano via?
«Essere consapevoli innanzitutto che comunque lo faranno, a prescindere da noi: le rughe arrivano e il tempo parte. Seconda cosa: non contrastare la propria età intignandosi a vestirsi/comportarsi come a 20 anni. Sono comportamenti ridicoli, anzi grotteschi. Detto ciò, fare tutto quello che possiamo: se vi piace il lifting, va bene, come pure la palestra, le diete e quant’altro. Innamorarsi è un ottimo antidoto. Ma anche le amiche, quelle vere: sono uno strumento formidabile di resistenza alla vita».
Galline ad un primo impatto sembra un libro ad esclusivo uso e consumo delle lettrici. Ma una volta letta l’ultima pagina, si ha la sensazione che sia rivolto anche agli uomini, sbaglio?
«Non sbagli affatto e ti ringrazio di aver letto il mio romanzo con tanta attenzione. Fin dall’inizio mi ero proposta di fare degli uomini dei co-protagonisti, defilati magari, ma non figurine bidimensionali. Qualcuno ha detto che gli uomini ne escono male. Io direi che ne escono per come sono nella realtà – fatte le dovute eccezioni come sempre. Gli uomini hanno un decennio secco di vantaggio su di noi per quanto riguarda l’anagrafe biologica e un ventennio di svantaggio per quanto riguarda quella psicologica. Sono degli eterni ragazzi, per questo ci piacciono».
SILVIA BERGERO vive a Milano. Giornalista, ha lavorato presso diversi quotidiani e mensili ed è stata a lungo la responsabile di spettacoli e cultura per il settimanale “Grazia”. Ha inoltre condotto programmi su Radio3. Questo è il suo primo romanzo.
Fonte: www.tempostretto.it del 22 giugno 2011