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Massimo Maugeri: «Scrivere è l’atto di massima libertà possibile»
Fa parte dei “nuovi” membri della giuria del premio Strega. Il suo nome richiama una puntuale e appassionata comunicazione letteraria sul web mediante Letteratitudine, il suo seguitissimo blog. Ha la passione della scrittura e in pagina porta sovente la sua terra, la nostra terra, e i corto circuiti della contemporaneità. Il suo nuovo romanzo, “Trinacria Park”, è edito nell’interessante collana Sabot/Age curata da Colomba Rossi (ideata da Massimo Carlotto) per le Edizioni E/O. Stiamo chiaramente parlando di Massimo Maugeri che con questo libro segna un salto di qualità stilistico e il passaggio al genere noir, con un libro dai forti tratti metaforici che richiama l’importanza del Mito e non esita a denunciare le brutture della Sicilia…
Com’è nata l’idea di Trinacria Park?
«In maniera piuttosto semplice. Ho immaginato una piccola isola siciliana deturpata dall’edilizia selvaggia e dall’industria siderurgica, e ho immaginato un piano di riconversione fondato sulla realizzazione di un enorme parco tematico: il “Trinacria Park”. Un parco talmente grande da ambire a superare – per fama – l’Eurodisney di Parigi. L’idea è nata così. E da qui è nata la storia…»
Questo libro segna l’approdo ad una casa editrice di primo piano in una fra le collane editoriali più interessanti. Trinacria Park, a ben vedere, vi si colloca perfettamente poiché la menzogna e il suo necessario disvelamento sono alla base del tuo libro…
«Assolutamente sì. “Trinacria Park” è stato accolto all’interno della collezione Sabot/Age delle edizioni e/o: una collana diretta da Colomba Rossi e curata da Massimo Carlotto e che tra le tematiche prevalenti di cui si occupa c’è, appunto, il “tema della menzogna” (che è il tema centrale di “Trinacria Park”). All’interno del parco, e dell’isola, per un motivo o per l’altro, tutti fingono. La storia si dipana nel mezzo di interessi contrapposti, sopra cumuli di bugie dissimulate dai fasti mediatici che ruotano intorno a un grande sogno… che però è solo apparenza. Nulla è come sembra al “Trinacria Park”. Ma non c’è solo questo. Ci sono le storie dei tanti personaggi che popolano questo romanzo. Ciascuno di loro compie un percorso che incrocia inevitabilmente la tragedia collettiva consumata all’interno del parco. A partire da Manuel Vetri: un attore balbuziente che smette di tartagliare appena si accende l’occhio della telecamera, e che scoprirà verità che lo riguardano solo alla fine del percorso».
Interessante e suggestivo il collegamento fra le tre donne e le tre Gorgoni. Perché hai voluto questo parallelismo, questo gioco di rimandi che lega passato e presente?
«Perché sentivo l’esigenza di inserire una componente mitologica e visionaria all’interno di questa storia. Credo che il Mito, oggi, sia il grande assente della nostra letteratura. E credo sia giunto il momento di tornare a ridargli spazio. A mio modo di vedere la componente mitologico/visionaria agisce di più sull’inconscio e dunque (in un momento di grande bombardamento mediatico e di flussi di notizie che ci investono senza soluzione di continuità) può consentire – paradossalmente – di raccontare una storia in modo più incisivo. Nel corso della narrazione si crea un parallelismo tra le vicende dei tre principali personaggi femminili e le tre Gorgoni: la giornalista Marina Marconi viene accostata a Steno (detta “la forte”); alla direttrice del parco, la produttrice cinematografica statunitense Monica Green, si affianca la figura di Euriale (detta “la spaziosa”); la giovane attrice Angela Metis si ritrova a incarnare il mito di Medusa (“la distruttrice”)».
Un altro personaggio significativo è Gregorio Monti. Con lui emergono delle considerazioni sull’Isola, seviziata, malgovernata e stuprata…
«Gregorio Monti è il direttore artistico del parco. È un uomo di teatro. Un siciliano che ha lasciato l’isola e che ha fatto fortuna all’estero, approdando anche a Broadway. Lui incarna una serie di contraddizioni e di paradossi, a partire da quello che chiama “effetto isola”: un miscuglio di sensazioni contrastanti che prova ogni volta che torna o si allontana dal suo luogo di origine: un senso di fastidio frammisto a una componente di nostalgia».
Allargando l’occhio alla tua intera opera, le contraddizioni della modernità ti hanno sempre affascinato. In questo senso la scrittura si fa denuncia o piuttosto cartina di tornasole per evidenziare le brutture, i corto circuiti del nostro tempo?
«Entrambe le cose. In tal senso credo che la letteratura sia tutt’altro che morta. Al contrario, si trasforma in opportunità e urgenza. Ritengo che ne dia dimostrazione l’intera collezione Sabot/Age, che offre una potente suggestione: quella di una letteratura di sabotaggio fondata sul simbolo del “sabot”… lo zoccolo di legno che gli operai, ai tempi della rivoluzione industriale, lanciavano contro gli ingranaggi della macchina per arrestarne il meccanismo quando erano stremati. “Noi siamo esausti della menzogna che ci opprime”, dice Massimo Carlotto».
Da anni con Letteratitudine ti sei reso megafono della cultura e della scrittura in Italia. Invertendo il flusso delle domande, passando da intervistatore ad intervistato, ti chiedo: cosa significa per te l’atto della scrittura?
«Per me l’atto della scrittura coincide con l’atto della massima libertà. Ma è anche un atto di forte condivisione. E questo vale per tutte le grandi storie. Lo scrittore invita il lettore a intraprendere un viaggio, a condividere un’esperienza che oltrepassa le barriere dello spazio e del tempo. Spero che il viaggio offerto da “Trinacria Park” sia uno di quelli meritevoli di essere intrapresi».
Francesco Musolino®
Fonte: Tempostretto.it del 19 aprile 2013
Silvia Bergero: «Vi presento le mie Galline»
Dei ventenni sappiamo già tutto. E anche i trentenni non sono più un’incognita. Quelle generazioni X e Y le abbiamo lette in tutte le salse e viste al cinema in tutte le varianti possibili. Le quarantenni sono al centro dei nuovi serial tv americani ma in una società gerontocratica, che non lascia spazio ai giovani nel mondo del lavoro, le vere protagoniste devono essere le cinquantenni. Ma chi sono? «Sono quelli che hanno fatto in tempo a crearsi una carriera in un ambito di lavoro scelto e non subito; quelli che hanno messo su famiglia senza troppi patemi (e magari l’hanno anche disfatta) e ora hanno figli più che ventenni, la casa al mare e poche preoccupazioni finanziarie. Sono anche quelli che hanno potere d’acquisto e quindi determinano il mercato più dei “trentenni-mille euro”. E vivono un segmento di età di grande cambiamento, il che significa che gli toccherà reinventarsi». Parola di Silvia Bergero, giornalista d’esperienza nonché autrice dell’ironico ma profondo Galline (Rizzoli; pp. 252; €17,90), il primo libro che vuole aprire uno squarcio su donne benestanti e apparentemente a loro agio fra glamour, lusso e amanti vari ma «con molte crepe sotto il vestito». La Bergero si è affidata al suo intuito di reporter e ad una curiosità bulimica per andare a caccia di notizie e particolari – dai vestiti ai luoghi più chic non manca davvero nulla – per costruire le sue protagoniste e senza scadere nel perbenismo, consiglia il lifting ma soprattutto l’amicizia. Perché la lotta contro il tempo è spietata e le Galline lo imparano sulla propria pelle.
Cominciamo con una curiosità: dopo 12 anni durante i quali hai diretto la sezione Cultura e Spettacoli del settimanale “Grazia”, intervistando scrittori e personaggi famosi, che sensazione ti dà stare dall’altra parte del microfono?
«Divertente, inusitato, coinvolgente. Ho preso tutta l’avventura di Galline con lo spirito del “dài mettiamoci alla prova su qualcosa mai fatto prima” e anche le interviste, i diversi interventi fra radio e tv rientrano nel quadro. Ogni tanto ho delle sovrapposizioni. Come durante l’intervista a Jonas Jonassons, autore di “Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve”, due giorni prima dell’uscita del mio libro. Facevo le domande, ma dovevo trattenermi per non dare le risposte io! Una specie di sdoppiamento della personalità. O forse, più banalmente, solo la sindrome Marzullo…»
Tv e libri si sono sempre occupati dei 20/30enni e da qualche anno grazie a fortunati serial tv, è esplosa la curiosità per le 40enni, le cougar. Tu invece hai scelto di parlare delle 50enni. Dunque, chi sono le tue Galline?
«Sono certa di essere la capofila di un nuovo genere letterario – di cui qualcuno dovrebbe aiutarmi a trovare il nome – quello che ha come autori e personaggi gli over fifthy. Perché sono proprio loro i protagonisti dei nostri tempi, quelli che hanno fatto in tempo a crearsi una carriera in un ambito di lavoro scelto e non subito; quelli che hanno messo su famiglia senza troppi patemi (e magari l’hanno anche disfatta) e ora hanno figli più che ventenni, la casa al mare e poche preoccupazioni finanziarie. Sono anche quelli che hanno potere d’acquisto e quindi determinano il mercato più dei “trentenni-mille euro”. E vivono un segmento di età di grande cambiamento, il che significa che gli toccherà reinventarsi. Mi sembra che ce ne sia abbastanza per renderli interessanti. O no?»
L’amicizia, il lusso e uno stile di vita molto glamour sono da subito protagonisti del tuo romanzo. Tuttavia non è un mondo tutto sorrisi e lustrini tanto che uno spiacevole incidente nella Chinatown made in Milano rischia di rovinare tutto, persino la loro amicizia…
«Sotto il vestito c’è di più… ci sono crepe – come per tutti, per di più trattandosi di persone adulte, con un bel pezzo di vita alle spalle. Alcune sono crepe superficiali, che si possono rattoppare facilmente, altre sono “strutturali” come direbbe l’ingegnere del quintetto, Maddalena. E allora c’è molto da lavorare e le mie protagoniste debbono rimboccarsi le maniche».
Quanto c’è di autobiografico in ciò che racconti? C’è un personaggio cui ti senti maggiormente affine?
«Nulla di autobiografico o di biografico. Sono personaggi d’invenzione, nati certamente a partire dalla galleria di persone che ho conosciuto negli anni, o magari anche solo sbirciato in treno, ascoltato dal parrucchiere. Su quei materiali lì sono andata d’immaginazione. E infatti nei ringraziamenti confesso di aver rubato a molti: case, vestiti, animali domestici, tic, modi di dire, professioni. Qualche amica ogni tanto mi telefona: “Ma il vestito di Marras è il mio, vero?”. Un’altra mi ha mandato un messaggio che diceva: “Clarence è orgoglioso e ringrazia” laddove Clarence è il suo cane che io ho attribuito ad Andrea… insomma, è motivo di divertimento».
Il rapporto con il tempo che trascorre inesorabile è un altro tema focale accanto a quello dell’amicizia. Silvia qual è il modo migliore per combattere le rughe e gli anni che volano via?
«Essere consapevoli innanzitutto che comunque lo faranno, a prescindere da noi: le rughe arrivano e il tempo parte. Seconda cosa: non contrastare la propria età intignandosi a vestirsi/comportarsi come a 20 anni. Sono comportamenti ridicoli, anzi grotteschi. Detto ciò, fare tutto quello che possiamo: se vi piace il lifting, va bene, come pure la palestra, le diete e quant’altro. Innamorarsi è un ottimo antidoto. Ma anche le amiche, quelle vere: sono uno strumento formidabile di resistenza alla vita».
Galline ad un primo impatto sembra un libro ad esclusivo uso e consumo delle lettrici. Ma una volta letta l’ultima pagina, si ha la sensazione che sia rivolto anche agli uomini, sbaglio?
«Non sbagli affatto e ti ringrazio di aver letto il mio romanzo con tanta attenzione. Fin dall’inizio mi ero proposta di fare degli uomini dei co-protagonisti, defilati magari, ma non figurine bidimensionali. Qualcuno ha detto che gli uomini ne escono male. Io direi che ne escono per come sono nella realtà – fatte le dovute eccezioni come sempre. Gli uomini hanno un decennio secco di vantaggio su di noi per quanto riguarda l’anagrafe biologica e un ventennio di svantaggio per quanto riguarda quella psicologica. Sono degli eterni ragazzi, per questo ci piacciono».
SILVIA BERGERO vive a Milano. Giornalista, ha lavorato presso diversi quotidiani e mensili ed è stata a lungo la responsabile di spettacoli e cultura per il settimanale “Grazia”. Ha inoltre condotto programmi su Radio3. Questo è il suo primo romanzo.
Fonte: www.tempostretto.it del 22 giugno 2011
Mariano Sabatini a Tempostretto.it: «Berlusconi è un’anomalia»
Chi sono gli inviati per le testate estere che scrivono dall’Italia e cosa ne pensano del Bel Paese? Il giornalista, scrittore e critico televisivo, Mariano Sabatini, ne L’Italia s’è mesta (Giulio Perrone editore; pp. 170; €11) ha avuto la brillante idea di creare un fitto dialogo con i numerosi cronisti dei quotidiani esteri e alcuni scrittori che vivono in Italia. Il ritratto che ne viene fuori è disarmante: se da un lato si elogia la nostra Costituzione (“la più bella del mondo” secondo Marcelle Padovani), la corrispondente tedesca Costanze Reuscher non esita ad attaccare frontalmente il premier Silvio Berlusconi e il suo piglio anti-democratico ma in generale si vuol far luce sulla questione femminile, la situazione dei media e l’ingerenza della Chiesa nella politica nostrana. Il garantismo non viene mai messo in discussione da Sabatini – che da anni scrive di costume, cultura e spettacolo per i maggiori quotidiani italiani – ma leggendo le belle pagine de L’Italia s’è mesta è lecito chiedersi cosa accadrebbe a Berlusconi se fosse al potere in qualsiasi altro paese del mondo e perché mai gli italiani sembrano rassegnati a sopportare tutto.
Ma L’Italia s’è mesta non è un elogio funebre e Sabatini non ha alcuna voglia di mollare, di gettare la spugna, convinto che l’Italia possa finalmente ripartire. Un giorno si spera non troppo lontano.
Sabatini, nel suo precedente libro metteva in luce le storie di molti giornalisti anche per dimostrare le difficoltà del nostro mestiere oggigiorno. In questo nuovo e accurato lavoro ha deciso di far parlare i corrispondenti esteri nel Belpaese. Che visione si ottiene da questo interessante cambio di prospettiva?
«Una visione d’insieme, e a giusta distanza, dell’Italia che ci è toccata in sorte e che mettendoci d’impegno abbiamo fatto di tutto per peggiorare. Troppo facile dare la colpa a Berlusconi e al berlusconismo. Ogni volta che siamo chiamati a votare e rinunciamo per andare al ristorante o al mare sottoscriviamo una delega in banco a chi, pur lagnandoci, continuiamo a garantire il potere. Il non voto è un voto regalato. Forse però, e dico forse, il cattivo andazzo vive un’inversione di tendenza. Lo abbiamo visto alle ultime amministrative e speriamo di bissare alla prossima chiamata referendaria, dove saremo chiamati ad esprimerci direttamente su nodi palpitanti. I colleghi esteri interpellati davvero non si spiegano come gli italiani non abbiano ancora capovolto le loro sorti».
Lei ha davvero aperto una porta segreta poiché, eccezion fatta per i lettori de Internazionale, difficilmente sappiamo cosa dicono di noi all’estero. Ebbene, che quadro ne viene fuori? Siamo davvero sull’orlo di un regime mediatico e alla scomparsa dei fatti grazie alle favole del Tg1 e del Tg4 o è una visione apocalittica?
«Non credo proprio, direi piuttosto che risponda adeguatamente all’istanza di sano realismo che sento montare. L’ottimismo della volontà a cui gli il governo attuale ci vorrebbe assuefare non può bastare, i problemi sono tanti, complessi, di multiforme natura ed origine. Scuola allo sbando, crisi economica feroce, costumi da bassissimo impero, invadenza clericale nella vita sociale, politica del tutto ripiegata sulle necessità di un solo “uomo forte”, pezzi di democrazia che come dice la tedesca Constanze Reuscher se ne vanno giorno dopo giorno, insulti alla nostra bella carta costituzionale, la più bella del mondo per Marcelle Padovani… potrei continuare a lungo. E non è per pessimismo che mi sento di dire che una certa mestizia avvolge come una cappa impenetrabile quasi ogni settore del Paese. Realismo, solo realismo».
In una famosa frase, il cantautore Giorgio Gaber denunciava di “temere il Berlusconi che era in sé”. Lei che impressione ha? Davvero gli italiani si specchiano nel Cavaliere, finendo per invidiarlo più di quanto sia lecito aspettarsi?
«Lui poi non si era facilitato la vita, con l’aggravio di una moglie impegnata in politica dalla parte dell’attuale premier. In ogni caso, ho l’impressione che ognuno di noi abbia tracce di berlusconismo nel sangue tali da essere rilevate con una analisi di prassi… altrimenti non saremmo arrivati dove siamo. Per un verso o per l’altro, i furbetti che intendono interpretare le leggi a proprio vantaggio sono ravvisabili in ogni fazione. Da qui la deriva antipolitica che avvertiamo, è come se fossimo caduti in un circolo vizioso che si autoalimenta per causare la propria degenerazione progressiva. Altro discorso è fabbricarsi le norme ad personam a proprio uso e consumo ed è perciò che qualunque premier sarà migliore di Berlusconi. Lui è l’incarnazione dell’anomalia, tutto quello da cui tenersi alla larga per far ripartire l’Italia, stagnante da troppi anni. Purtroppo, con la collega spagnola Irene Hernandez Velasco di El Mundo, mi chiedo cosa accadrebbe se il modello berlusconiano dovesse funzionare in altre democrazie… un simile prodotto d’esportazione, credo, non potremmo perdonarcelo».
Dialogando con i colleghi esteri, qual è il difetto che più spesso riconoscono a noi italiani?
«Non sopportano la nostra attitudine a burocratizzare ogni aspetto della vita, contro i nostri uffici farraginosi è una doglianza generalizzata. Molti di loro non sapevano neppure cosa fosse una carta d’identità. E lo scrittore Tim Parks racconta in modo tragicomico la trafila per farsi allacciare una linea telefonica. Poi non comprendono come mai accettiamo tutto in modo supino, senza troppo protestare».
Nelle loro parole, a suo avviso, prevale l’incredulità per il nostro degrado morale o la sua ferma condanna?
«Direi la condanna. Ho appreso con sgomento da Paloma Gomez Borrero di Radio Cadena COPE, spagnola, che i suoi connazionali non ci somigliano affatto. Gli spagnoli, per rigore e compostezza, sono molto più simili ai tedeschi. Per quanto riguarda il degrado morale, Marcelle Padovani propone, per motivi d’igiene, l’istituzione di prostitute di Stato. Provocazione ma neppure tanto…»
Sabatini, spesso si sente dire che il Ruby-Gate, il conflitto di interessi e i molteplici processi in cui è imputato il premier, avrebbero determinato la sua uscita di scena da quasi tutti i paesi occidentali. A suo avviso è giusto essere garantisti sino alla fine oppure siamo dinnanzi ad un corto-circuito dell’intero sistema?
«Garantisti sempre, ciò non toglie che Berlusconi si sarebbe dovuto dimettere da tempo. Una nazione moderna e di spicco come l’Italia non merita un presidente del Consiglio su cui gravitano tante ombre. I processi servono a fugarle. Meglio sarebbe per tutti se fossero portati a compimento nel più breve tempo possibile, senza dilazioni legittime o no».
In conclusione lei dichiara di voler restare e stila anche un elenco di “italiani a cinque stelle” di cui vuole onorare la memoria. Le chiedo: in cuor suo teme che se ne pentirà oppure ci sono già elementi che possono farla ben sperare?
«Disperarsi non serve mai. Gli italiani di cui andare fieri sono tanti, trapassati e viventi, ma vale la pena rimanere anche per altri motivi. Chi parte lo fa perché si sente spinto ai margini, derubato della speranza di miglioramento… perché, come scriveva Mark Twain a metà Ottocento, rivelando doti di preveggenza: “Come l’America non ha passato, l’Italia sembra non avere futuro”. A ben vedere, dai tempi del gran tour ad oggi, lo sguardo degli stranieri sul nostro Stivale non è mai mancato ed è auspicabile che non manchi mai. Mi pentirò, mi chiede? Ogni giorno, ogni santo minuto… ma, fin quando ci saranno prerequisiti minimi, per quanto mi riguarda varrà la pena rimanere da queste parti. A lottare, ciascuno nel suo microcosmo, perché l’Italia riparta».
Mariano Sabatini è nato e vive a Roma. Giornalista professionista, dagli anni Novanta ha scritto di costume, cultura e spettacoli per i maggiori quotidiani e periodici. Attualmente firma la rubrica di critica tv sul quotidiano Metro e sul portale TiscaliNotizie. Ha condotto rubriche su RadioRai, PlayRadio, Radio Capital. In passato è stato autore di programmi di successo: Tappeto Volante, Campionato di lingua italiana, Uno Mattina, Parola mia ed altri. Ha pubblicato La sostenibile leggerezza del cinema(ESI, 2001), Trucchi d’autore (Nutrimenti, 2005), Altri Trucchi d’autore(Nutrimenti, 2007), Ci metto la firma!(Aliberti, 2009).
Matteo Chiavarone ritorna con la seconda raccolta di poesia, Blanchard Close
La seconda raccolta poetica di Matteo Chiavarone, romano classe ’82, giunge in libreria: Blanchard Close (Giulio Perrone editore; pp. 80; €10). L’occasione era propizia e con Chiavarone, ho voluto affrontare la situazione della poesia nella nostra editoria, cercando di venire a capo della moltitudine di ostacoli e luoghi comuni che gravitano attorno ad essa, oggi più che mai.
Difatti, vista la forte ritrosia degli editori italiani (e a loro volta dei lettori), è lecito persino domandarsi se i nostri poeti noti e celebrati – pensiamo a Montale, Carducci, Penna – oggi incontrerebbero delle difficoltà per emergere.
Matteo, come nasce questa nuova raccolta? C’è un tema dominante?
«Come nasce questa raccolta… Domanda difficile a cui rispondere perché spesso la poesia nasce da sola e poi viene rielaborata secondo quello che si vuole esprimere in un determinato momento (e troppo spesso anche secondo lo stato d’animo). Nel libro ci sono quattro sezioni, ognuna serve a tracciare un’ideale “spazio silenzioso” e, in lontananza, una tematica che il più delle volte diventa soltanto uno sfondo, un qualcosa da cercare con gli occhi. Nella prima sezione (Il pranzo delle ceneri) cerco di rielaborare il mio vissuto, gli ingranaggi che permettono alla nostalgia (del vissuto e del non vissuto) di trovare terreno fertile; nella seconda che è quella che dà il titolo all’opera (Blanchard Close) c’è la mia idea di globalizzazione e di Europa o forse soltanto la mia incapacità nel comprendere alcune fasi (o alcuni momenti storici) della nostra società contemporanea; in Litalia lo sguardo si sposta sul nostro paese e su dinamiche e personaggi e luoghi che, nel bene e nel male, purtroppo più nel male, lo caratterizzano; nell’ultima (Sarcinen) come dice il sottotitolo sono “poesie sparse”, ovvero testi nati in determinati momenti o volutamente conclusi in se stessi».
Ad un poeta non si può non domandare da cosa tragga ispirazione. Nei tuoi versi anche gli oggetti più comuni sembrano trasfigurati…
«Io amo la tradizione poetica europea e soprattutto italiana, amo quel “respiro” personale che poi nel suo intimismo trova l’universalità. Mi rifaccio a Pascoli, a Pater: “vedere e udire altro non deve il poeta”. Chi ha seguito alcune mie presentazioni mi avrà sentito dire molte volte questa frase, la ripeto fino all’ossessione ne sono consapevole. Nel mio primo libro Gli occhi di Saturno (Perrone, 2006) la misi persino nell’epigrafe iniziale. La poesia è uno spazio che contiene le parole; le parole sono luoghi, persone, incontri, dettagli macro o microscopici. Tutto quello che viene dopo è piacere della scrittura».
A tuo avviso, perché c’è tanta diffidenza editoriale verso i poeti e la poesia?
«Bella domanda. Non sono gli editori ad avere diffidenza verso la poesia, ma viceversa. Sono i poeti ad avere diffidenza della poesia. Che la poesia non abbia mercato, intendo un grande mercato, è nella natura delle cose ma se tutti i poeti o presunti tali che ci sono in Italia leggessero almeno un paio di libri di poesie all’anno ci si accorgerebbe subito della crescita vertiginosa di vendite.
Ma il problema ripeto non sono le vendite… Dobbiamo iniziare ad avere diffidenza delle case editrici a pagamento, iniziare a boicottarle, dire no a questo mercato assurdo. Esistono editori seri che investono nella poesia (Perrone, Donzelli, Fazi, Edizioni della Sera e molte altre) e la pubblicano, magari con piccole tirature ma la pubblicano. Supportiamole. Iniziamo a chiedere i loro libri nelle librerie (anche i grandi circuiti) e vedrai che queste torneranno ad acquistarla.
L’altra sera ad una presentazione di uno libro-intervista a Paolo Di Paolo ci siamo soffermati a parlare di una frase di Berardinelli: “io non credo nella poesia. Credo soltanto in quelle poesie che mi fanno credere in loro”. Non ero d’accordo con lui. Ma se non ci crediamo noi nella poesia chi ci deve credere?»
Per quanto riguarda i lettori la battaglia più ardua, a mio avviso, è quella di far comprendere che la poesia deve colpire alle viscere e non è necessario essere degli intenditori per apprezzarla. Perché tanti pregiudizi secondo te?
«Non siamo educati a leggere poesie, vogliamo comprendere tutto quando invece, ed è il bello della poesia, una frase ci può tornare in mente mesi dopo averla letta. Entra dall’orecchio, di nascosto e ci dice: “Ecco”. Non esistono intenditori della poesia esistono persone che sanno aspettarla.
Sì c’ è bisogno di prendere una sbornia, e non una sbornia qualsiasi, per capire alcuni versi di Ginsberg. In uno dei più bei pometti de Le ceneri di Gramsci (La terra di lavoro) Pasolini ci regala un verso bellissimo: Tu ti perdi nel paradiso interiore, e anche la tua pietà gli è nemica.
Durante la prima lettura mi era sfuggito, mi tornò in mente come un macigno durante un viaggio… Provavo quella pietà e, per colpa sua, mi sono sentito colpevole del mio status.
Fidati non ci sono pregiudizi ma pigrizia… È come quando ti dicono “non vedo film impegnati perché il cinema è intrattenimento”. Non lo sopporto! La letteratura non è intrattenimento e non deve esserlo ma, se buona, non è neanche noiosa, anzi. Bisogna saper attendere…»
Infine ti chiedo: si sceglie di essere poeti o si viene scelti?
«Prima di tutto si scrive poi quello che si è poco importa. Poeta, scrittore, blogger, scribacchino…Cos’è un poeta oggi? La Pivano definì Ligabue uno dei maggiori poeti italiani contemporanei. Non sono molto d’accordo sulla figura (anche se ne apprezzo la comunicatività) ma come possiamo non definire poeti i vari Guccini, De André, Vecchioni, Bertoli? Sono cantanti, o meglio cantautori, ma in fondo la poesia non nasce con una lira in mano?
Mi piace rifarmi al poeta greco, al’aedo: un qualcuno che non vede quello che gli altri vedono (e vede quello che gli altri non vedono) ma porta la divinità dentro di sé.
Comunque se devo decidere ti dico che si sceglie di essere poeti. Nella società di oggi piena di “bruttezza” è una scelta di campo provare ad esserlo…»
Matteo Chiavarone (Roma, 1982). Si laurea prima in Lettere con una tesi di Filologia della Letteratura Italiana nella quale pubblica alcune lettere inedite
del poeta Giosuè Carducci appartenenti al Fondo Patetta della Biblioteca Apostolica Vaticana, poi in Italianistica con un lavoro su Curzio Malaparte che prova a ripercorrere la vicenda umana, politica e letteraria del controverso autore pratese.
Dal 2006 al 2008 ha lavorato presso la Giulio Perrone Editore ricoprendo vari ruoli; dal 2008 è caporedattore de IlRecensore.com. Molti dei suoi articoli di argomento letterario e politico sono stati pubblicati su diverse riviste e siti internet: IlRecensore, Flanerí, Ghigliottina, Core, L’Eco del Sud, Periodico Italiano, L’Isola, Portuense News.
Dal 2010 dirige la collana poetica “Lab city lights” per la casa editrice romana Giulio Perrone Editore. Sempre nel 2010 ha fondato, insieme a Dario De Cristofaro, Flanerì (www.flaneri.com). Ha pubblicato: Gli occhi di Saturno (Perrone, 2006) e Blanchard Close (Perrone, 2011).
Fonte: www.tempostretto.it del 1 giugno 2011
«Gaber oggi ci manca ferocemente»: firmato Guido Harari
Esce oggi in libreria Quando parla Gaber – Pensieri e provocazioni per l’Italia d’oggi, pubblicato da Chiarelettere. Il suo curatore, il fotografo e critico musicale,Guido Harari ne parla a Tempostretto.it.
Quando parla Gaber è un volume ricco di spunti e riflessioni sempre attuali che spaziano su diversi temi, dal sesso alla coppia, dall’omologazione culturale all’impegno politico: «Gaber – afferma Harari – rompeva ogni schema, ribaltava ogni certezza, poneva quesiti scomodi, sollevava dubbi feroci. L’accusa di qualunquismo, mossagli soprattutto dalla sinistra, era il segno di quella miopia che tutt’ora affligge la società italiana». Questo secondo volume, concentrato esclusivamente sul peso delle parole del Signor G., giunge dopo il successo riscontrato dal ricco volume fotografico Gaber. L’illogica utopia (pp. 320; €59), realizzato grazie ad una stretta collaborazione con la Fondazione Giorgio Gaber.
Al Salone del Libro di Torino, venerdì 13 (Sala Gialla, h21) verranno presentati entrambi i volumi nell’ambito dell’incontro Gaber. L’illogica utopia. Pensieri e provocazioni per l’Italia di oggi. Interverranno Guido Harari, Paolo Dal Bon, Cesare Vaciago, Giorgio Gallione, Luca Telese, con delle letture di Marzio Rossi.
”Gaber. L’illogica Utopia”. Un titolo significativo: perché lo ha scelto?
«Ho voluto parafrasare il titolo di una bellissima canzone di Gaber e Sandro Luporini, L’illogica allegria. Il concetto di utopia era assolutamente centrale nella loro opera: esso rappresentava lo slancio vitale, la tensione morale, che sono, che devono essere, nel Dna stesso dell’uomo; l’unica vera garanzia di futuro di cui dispone. Quindi logicissima e cruciale utopia, ma purtroppo anche totalmente illogica nella deriva civile e democratica che ci soffoca».
Un altro volume ricchissimo di foto e documenti che giunge dopo quelli su Fabrizio De André, Fernanda Pivano e Mia Martini. Com’è nata l’idea di celebrare Gaber e come si è mosso per reperire tanto materiale inedito?
«Viviamo un vuoto civile che Gaber, insieme a Pasolini e a pochi altri illuminati, aveva anticipato. Questo silenzio morale andava infranto. Di qui la “missione”, per me, di ridare la parola a Gaber. Ho creato così un percorso parallelo rispetto alla sua opera, andando a ricucire una specie di “autobiografia” ricavata da cinquant’anni di interviste, di registrazioni radiofoniche e di incontri col pubblico in teatro, di appunti e altro ancora. Come già nella Goccia di splendore, il libro dedicato a De André, non mi sono sostituito né sovrapposto alla viva voce dell’artista, ma ho inteso “fotografare” la dinamica, inquieta e eternamente in progress del suo pensiero. In questo sono stato aiutato oltre ogni immaginazione dal copioso archivio della Fondazione Giorgio Gaber, e da Dalia Gaberscik e Paolo Dal Bon, che ne sono il motore, a cui vanno la mia gratitudine e il mio affetto per la fiducia dimostrata e per il prezioso lavoro di editing condiviso assieme».
È interessante notare come Gaber oggi, non solo non ha perso importanza, anzi, continua ad essere un mito, un punto di riferimento della società civile. Ma qual è la sua forza, la sua unicità a suo avviso?
«La forza di Gaber, e anche di Sandro Luporini, che per oltre trent’anni è stato quasi un fratello siamese per lui, firmando insieme a lui tutti gli spettacoli del Teatro Canzone e un’infinità di canzoni, è stata la sua preveggenza. Da un artista non ci si aspetta che colga la realtà in movimento, ma che la anticipi. Gaber rompeva ogni schema, ribaltava ogni certezza, poneva quesiti scomodi, sollevava dubbi feroci. L’accusa di qualunquismo, mossagli soprattutto dalla sinistra, era il segno di quella miopia che tutt’ora affligge la società italiana. Col senno di poi, leggendo oggi i suoi testi di venti o trent’anni fa e guardando in faccia la realtà in cui viviamo, non si può non rendersi conto della patetica afasia della politica italiana».
Al Salone di Torino, insieme a Paolo Dal Bon, Giorgio Gallione, Cesare Vaciago, Luca Telese e Marzio Rossi, presenterà, oltre a L’illogica utopia, anche il nuovissimo Quando parla Gaber, un volume radicalmente diverso dal precedente, incentrato più propriamente sull’aspetto civile del pensiero del Signor G. Di cosa si tratta?
«Sì, non ci sono biografismo qui né canzonette. Il sottotitolo del libro è “Pensieri e provocazioni per l’Italia di oggi”. Un libro da usare come bisturi, per incidere la realtà quando, come scriveva Pasolini, “il fiume della storia ristagna”. Gaber si dichiarava “filosofo ignorante”: masticava Adorno e Marcuse, ma aveva il dono di rendere istantaneamente accessibile a chiunque un preciso progetto di coscienza civile e di etica nuova. In questa messe di brevi frammenti di testo in forma quasi aforistica, Gaber ci parla della politica, dello Stato, del Sessantotto e della sua “razza”, della libertà, dell’utopia rivoluzionaria, della cultura, della televisione, della famiglia, della coppia, della fede, della solidarietà, del declino della coscienza, della nevrosi infantile dell’umanità, della sconfitta del pensiero, della dittatura del mercato e degli oggetti, dell’omologazione culturale di pasoliniana memoria, della stupidità dilagante, fino al bilancio amaro della sua “generazione che ha perso”. Ma tocca sempre e solo a noi, ci dice Gaber, allontanare i fantasmi di un futuro senza rimedio, di un futuro senza Italia».
Infine vorrei chiudere con un suo personale ricordo che la lega a Giorgio Gaber…
«Gaber fa parte del mio Dna, fin da quando, ancora piccolo, lo vidi per la prima volta in tv. Erano gli anni Sessanta e nei suoi successi, fatti di ironia e melodie orecchiabili, già si insinuavano la coscienza civile e l’inderogabile “impegno” del futuro Teatro Canzone. Lo conobbi tardi, nei primi anni Ottanta, quando rilanciò lo storico duo con Enzo Jannacci. Poi seguirono diverse lunghe interviste e molte fotografie, in scena e fuori. Colpivano la sua infaticabile capacità di analisi, la sua curiosità per il punto di vista dell’altro, il desiderio di rompere ogni schema, di spostare il prossimo dai vicoli ciechi dell’ovvietà dogmatica. Sulla scena poi era un artista totale, che usava non solo la voce, ma ogni nervo, ogni muscolo, per raggiungere, coinvolgere e scuotere anche l’ultimo spettatore in fondo alla sala. Come lui, ne nasce uno solo al secolo, se va bene. Inutile dire che la sua mancanza si fa sentire sempre più ferocemente».
Guido Harari Nato al Cairo d’Egitto, nei primi anni Settanta avvia la duplice professione di fotografo e di critico musicale, contribuendo a porre le basi di un lavoro specialistico sino ad allora senza precedenti in Italia. Ha firmato copertine di dischi per Claudio Baglioni, Angelo Branduardi, Kate Bush, Vinicio Capossela, Paolo Conte, David Crosby, Pino Daniele, Bob Dylan, Ivano Fossati, BB King, Ute Lemper, Ligabue, Gianna Nannini, Michael Nyman, Luciano Pavarotti, PFM, Lou Reed, Vasco Rossi, Simple Minds e Frank Zappa, fotografato in chiave semiseria per una storica copertina de L’Uomo Vogue.
È stato per vent’anni uno dei fotografi personali di Fabrizio De André. Ha al suo attivo numerose mostre e libri illustrati tra cui Fabrizio De André. E poi, il futuro (Mondadori, 2001), Strange Angels (2003), The Beat Goes On (con Fernanda Pivano, Mondadori, 2004), Vasco! (Edel, 2006), Wall Of Sound (2007) e Fabrizio De André. Una goccia di splendore (Rizzoli, 2007). Da tempo il suo raggio d’azione abbraccia anche l’immagine pubblicitaria e istituzionale, il reportage a sfondo sociale e il ritratto di moda.
Sul web: www.guidoharari.com
http://www.chiarelettere.it/libro/fuori-collana/gaber-lillogica- utopia.php
Fonte: www.tempostretto.it del 5/5/2011
«Riscopriamo la grande attualità di Gramsci». Conversazione con Lorenzo Fazio
La coraggiosa casa editrice Chiarelettere, ha il grande merito di aver sconvolto le dinamiche del mercato editoriale italiano grazie a libri di graffiante attualità e di analisi socio-politica firmati da grandi nomi del giornalismo italiano ed internazionale. Un elenco ricchissimo di cui possiamo citare – in rigoroso ordine alfabetico – Ainis, Beha, Biondo, Castaldo, Gomez, Limiti, Mascali, Sansa, Staglianò, la coppia Rizza-Lo Bianco e Travaglio. Oggi Chiarelettere rilancia con la collana Instant Book ovvero dei libri che vogliono spingere il Lettore prima di tutto a prendere coscienza di se stesso ma anche di ciò che ogni giorno accade attorno a lui. Uno sprone a prendere parte alla vita politica e a lottare contro le quotidiane ingiustizie e il perfetto esempio è proprio la prima uscita: Odio gli indifferenti (pp. 128; €7, prefazione di David Bidussa), firmato da Antonio Gramsci. L’editore Lorenzo Fazio ne parla a Tempostretto.it e ribadisce: «È necessario dar vita ad una discussione comune sul futuro dell’Italia, mettendo da parte l’apatia e facendo appello al proprio coraggio e al proprio senso del dovere». Leggi il resto di questa voce