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«Cristiano, non credente». Emmanuel Carrère indaga sulle origini del cristianesimo ne “Il Regno”.
«Oggi mi definisco cristiano, ma non credente». Il 57enne romanziere francese, Emmanuel Carrère, è stato uno degli assoluti protagonisti della sesta edizione della kermesse letteraria LibriCome, svoltasi lo scorso weekend a Roma, durante la quale ha presentato il suo ultimo libro, “Il Regno” (edito da Adelphi, pp.428 €22 trad. it di Francesco Bergamasco). Maestro della narrazione – capace di passare dal racconto breve (il racconto erotico “Facciamo un gioco”, in Italia edito da Einaudi, diede scalpore in Francia) alla recente scrittura per la tv nella serie di successo “Les Revenants” andata in onda su Sky – la popolarità di Carrère è lievitata grazie al successo ottenuto dalla controversa biografia “Limonov”, successo internazionale. Ne “Il Regno”, Carrère trascina il lettore in un viaggio molto personale, nel racconto della profonda crisi depressiva che attraversò nel 1990 culminata con un triennio di fervente fede cattolica durante la quale cambiò la propria vita. O almeno vi tentò. Ne uscì lentamente, tornando alla scrittura con “Io sono vivo e voi siete morti. Philip K. Dick 1928-1982. Una biografia”, in Italia edita da Feltrinelli; ma ciò che colpisce maggiormente è la sua capacità di mescolare il proprio vissuto con la parola dell’evangelista Luca, conducendo una vera e propria indagine storica su «quella piccola setta ebraica che sarebbe diventata il cristianesimo», muovendosi con grazia fra il 1° secolo d.C. e i nostri anni contemporanei, scuotendo la nostra coscienza e le nostre convinzioni, come solo i grandi scrittori sono capaci di fare. Affascina la schiettezza delle sue risposte, durante questa lunga intervista che ha concesso a La Gazzetta del Sud nell’Auditorium del Parco della Musica, qualche ora prima del suo atteso incontro con il pubblico. Leggi il resto di questa voce
«La cosa davvero tremenda è l’inutilità del dolore». Federico Roncoroni racconta “Un giorno, altrove”.
Federico Roncoroni oggi ha 68 anni e vive a Como dove cura il prestigioso fondo delle opere di Piero Chiara sin dalla morte del grande scrittore italiano, avvenuta nel 1986. Intellettuale raffinato, Roncoroni è un rinomato linguista, autore di numerosissimi volumi di grammatica e antologie di testo italiana, nonché volumi critici e numerosi classici latini tradotti. Nel corso di quarant’anni di attività, Roncoroni ha cambiato molti pseudonimi firmando con il proprio nome solo pochi volumi come il più volte ristampato “Manuale di scrittura non creativa” (Bur, 2010, pp.543). A questi si aggiunge ora il suo primo romanzo, “Un giorno, altrove” (Mondadori, pp.391 €20), un libro molto forte in cui l’autore parla di dolore, morte, malattia e amore senza mezzi termini e partendo da fatti autobiografici. Difatti, alla vigilia di Natale del 1999, Federico Roncoroni ricevette una diagnosi spietata: «mi dissero che ero spacciato: linfoma non Hodgkin». Partì così la lotta per sopravvivere, attraversando la sofferenza della terapia, cercando e riuscendo a guarire per la donna che amava ma una volta guarito, lei era scomparsa. Riapparve anni dopo, già gravemente ammalata e ormai in fin di vita. Roncoroni ha voluto portare su pagina questa parte della sua vita, in balia dell’amore e del dolore per la malattia, con una delicatezza che sconvolge. In pagina il suo alter ego è Filippo Linati, un intellettuale maturo ritiratosi fra i suoi amati libri a Como, dopo esser sopravvissuto ad una malattia mortale. Finché la sua amata, Isa, riappare via mail dopo essere scomparsa per sette anni. Per mesi i due vanno avanti a scriversi mail – il lettore potrà leggere solo quelle di Filippo in un delizioso gioco a rimpiattino – portando in pagina un duello verbale, un gioco fatto di ricordi e rimbrotti fra amanti verso lo spiazzante epilogo finale…
Dopo numerose grammatiche italiane e libri per bambini firmati sotto diversi pseudonimi, con “Un giorno, altrove” ha scritto il suo primo romanzo. Perché adesso?
«Mi sono reso conto d’avere il fiato e l’argomento giusto ma soprattutto mi son sentito finalmente padrone di una tecnica linguistica e narrativa adatta per scrivere il mio primo romanzo».
È vero che è nato tutto con una mail?
«Sì, un bel giorno mi arrivò la mail di una donna con cui ero stato insieme anni prima finché la nostra storia finì. Il libro è il frutto delle esperienze fatte nell’ultimo quindicennio, tutte incentrate sull’improvvisa scoperta di essermi gravemente ammalato. Mi davano per spacciato e mi sarei anche arreso ma le persone che avevo vicino non me lo permisero. Mi curai all’estero e il primario di oncologia mi disse “lei è già morto quindi non ha nulla da perdere seguendo le nostre cure”. Andò bene, contro ogni pronostico». Leggi il resto di questa voce
Amélie Nothomb: «Aveva ragione Barbablù, bisogna difendere i propri segreti».
Da molti anni ormai, con una puntualità che rende felice i suoi numerosi lettori, giunge alle soglie della primavera il nuovo romanzo della scrittrice belga Amélie Nothomb. Con “Barbablù” (come sempre edito dalla Voland di Daniela Di Sora) si tocca quota ventuno ma dato il bisogno quasi fisico di scrivere – un’alchimia che accade ogni giorno dalle 3 alle 7 di mattina – ad oggi la Nothomb ha scritto ben settantasei romanzi e gli inediti sono custoditi con cura nelle sue scatole delle scarpe. In questo nuovo libro viene riletta la celebre fiaba dai toni cupi di Charles Perrault, narrandola dal punto di vista del Mostro per denotare l’attualità della storia ovvero la quasi impossibilità di custodire un segreto nell’epoca moderna. Ma se l’amore è mistero anche per l’autrice, non si può venire meno a degli spazi protetti e la violazione della fiducia riposta nell’amato può comportare gravi conseguenza, proprio come accade per il femminicida Barbablù. Al centro della vicenda troviamo il ricchissimo don Elemiro, il più nobile fra i nobili di Spagna esule in Francia che, rinchiusosi nella sua lussuosa casa, ne affitta una stanza per avere una compagnia femminile. Si presenta una giovane belga, Saturnine che coglie al volo l’occasione ma è decisa ad indagare sulla sorte delle otto precedenti affittuarie, misteriosamente scomparse. In Barbablù ritornano i dialoghi scoppiettanti ed arguti che hanno resa famosa l’autrice ma si tratta di un titolo imperdibile per i suoi fan poiché la Nothomb riporta in pagina anche le sue più grandi passioni, oltre la scrittura ovviamente; vi si celebra l’oro liquido, lo champagne di grandi marche (come in “Causa di forza maggiore”), la passione per i nomi con carattere (già evidenziata in “Dizionario dei nomi propri”) e in ultimo, quella per i colori, del resto a 18 anni la Nothomb – che indossa sempre un caratteristico cappello a cilindro nero – scrisse un’inedita “Metafisica dei colori”. L’autrice ha risposto alle nostre domande dal suo ufficio parigino, a Montparnasse, sede del suo storico editore d’Oltralpe.
Perché ha scelto la fiaba-nera di Charles Perrault?
«Barbablù è sempre stata la mia favola preferita ma trovavo che Perrault non era stato giusto, corretto, con il suo personaggio. Io volevo mostrare che Barbablù aveva ragione».
Come mai il suo moderno Barbablù è spagnolo?
«Perrault per il suo Barbablù si è ispirato a Enrico VIII Tudor, che io detesto. Volevo per questo un Barbablù che fosse il suo opposto. L’opposto di un inglese è certamente uno spagnolo».
Un romanzo che parte da una fiaba ma tratta dell’importanza della privacy nella società odierna…
«Anche per questo il mio romanzo è d’attualità. Bisogna legiferare per proteggere i propri segreti».
I colori sono protagonisti assoluti però per se stessa ha scelto il nero…
«Il nero sta bene con tutti i colori! E così posso comprare solo un detersivo, il detersivo per il nero».
Stupisce sempre che cruenti criminali possano avere schiere di ammiratrici, eppure accade puntualmente. È questo cui si riferisce Don Elemiro fotografando il lato oscuro della femminilità?
«È esattamente così. Come dico anche in quest’ultimo romanzo nella maggior parte delle donne, esiste indubbiamente una forma di masochismo. Ho visto troppe donne soccombere all’attrazione di ripugnanti pervertiti».
Saturnine cerca di giustificare don Elemiro salvo poi arrabbiarsi con se stessa. La perdita del giudizio è uno dei rischi legati all’innamorarsi?
«Oh si! E’ una cosa che abbiamo continuamente sotto gli occhi».
Scrive che “Il concetto di sostituzione è alla base del disastro dell’umanità”. Perché?
«Il concetto di sostituzione contesta l’unicità della persona umana. Questo concetto rende possibile il capitalismo selvaggio».
Questo è il suo settantaseiesimo libro, che rapporto ha con l’ispirazione legata alla scrittura?
«L’ispirazione è come una ferita. Non bisogna lasciare che si cicatrizzi. Per farla continuare a sanguinare bisogna scrivere continuamente. È quello che faccio».
Anche lei è guidata dall’ascesi come profetizza debba farsi don Elemiro per ogni attività creativa?
«Si sono una asceta, tranne che per lo champagne».
Tutti i suoi libri italiani sono editi da Voland, un binomio perfetto. Come si trova il proprio editore ideale?
«Voland ed io siamo un miracolo fattosi realtà. Bisogna credere ai miracoli e cercare il proprio».
Francesco Musolino
Fonte: La Gazzetta del Sud, 6 marzo 2013
Carlo Martigli si confessa: «La mia scelta eretica? Mollare tutto per la scrittura»
Perché Carlo Martigli è divenuto un autore best-seller? Perché non inganna il lettore, non inventa soltanto ma prende spunto da situazioni storiche realmente accadute, da veri misteri, sviluppando trame dense che avvolgono il lettore. Proprio così accade nel suo nuovo libro, L’Eretico (Longanesi; pp. 504 €17.60) dove Pico della Mirandola, Savonarola e un misterioso testo orientale la fanno da protagonisti e tutto riparte da dove si era concluso 999. L’Ultimo Custode, il romanzo che lo consacrò, appena un anno fa, premiando la sua coraggiosa scommessa: mollare la sua tranquilla vita da bancario per dedicarsi completamente alla scrittura.
Il suo nuovo libro, “L’Eretico”, si riallaccia felicemente al precedente libro di grande successo. Com’è nata questa storia?
Esiste un filo rosso che unisce le due storie anche se si può tranquillamente leggere L’Eretico senza sapere nulla di 999 L’Ultimo Custode. Il fatto è che se in quest’ultimo Pico della Mirandola è il protagonista, ne L’Eretico invece, che è ambientato tre anni dopo la sua morte, è presente il suo spirito. Da lui, dalle sue ricerche e dai contatti avuti con l’oriente, storicamente accertati, nasce proprio il viaggio che spinge i protagonisti ad andare a Roma, pronti a levare il velo a un mistero. Non i soliti inventati, mi permetto di dire, ma un mistero reale, rigorosamente storico, mi piace immaginare e inventare situazioni, ma non ingannare il lettore.
Pico della Mirandola e Savonarola: perché ha scelto due figure così carismatiche?
Perché sono entrambi gli uomini chiave del Rinascimento. Mirandola rappresenta l’uomo nuovo,la primavera della libertà di pensiero e della libertà di scelta, dopo l’inverno del medioevo. Il più grande genio dell’epoca, molto superiore a leonardo, che era un tecnico eccezionale, ma di se stesso diceva che era homo sanza lettere, giustamente. Savonarola è il critico più feroce dello stato di degrado in cui si trovava la Chiesa cristiana a cavallo tra il 1400 e il 1500. Fu coerente fino in fondo, scegliendo, come Socrate, la morte, anche se poteva fuggire. Un misto tra un idealista e un talebano, in quanto a fanatismo. Si può dire che è anche grazie a lui se, pochi anni dopo, inizierà il processo della Riforma, contro il mercato delle indulgenze e la corruzione dei papi di allora, con Martino Lutero. Una curiosità: lui stesso racconta racconta che, tornato da un viaggio, quando a Roma parlava di anima, la gente lo scherniva e si metteva a ridere.
L’Eretico: potrebbe spiegare perché, nel tempo, questo termine ha preso un’accezione tanto negativa e sinistra?
L’Eretico deriva da airesis, che in greco significa scelta. Quindi eretico è semplicemente colui che sceglie, e nell’antica Grecia corrispondeva a essere un uomo giusto e ragionevole. In epoca medievale a questa parola venne nel tempo data un’accezione negativa perché chiunque avesse l’ardire di scegliere e non di obbedire supinamente, era considerato pericoloso. Ieri come oggi, l’uomo che sceglie è inviso al potere ottuso, compreso quello politico e religioso. E questo fatto danneggia chi crede e professa una religione, compresa quella cattolica, in libertà di scelta. Danneggia la stessa fede, quasi che questa abbia la necessità di essere imposta dall’alto con forza, come se fosse un peso anziché un dono meraviglioso.
Senza rovinare la gioia della lettura potrebbe svelarci chi è Nicolaj Notovic?
E’ un uomo dalla vita straordinaria sul quale ho preparato un soggetto cinematografico. Spia, letterato, avventuriero, geografo e storico, ritornò da una missione nel Tibet, forse commissionata dalla Ochrana, la polizia segreta dello zar, con una rivelazione sconvolgente. Aveva appreso dai monaci tibetani una storia che da secoli continua ancora oggi a essere tramandata in quei luoghi come la più normale del mondo e la conoscno tutti. Ovvero che un uomo chiamato Gesù, il nostro, detto Issa, dimorò in quei luoghi. Ha mai pensato che nessun vangelo, nemmeno gli apocrifi, parlano dei suoi anni tra i dodici e i trenta? Non è stano che sappiamo tutto di imperatori cinesi, faraoni egiziani e consoli e imperatori romani, uomini del suo tempo e vissuti prima di lui, mentre di Gesù non sappiamo nulla? Perché questo vuoto? Forse per non farlo apparire come personaggio storico ma come un’invenzione? Ma questo va contro la logica e la fede stessa. Le sembra naturale? Notovic fu perfino contattato dal cardinale Luigi Rotelli vicino a Leone XIII e da altri che tentarono in vari modi di convincerlo a non pubblicare il libro poi uscito con il titolo Gli Anni Perduti di Gesù in Francia e in Germania nel 1894. Poi, guarda caso, Notovic scomparve, e così altri che tentarono di far luce sulla vicenda. Spero di non fare la stessa fine, il mio è solo un romanzo che si legge sotto l’ombrellone o si tiene sul comodino la sera, come quelli di Ken Follett o di Ildefonso Falcones, cui sono stato avvicinato da una certa critica. Forse con un po’ più avventura e di ironia, visto il mio spirito toscano. Certo che se un lettore vuole poi approfondire certi temi tra le righe, troverà di che divertirsi ulteriormente.
Infine vorrei chiederle: è felice d’aver mollato la sua “precedente vita”, rischiando tutto per inseguire la scrittura?
Assolutamente sì. Quella scelta, molto “eretica”, dato che siamo in argomento, nacque con tanta paura e un pizzico di coraggio. Per me è stata una sorta di necessità interiore, amo immensamente di un’amore quasi passionale, la scrittura, e non a caso dico sempre alla fine delle mie conferenze che se Leggere Rende Liberi (parafrasando l’orribile e tragicamente ironico Arbeit Macht Frei dei campi di concentramento), scrivere rende felici, almeno me. Il mestiere dello scrittore è faticoso e meraviglioso e il sapere che riesco a emozionare con le mie storie i miei lettori mi rende ancora più felice. Non per nulla tra una presentazione e un’altra sto scrivendo il prossimo romanzo.
Fonte: Settimanale Il Futurista – gennaio 2012 (versione estesa)