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C’è tempo, papà. Un mio racconto su Il Foglio

«La matematica è la scienza del tempo, fa i conti con le nostre attese». Intervista a Chiara Valerio

Chiara Valerio (®Lavinia Azzone)

Chiara Valerio (®Lavinia Azzone)

Perché la matematica ci affascina o ci repelle? Perché uomini di grande valore hanno dedicato la propria vita alla scienza dei numeri, talvolta facendo grandi scoperte, altre volte scomparendo nell’oblio? La scrittrice Chiara Valerio, originaria di Scauri, ha conseguito un dottorato in matematica all’Università Federico II di Napoli finché nel 2007 ha deciso di cambiare vita, consacrandosi al mondo dei libri. Oggi collabora con diversi quotidiani, con il programma televisivo “Pane quotidiano” e con Radio3, cura la collana narravita.it per Nottetempo e ha pubblicato due romanzi per Einaudi: “Almanacco del giorno prima” (2014) e “Storia umana della matematica, da poco in libreria. Narratrice eclettica, in quest’ultimo romanzo spalanca gli archivi della memoria, intessendo una trama fatta di biografie di illustri matematici, mescolata a istantanee di quadri noti e a numerosissime citazioni letterarie. La Valerio sceglie la strada della memoria, raccontando l’infanzia, le rimembranze delle spiegazioni paterne del teorema di Pitagora, la serietà della madre e poi ancora gli anni dell’università sino al dottorato in Matematica, fra gli amori e la vita che passa, fra ironia e malinconia. Ma non solo. Pochi giorni fa proprio Chiara Valerio ha accettato di curare il programma generale per il festival “Tempo di Libri” fortemente voluto dall’AIE e contrapposto al Salone di Torino. E pochi giorni dopo lo scrittore barese e premio Strega Nicola Lagioia – anche lui proveniente dal mondo dell’editoria indipendente –  è stato nominato direttore del Salone torinese.  Leggi il resto di questa voce

Tre generazioni e la ricerca di un destino comune per ricominciare. Evelina Santangelo racconta “Non va sempre così”.

Evelina Santangelo

Evelina Santangelo

C’è un’urgenza che tracima dalle pagine del nuovo romanzo di “Non va sempre così” (Einaudi, pp.220 €19) della scrittrice palermitana, Evelina Santangelo. In questa storia che fotografa senza fronzoli la società contemporanea italiana, la protagonista è specchio dei nostri tempi. Tutto è fin troppo fuggevole nella sua vita, dagli oggetti di casa che le si sfasciano in mano al legame affettivo che si sgretola, dal fin troppo precario incarico di insegnante di sostegno sino ai ferventi valori che si acquietano, mesti. La Santangelo – già apprezzata editor e traduttrice – porta in pagina il confronto agrodolce e ironico fra tre generazioni; al limbo in cui si trova sospesa la protagonista, fanno da contrappeso la fiducia incrollabile nel progresso di suo padre e il ruolo di Matilde, la figlia teenager e i suoi desideri di felicità destinati ad essere disattesi. Finché in questo precariato esistenziale, piomba in pagina un’idea bizzarra, un progetto ecosostenibile che potrebbe ridare senso e speranze agli attori in pagina, creando un nuovo destino condiviso. Del resto, come afferma la Santangelo, «la mia protagonista sta come sospesa su una soglia tra un passato eroico impallidito e un futuro pieno di nebbie che fa sentire però la sua urgenza».
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Andrew Sean Greer confessa: «Sono letteralmente ossessionato dal tempo»

Annientata dalla morte del fratello gemello e dalla fine della sua relazione amorosa, Greta piomba in una profonda depressione e per venirne fuori si affida ai radicali trattamenti elettroconvulsivanti del dottor Cerletti. Siamo nel 1985, l’anno in cui il talentuoso scrittore statunitense Andrew Sean Greer – dopo i grandi favori della critica ottenuti con il suo libro d’esordio, “La storia di un matrimonio” (Adelphi, 2008) – decide di partire per ambientare il suo terzo romanzo, “Le vite impossibili di Greta Wells” (Bompiani, pp. 292€18). Ma al risveglio dopo il primo elettroshock, Greta si troverà catapultata nel lontano 1918 e in seguito nel 1941, generando una catena di eventi temporali che legano fra loro tutti i personaggi, compresa l’adorabile zia Ruth. Difatti, se nel 1918 Greta vive una tempestosa relazione adultera, nel 1941 ha riconquistato il suo amato Nathan e cerca di far coronare il sogno d’amore del proprio gemello, Felix, con il proprio compagno, nonostante le remore della società. Un libro in cui troviamo ogni forma d’amore, da quello egoista a quello generoso tanto che Greta, in fin dei conti, vorrebbe solo scovare una forma di Eden, un luogo a cavallo del tempo in cui tutte le persone che ama possano essere felici. Ma con lo svolgersi della matassa verranno fuori anche i paradossi, permettendo a Greer di far piombare il lettore in un cortocircuito temporale in cui è facile smarrirsi per poi ritrovarsi, cercando di trovare le risposte fondamentali. “Le vite impossibili di Greta Wells” sarà presto un film diretto da Madonna che ha prontamente acquistato i diritti cinematografici non appena il libro è stato pubblicato, con grande successo, negli U.S.A. Leggi il resto di questa voce

La macchina del tempo di Stephen King

Jake Epping è il protagonista di 22/11/’63, il nuovo romanzo di Stephen King, edito da Sperling & Kupfer. Jake è un uomo come tanti, uno di quelli che avrebbe sempre voluto lasciare un segno ma per un bonario professore di Lisbon Falls, nel Maine, le occasioni per cambiare le sorti della storia non sono certo numerose. Sarà Al, il padrone della becera tavola calda che frequenta abitualmente, ad offrirgli una chance irripetibile: tornare indietro sino alle 9:58 del 9 settembre 1958. Jake è tentato ma alla fine si convince a varcare la soglia che conduce nel passato perché, a prescindere da quanto tempo perda, nel suo mondo trascorreranno appena 2 minuti.

Il professore cambierà così la propria identità indossando i panni di George Amberson, tuffandosi nel passato, in un’America assai più ingenua e avvolta ancora nell’aura nei miti di Elvis e James Dean, con il dichiarato obiettivo di disarmare la mano di Lee Harvey Oswald e in tal modo cambiare, per sempre, la storia americana. Difatti, Al, nelle primissime pagine del libro, convince Jake sulla sequenza nefasta e inarrestabile che si avvia con l’uccisione del presidente John Fitzgerald Kennedy a Dallas – il 22 novembre 1963 – e prosegue con l’uccisione del fratello Bobby, Martin Luther King, lo scoppio delle rivolte razziali sino a giungere alla guerra del Vietnam, nel quale proprio Lyndon Johnson, subentrato a JFK, ebbe un ruolo chiave.

“Torna indietro, ferma Oswald e cambia la storia americana”: è impossibile resistere ad un richiamo simile per un americano che si rispetti e Stephen King lo sa bene, tanto da costruire su questa chance tutto il suo nuovo romanzo. Stephen King, il re del brivido per antonomasia, si è molto spesso distinto per l’originalità della trama (ad esempio It, Duma Key, Cell), ma in 22/11/’63 si mette alla prova con un romanzo storico con un’ombra di soprannaturale che ritorna prepotentemente su una delle domande più abusate di sempre ovvero “e se potessimo tornare indietro nel tempo, cambierebbe qualcosa?”.

Un dubbio esistenziale convertito con maestria in un romanzo avvincente che tiene incollato il Lettore sino all’ultima pagina e mette su pagina il Destino come una sorta di personaggio nefasto e crudele, disposto a tutto purché accada ciò che deve necessariamente accadere.

22/11/’63 di Stephen King – Sperling & Kupfer – Pp. 780 – Euro 23,90

Fonte: Settimanale Il Futurista – giovedì 19 gennaio 2012

Franco Marcoaldi: «I nostri cani ci osservano e ci giudicano»

Il legame affettivo che lega l’uomo e il cane ha ispirato diversi scrittori eccellenti da Paul Auster a Franz Kafka, da Edmondo Berselli a Grenier. Una lista che si arricchisce con il nome del poeta, scrittore e giornalista Franco Marcoaldi, autore di Baldo. I cani ci guardano (Einaudi, pp. 136, €13). Marcoaldi, che collabora alle pagine del quotidiano La Repubblica, ha voluto dar voce a Baldo, «un cane che attende il suo padrone» sino all’arrivo dell’Uomo e della Donna che lo porteranno a casa con loro. Nasce così un rapporto sempre più stretto fra Baldo e il Dio-Padrone e il cane con levità ma anche con grande profondità d’animo, osserva gli uomini, le loro ansie e la loro incapacità di essere felici godendo semplicemente del miracolo della vita: «Spesso noi rinunciamo inconsciamente alla spontaneità, all’immediatezza e alla dignità e solo loro sono capaci di dimostrarci quanto siano importanti queste qualità». Un libro adatto agli amanti dei cani, degli animali domestici tutti ma in generale Baldo è un libro di una bellezza malinconica, adatto ad ogni buon Lettore a caccia di una buona lettura.

 

Perché ha voluto dar voce ad un cane?
«Nasce da un’esperienza concreta, da una convivenza ormai decennale con il mio cane, la creatura con cui passo più tempo. Si è creato un rapporto molto intenso, cosa che spesso accade alle persone che convivono con gli animali e per tale motivo ho cominciato ad osservare il mio cane, provando ad immaginarne i pensieri, le emozioni e le sensazioni che possono attraversare la sua testa. Sin quando, verso la fine, il cane prende la parola e si rivolge al Lettore in prima persona».

Ma concretamente come si è mosso per mettere su carta pensieri e sensazioni del cane?
«Alla fine del libro cito una serie di libri di riferimento sull’argomento e ci sono alcuni classici che considero imperdibili come Flush. Biografia di un cane di Virginia Woolf. Molti libri mi hanno accompagnato durante la scrittura ma Baldo nasce dall’esperienza diretta, dalla convivenza quotidiana. L’idea fondamentale è quella di assumere un altro punto di vista perché probabilmente noi esseri umani siamo incastrati nella nostra presunzione di essere le creature elette dell’Universo e spesso finiamo per dare per scontate delle cose che non lo sono affatto».

Decisivo si rivela il cambio di prospettiva.
«L’idea di assumere un punto di vista differente non ha solo un valore sentimentale perché, diluito nel racconto, il punto di vista canino, con uno sguardo elementare, mette alla berlina l’essere umano, la sua presunta razionalità, il suo presunto buon senso e il suo utilitarismo. In tal modo finisce per mostrare come nelle azioni quotidiane sia possibile essere semplicemente felici tuttavia le nostre ansie ci privano di godere dei piaceri e delle gioie che ci accadono intorno. Uno sguardo attento ai nostri animali durante la vita di tutti i giorni può permetterci di ampliare la nostra percezione del mondo stesso poiché spesso noi rinunciamo inconsciamente alla spontaneità, all’immediatezza e alla dignità e solo loro sono capaci di dimostrarci quanto siano importanti queste qualità».

Il rapporto con l’Uomo e la Donna è molto profondo, soprattutto con il Dio-Padrone. Dopo 11 anni, la Donna accusa il compagno di essersi “inselvatichito”. Ma per il cane è qualcosa di cui andar fieri…
«Il luogo comune vuole che chi abbia un rapporto stretto con gli animali finisca per “umanizzarli” troppo. Anche a me disturbano certi bamboleggiamenti inutili di alcune persone che hanno un rapporto stretto con i cani o i gatti ma in questo frangente il rapporto, semmai, è rovesciato. Il Padrone comprende che è necessario che lui si animalizzi, riscoprendo la naturalezza che ha perso nel corso del tempo. Proprio questa è la lezione che Baldo offre al suo padrone».

 

 

Franco Marcoaldi vive e lavora a Roma. Ha pubblicato: A mosca cieca (Einaudi 1992, premio Viareggio), Celibi al limbo (Einaudi 1995), Amore non Amore (Bompiani 1997), Benjaminowo. Padre e figlio (Bompiani, 2004) e Animali in versi (Einaudi, 2006). Da Einaudi ha pubblicato anche Voci rubate (1993), L’isola celeste (2000), Il tempo ormai breve (2008), Viaggio al centro della provincia (2009) e Baldo (2011). Collabora al quotidiano la Repubblica.

 

Fonte: http://www.tempostretto.it del 26/04/2011

 

Il precariato esistenziale di Facebook è protagonista nei “Diciotto secondi prima dell’alba” di Giorgio Scianna

Diciotto secondi prima dell’alba, il romanzo di Giorgio Scianna (Einaudi, pp.210, €17) è un insieme di cose. Un gioco di suspense, un tributo alla musica, una denuncia contro la vanità dei social networke un inno, inconscio, alla precarietà: «Edo e i suoi amici non sono precari perché la società o il reddito insufficiente gli impediscano di fare scelte definitive, di diventare adulti, il precariato è lo stato di esistenza in cui stanno meglio». Edoardo fa parte della Milano “bene”: il padre è socio d’uno studio d’avvocati in pieno centro, accanto a se ha Marta, una fidanzata quasi perfetta e una ristretta ma forte cerchia di amici come guscio di protezione. La musica, ColdplaySigur Ros, è la sua unica forma di evasione dichiarata, ostentata dal colore bianco delle cuffiette dell’iPod: «Per lui la musica è molto più di uno svago: è la colonna sonora della sua vita. Certo riempie i suoi vuoti, ma è anche un mezzo per capire il mondo che lo circonda». In questo equilibrio stabile ma delicatissimo che è il mondo di Edo, fa il suo ingresso Ksenja, una bellissima ragazza del’Est della quale lui riesce a carpire poco o nulla. Un mistero che lo affascina e lo trascina in una zona dove non c’è controllo. Lei diventa la sua ossessione e alla fine, ovviamente, ci sarà un prezzo da pagare.

Una volta terminato il libro – nella quarta parte e ultima parte, il tempo non è più l’elemento dominante, cedendo il posto al corpo e alle sensazioni tattili – è evidente come Giorgio Scianna abbia saputo dominare appieno la suspense dosando con cura le informazioni e facendoci cadere preda degli stereotipi.

Scianna perché ha voluto questo titolo? Cosa accade “diciotto secondi prima dell’alba”?

«Diciotto secondi prima dell’alba è un momento di sospensione: non è più notte e non è ancora giorno. In un momento così accade l’evento drammatico che segna la svolta nella vita di Edo. Ma il tema della sospensione percorre in maniera sotterranea tutto il romanzo. La vita del protagonista è sospesa in quella zona di confine che c’è prima della maturità piena, prima delle scelte professionali e sentimentali definitive. “Diciotto secondi prima dell’alba” è tutto questo, eppure è semplicemente il titolo di una canzone dei Sigur Ros, il gruppo islandese. Una traccia di diciotto secondi di silenzio tra un pezzo e l’altro».

Ksenja è protagonista diretta solo di una piccola parte del libro ma la sua figura aleggia sull’intero libro. Una presenza di questo tipo, fatta di allusioni, ricordi propri e altrui, è difficile da costruire narrativamente?

«La cosa difficile è lavorare sul non detto senza essere evanescenti. Anche la suspense ha bisogno di accadimenti precisi e, allo stesso tempo, di zone d’ombra. Quanto a Ksenja, esce di scena quando di lei sappiamo ancora poco e rimane la voglia di conoscerla di più. Ma per poterla capire è necessario mettere insieme i pezzi della sua vita, ricostruire i suoi incontri, bisogna seguire le sue tracce ovunque queste portino. La suspense non è privilegio che hanno solo le storie poliziesche. E’ una tecnica per catturare l’attenzione e fare in modo che non cada mai. “Diciotto secondi prima dell’alba” è una storia in cui ci sono dentro un evento traumatico, un’indagine e un mistero da svelare. Sono situazioni che finiscono per richiamare l’atmosfera noir».

Edoardo confessa che Marta l’aveva già tradita ma Ksenja è un’altra cosa. In un certo senso proprio la sua diversità la rende quasi un ossessione…

«Ksenja è bellissima, affascinante ed enigmatica. Una violoncellista in abito da sera. Sono queste cose a catturare Edo, ma è solo la sua scomparsa a legarlo così forte a lei. Edo è ossessionato dal capire i segreti che si nascondono dietro quella donna, ma forse c’è in gioco anche un mistero più grande, quotidiano, che riguarda la sua stessa vita».

Nel romanzo affronta  di petto la vanità e l’egocentrismo del mondo di Facebook. Molti scrittori costruiscono il proprio pubblico proprio su questo social network, curando la propria pagina in modo (quasi) ossessivo: uno strumento di comunicazione può tramutarsi in una vetrina per se stessi?

«E’ così. Facebook ha sdoganato l’intimità dei sentimenti e degli stati d’animo. Non solo perché in rete si raccontano i fatti propri, ma perché capita di vivere gli eventi chiedendosi come raccontarli più tardi su Facebook. Prima ancora di domandarsi cosa si prova, ci si interroga su come rappresentare se stessi. E’ un reality continuo con le telecamere puntate. Non è tanto questione di esibizionismo, quello ognuno se lo gestisce come vuole, temo che sia diventata una sorta di condanna: se vuoi comunicare ed essere socialmente vivo, quella è l’unica via».

La musica assume un ruolo importante a livello narrativo sin dalla prima pagina, quasi come fosse un personaggio e le cuffie dell’ipod aiutano Edoardo ad isolarsi dal mondo. La scelta della musica ricalca i suoi gusti o sono affini a quelli del suo personaggio?

«Vado molto d’accordo con Edo e abbiamo gusti simili. Per lui la musica è molto più di uno svago: è la colonna sonora della sua vita. Certo riempie i suoi vuoti, ma è anche un mezzo per capire il mondo che lo circonda. Per Ksenja è quasi il contrario, la musica è quello che le dà da vivere, ma non le procura nessun piacere. L’intimità continua con il violoncello ormai è solo un fastidio, e, per assurdo, di musica non ne ascolta mai. Per Edo è inconcepibile, le canzoni dei Sigur Ros e dei Coldplay sono sempre nella sua testa. La musica per Edo. E’ sempre accesa, sempre “on”. Da sfondo finisce per riempire i suoi pensieri, quando rimane solo è l’unica compagnia che entra nel suo letto. Ma mi piace sottolineare l’ambivalenza musicale di Edo perché Coldplay e Sigur Ros sono due mondi lontanissimi. Edo ha una personalità più complessa di quanto possa sembrare al primo incontro. Cerca conferme e gli piace sperimentare. E’ incuriosito dalla ricerca musicale dei Sigur Ros, e alla fine quei brani che “non esplodono mai” diventano la colonna sonora del libro».

Quando Edoardo si rende conto di non aver organizzato le vacanze estive comincia a ricevere inviti sempre più insistenti. Perché nessuno sembra accettare pacificamente l’altrui voglia di solitudine? E’ ancora possibile essere un’isola?

«La solitudine spaventa perché è un momento che costringe a fare i conti con se stessi. L’idea che un trentenne scelga di passare l’estate a Milano da solo è uno scandalo, una cosa che non si fa se non si è dichiaratamente depressi. Si confonde la solitudine con lo star soli. Nella lingua inglese la differenza è chiara: la loneliness (solitudine) è molto diversa dalla solitude (la situazione in cui si è semplicemente, magari felicemente, soli con se stessi). In italiano i concetti si confondono. Ma la confusione è anche un’altra: si finisce per credere che la comunicazione ossessiva e il social network continuo ci impediscano di sentirci soli. Invece, anche in un mondo dove siamo sempre connessi, possiamo essere isola più che mai».

La quarta di copertina dice: affresco di una generazione che prima o poi sarà costretta a crescere…

«Il precariato non è solo una drammatica realtà sociale, temo che in qualche caso sia un alibi, un segno distintivo di questa generazione. Edo e i suoi amici non sono precari perché la società o il reddito insufficiente gli impediscano di fare scelte definitive, di diventare adulti, il precariato è lo stato di esistenza in cui stanno meglio».

 

Fonte: Satisfiction del 11 novembre 2010

 

Tu chiamale, se vuoi, Emozioni… intervista a Edoardo Boncinelli

«Ci illudiamo di sapere bene cosa sia la coscienza, siamo molto fieri di possederne una ma in fin dei conti siamo anche consapevoli di non sapere affatto come funzioni, come agisca su noi stessi e questo ci attira moltissimo». Il genetista Edoardo Boncinelli firma per Longanesi il suo 27° libro, Mi ritorno in mente – Il corpo, le emozioni, la coscienza (pp.253; €16,60), dove indaga sul rapporto che il nostro “IO” intrattiene con il proprio corpo e con la socialità, affrontando il tema delle emozioni («alla fin fine sono delle semplici pulsioni biologiche che ci spingono a cercare ciò che ci fa star bene») e, ovviamente, della morte: «Da questo punto di vista la penso proprio come Epicuro: “se ci son io non c’è la morte, se c’è la morte non ci son io”». E sul concetto di scienza etica ha le idee chiarissime: «Il compito della scienza è quello di mettere sul tappeto sempre delle novità. Non ci dovrebbe essere alcun limite al sapere scientifico, al limite si potrebbe discutere delle sue applicazioni pratiche».

“L’abisso che c’è fra la certezza che io ho della mia esistenza e il contenuto che tento di dare a questa sicurezza, non sarà mai colmato”. Professore perché ha voluto aprire il libro con questa citazione di Camus?
«In effetti è facile parlare di coscienza, ne parliamo con familiarità ma nel momento in cui cerchiamo di approfondire non sappiamo a cosa andiamo incontro».

Spesso si dice che l’uomo è l’unico animale a poter dire “IO” ma questo in termini pratici cosa significa?
«In realtà è una frase ad effetto perché gli altri animali non dicono proprio nulla ma probabilmente non sono in grado nemmeno di comprendere il riferimento all’Io, al loro posto nel mondo».

Com’è riuscito ad analizzare il rapporto dell’Io con la socialità, con il mondo?
«Se per “Io” intendo il mio corpo, i miei ricordi, le mie predisposizioni ed idiosincrasie, non è difficile poiché io sono un uomo fra i tanti e molto di ciò che sono è il frutto del mio rapporto con gli altri. Se, al contrario, per “Io” intendiamo la mia sensazione soggettiva, assolutamente privata, allora sono solo, solissimo».

Dedica parte del libro al concetto di mortalità, alla necessaria accettazione che molte cose sopravvivranno a noi stessi. Qual è il suo concetto di mortalità?
«La penso come Epicuro: “se ci son io non c’è la morte, se c’è la morte non ci son io”. E’ una soluzione che non consola nessuno perché tutti vorrebbero l’integrità perenne del proprio corpo ma l’Io non muore».

Lei è il perfetto esempio del “divulgatore scientifico”. Questo è il suo 27° libro, come nacque la sua passione per la scrittura?
«Sì, in 13 anni ho scritto 27 libri. Tutto è cominciato perché parlando mi sono reso conto che mi facevo capire ma mi rendevo anche conto che non sarebbe rimasto nulla e così, nel ’96, cominciai a scrivere il mio primo libro».

Come convivono il suo lato da studioso e quello da divulgatore?
«Per trent’anni ho fatto lo scienziato e poi ho ceduto il passo al divulgatore. Ma devono esserci necessariamente entrambi gli aspetti, non si può parlare di qualcosa che non si conosce alla perfezione».

Cos’è la coscienza e perché ci affascina tanto questo concetto?
«Noi ci illudiamo di sapere bene cosa sia, siamo molto fieri di possederla ma siamo anche consapevoli di non sapere affatto come funzioni, come agisca su noi stessi e questo ci attira moltissimo».

Mi incuriosiva molto sapere come mai ciascun soggetto assorbe diversamente le emozioni e reagisce diversamente agli stimoli esterni e ai propri ricordi.
«E’ normale che sia così. Basti pensare che anche a livello culinario ciascuno di noi ha i propri gusti per cui sarebbe impensabile supporre che a livello emotivo siamo tutti uguali. Inoltre bisogna tener conto del fatto che spesso i diverbi sono il frutto di fraintendimenti, di malintesi quasi inestricabili».

Da genetista come vive l’attacco continuo contro la scienza e i suoi limiti etici?
«In realtà il compito della scienza è quello di mettere sul tappeto sempre nuove novità. Credo che non ci dovrebbe essere alcun limite al sapere scientifico, al limite si potrebbe discutere delle sue applicazioni pratiche».

Edoardo Boncinelli è un genetista ed è professore di Biologia e Genetica presso l’Università San Raffaele di Milano. Collabora a Le Scienze e al Corriere della Sera. Ha pubblicato, tra l’altro, L’anima della tecnica (2006), La magia della scienza (2006), Idee per diventare genetista (2006), Il Male (2007),L’etica della vita (2008), Dialogo su Etica e Scienza (con Emanuele Severino, 2008), Come nascono le idee (2008), Che cos’è il tempo? (2008), Lo scimmione intelligente. Dio, natura e libertà (con Giulio Giorello, 2009) e Perché non possiamo non dirci darwinisti (2009).