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Amélie Nothomb si racconta: «Nella mia natura convivono l’estrema bellezza nipponica e il grottesco della realtà belga».
Ogni anno il nuovo libro della scrittrice belga, Amélie Nothomb è un evento letterario se non propriamente mediatico. Il suo cappello a cilindro di velluto nero e la prosa, lieve eppure insieme pungente, surreale e sofisticata, ne segnano il cammino letterario sin dall’esordio con “Igiene dell’assassino” nel 1992, cui sono seguiti ben venti libri, con una invidiabile cadenza annuale. Del resto è ormai noto che la Nothomb scriva ogni giorno dalle 4 alle 8 di mattina in una stanza riservatale dal suo editore parigino e ogni anno, tocca a lei decidere in piena autonomia, quali dei suoi manoscritti verranno riposti in delle scatole di scarpe – pare siano ormai centinaia gli inediti custoditi – e quale di questi, invece, verrà dato alle stampe. Nei suoi libri ci sono sempre elementi autobiografici ma in alcuni si narra esclusivamente il suo vissuto, come accade nel ventunesimo romanzo da poco edito, “La nostalgia felice” (Voland, pp. €). In questo libro, grande protagonista della réentre letteraria francese e nato da un «senso d’urgenza», l’autrice ricuce il legame affettivo con la sua patria, il Giappone, in cui nacque e visse la propria infanzia – il padre era un celebre diplomatico – prima di lasciarlo bruscamente e non senza traumi affettivi. “La nostalgia felice” nasce come naturale conseguenza di un documentario per la televisione francese, “Amélie Nothomb: une vie entre deux eaux”, che ha seguito il ritorno in Giappone della Nothomb nella primavera del 2012, dopo ben sedici lunghi anni di lontananza, culminati con l’incontro con il primo amore d’un tempo, Rinri – di cui si parla in “Né di eva né di Adamo”, 2004 – ma soprattutto nell’abbraccio con la sua tata, Nishio-San, considerata una seconda madre. Un legame talmente forte che la casa editrice Voland – nel loro catalogo l’intero corpus romanzesco della Nothomb – ha scelto una loro tenera foto d’epoca per la copertina del libro. Un libro-documentario, molto personale e capace di trasmettere al lettore occidentale cosa sia la nostalgia felice: un sentimento ignoto all’animo occidentale che colpisce puntualmente chi si innamora del Giappone e della sua tragica bellezza.
“Ricapitoliamo. È il 28 marzo 2012. Sono una scrittrice belga che, dopo un’assenza molto lunga, ritrova il paese dei suoi primi ricordi”. Madame Nothomb, qual è il suo rapporto con la memoria? È pericoloso immergersi nei ricordi e nelle sensazioni dolci e amare del passato?
«Sì, è molto pericoloso. Quando l’emittente francese France 5 mi ha proposto di fare un documentario sul mio ritorno in Giappone ho accettato perché pensavo che nessuno avrebbe investito dei soldi in questo progetto: chi poteva mai essere interessato al mio ritorno in Giappone? Invece 2 mesi dopo Laureline Amanieux e Luca Chiari mi hanno detto che avevano trovato i fondi e che potevamo partire. Così, nella primavera del 2012 sono tornata in Giappone, 16 anni dopo averlo lasciato. Vuole la verità? Sembra che non possa stare lontana dal suolo nipponico, ho bisogno di poggiare i piedi su quel suolo vulcanico per ritrovare le mie energie».
Con che animo è partita per questo viaggio nella memoria?
«Ero molto preoccupata. È sempre molto pericoloso tornare nei luoghi sacri della propria infanzia e fa ancora più paura se si decide di tornare accompagnati da una telecamera che ti segue ovunque. Invece si è rivelato tutto perfetto e quello che sembrava poter diventare un incubo si è rivelato un miracolo».
Sin dalla copertina (italiana) ci si immerge nel suo vissuto. Il passato non torna mai ma ci si può far pace?
«Quando ho ritrovato, Nishio-San la mia tata giapponese, la mia seconda madre da cui ero stata strappata a 5 anni ero molto agitata, ci eravamo parlate per telefono e lei aveva ancora una voce giovanile. Avevo lasciato una donna che aveva circa trentacinque anni e che nei miei ricordi era alta, invece ho ritrovato una signora molto anziana, piccolissima e fragile. E poi ho trovato una donna molto sola, aveva lavorato tutta la sua vita per le figlie e si ritrovava da sola a vivere in un palazzo popolare nella periferia di Kobe. Quando le ho chiesto di Fukushima non ne sapeva niente: è incredibile quali miracoli possa compiere la vecchiaia. Alla fine del nostro incontro la riservatezza ed educazione giapponese è scomparsa, ci siamo abbracciate e ritrovate».
Il fascino che emerge parlando del Giappone è quello di un paese proiettato verso il futuro, all’avanguardia, ma ancorato alle tradizioni. Come compiere un passo avanti con lo sguardo indietro?
«Il Giappone è un paese molto tecnologico ma dove le tradizioni si conservano, sembra che riescano a modificarsi al minimo di un centimetro ogni dieci anni. Spesso la gioventù giapponese fa pensare che ci sia un vero e proprio cambiamento nei costumi, ma è un’illusione, vale solo per i giapponesi dai 13 ai 25 anni. Perché compiuti i 25 anni rientrano nei ranghi, si vestono come si deve e si pettinano normalmente».
Che tratto ha lasciato nel suo carattere il Giappone? Forse la costante ricerca della bellezza e dell’armonia?
«Io sono nata in Giappone ma da genitori belgi. Ho in me l’estrema bellezza del Giappone e il grottesco belga. È uno strano miscuglio».
Che vita sarebbe stata la sua, se fosse rimasta in Giappone, con la tata amorevole e il suo fidanzato…se l’è mai domandato?
«Ad essere sinceri non l’ho fatto. Ma ho capito perché con Rinri, il mio primo amore, una persona meravigliosa, non potevo restare. Con lui c’era una sorta di disagio, non in una accezione negativa, piuttosto è una sorta di attenzione eccessiva per l’altro; è come se si spostasse il proprio centro di gravità verso l’altro. È un sentimento anche bello ma soprattutto scomodo. Probabilmente esistono coppie giapponesi che vivono così una vita intera ma per me non poteva andar bene».
Sappiamo le sue abitudini nello scrivere, gli orari che segue rigidamente e il tè nero con cui si accompagna. Ma scrivere cos’è per lei? Catarsi, ragione di vita, piacere…?
«Per me scrivere è essenziale, è vivere. Devo scrivere quelle 4 ore, dalle 4 alle 8 di mattina, e mi costa anche fatica farlo perché non sono certo masochista, ma se non lo facessi, semplicemente starei male».
Ogni anno i lettori attendono di tutto il mondo attendono il suo nuovo libro. Un giorno pubblicherà tutti gli inediti che conserva nelle scatole delle scarpe?
«No, ho pensato di consegnarli agli archivi del Vaticano. L’unico luogo veramente sicuro al mondo».
Francesco Musolino®
Fonte: La Gazzetta del Sud, aprile 2014
«La mia vita tra i vulcani». A tu per tu con lo scrittore Erri De Luca
MESSINA. ‹‹LʼEtna è un vulcano simpatico, un vero fuoco dʼartificio, niente a che vedere col Vesuvio››. I ricordi di quellʼanno passato a Sigonella a scaricare aerei riportano Erri De Luca sotto il cratere dellʼEtna ma il centro del suo mondo narrativo è da sempre Napoli, da cui si è estratto a diciottʼanni, ‹‹come fosse un dente dalla mandibola››, quella Napoli fatta di vicoli intricati cui sente di appartenere, che porta dentro di se ancora oggi, ricreandola nel suo cuore come sulla pagina e che troviamo anche nel suo ultimo romanzo “Il giorno prima della felicità” (Feltrinelli Editore – pp.144 – € 13). Erri De Luca risponde alle domande con tono posato, ciascuna parola è pesata, evocativa quasi e sentirlo parlare rammenta la dolcezza, la malinconia provata leggendo le sue pagine: ‹‹Scrivo per ritrovare parte del mio passato, ma non provo alcuna nostalgia, non vorrei tornare in nessuna stazione precedente. Napoli è un luogo in cui non posso tornare, quel luogo da cui io provengo non esiste più››. Leggi il resto di questa voce