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«La parola contraria. La mia». Intervista ad Erri De Luca

Erri De Luca

Erri De Luca

«Soutien a Erri De Luca – Le parole non si processano. Le parole si liberano». Il quotidiano francese Libération – lo stesso che ha ospitato la redazione del settimanale satirico Charlie Hebdo dopo la strage del 7 febbraio – ha lanciato una petizione in difesa del poeta, scrittore ed erudito traduttore dall’ebraico, il 64enne Erri De Luca, che rischia sino a cinque anni di carcere per istigazione contro la realizzazione della Tav Torino-Lione. La scintilla fu una fatidica intervista concessa nel settembre del 2013, lo scrittore affermava: «…la Tav va sabotata. Ecco perché le cesoie servivano: sono utili a tagliare le reti. Nessun terrorismo… sono necessari per far comprendere che la Tav è un’opera nociva e inutile… hanno fallito i tavoli del governo, hanno fallito le mediazioni: il sabotaggio è l’unica alternativa…». Proprio per raccontare il senso delle sue azioni e delle battaglie di libertà, Erri De Luca ha incontrato i suoi numerosissimi lettori alla Feltrinelli Point di Messina, incantando con il racconto del proprio passato, a cavallo fra i fantasmi dei bassi napoletani e le pagine dei libri amati. Del resto la fede nell’anarchia, nacque quand’era ancora giovanissimo leggendo “Omaggio alla Catalogna” di George Orwell e tutto ciò viene rievocato anche nel suo pamphlet “La Parola Contraria”, edito da Feltrinelli (pp.64 €4). In sostegno delle sue ragioni si è mobilitata la rete NoTav della Val di Susa e i suoi lettori ma anche il popolo della rete, lanciando hashtag come #IoStoConErri e #JeSuisErrì. Di fatto dopo i fatti di Parigi del 7 febbraio, i giudici del tribunale di Torino dovranno dunque decidere se bisogna difendere il diritto alla libertà di parola, il diritto alla parola contraria di cui parla De Luca o se sia lecito che ciò valga una condanna. De Luca, dal canto suo, ha già dichiarato la sua ferma intenzioni nel caso in cui venga condannato: «Se mi condanneranno non farò ricorso in appello. Se dovrò fare galera per avere espresso un’opinione, allora la farò». Il processo è stato rinviato al 16 marzo e durante l’udienza De Luca verrà interrogato dall’accusa, a porte aperte. Leggi il resto di questa voce

Erri De Luca: “Gli intellettuali devono stare con i sensi aperti per difendere la libertà di parola altrui”.

«Mi dichiaro mediterraneo», con queste parole si presenta Erri De Luca ai lettori. Lo scrittore partenopeo è da poco tornato in libreria con “Storia di Irene” (Feltrinelli, pp. 109 €9) dove raccoglie tre storie inedite suggeritegli dal vento che hanno nel il mare, il suo elemento più amato, il vero protagonista. Inoltre, nella veste di traduttore, Erri De Luca è in libreria anche con “La Famiglia Mushkat” (Feltrinelli, pp.104 €9) in cui traduce l’ultimo ed inedito capitolo del capolavoro del premio Nobel, Isaac B. Singer: un testo molto forte, che getta una nuova luce sull’opera di uno dei più importanti scrittori yiddish.

L’occasione dell’intervista è propizia per parlare anche della sua passione per le scalate e per la lingua yiddish, «imparata per spirito di contraddizione» ma non solo. Recentemente De Luca è stato pesantemente osteggiato per il suo impegno accanto al movimento No Tav, che qui ribadisce ancora e motiva con forza, cogliendo l’occasione per sottolineare il necessario ruolo dell’intellettuale ai giorni nostri, non struzzo indifferente ma vedetta contro i soprusi. E affinché la sua voce possa essere più forte, da qualche tempo, lo scrittore partenopeo  utilizza puntualmente i mezzi dei social network per interagire con la quotidianità ed evidenziarne le brutture, le idiosincrasie del potere pubblico, sensibile soprattutto al tema della cultura e al destino cui vanno incontro i migranti…

In questo nuovo libro il mare è il protagonista delle tre storie narrate. Lei ha detto d’essere grato al mare e al Mediterraneo in particolare. Perché?

«Perché da bambino d’estate sull’isola d’Ischia ho imparato la sua serietà sulla barca di un pescatore, un misto di severità e di generosità. Ho imparato la libertà che è andare scalzi, ispessire la pelle sotto i piedi e cambiare quella di città come un serpente che esegue la muta. E poi perché dal Mediterraneo è arrivata tutta la civiltà alla quale appartengo. Mi dichiaro mediterraneo anziché europeo perché l’Europa deve al mare tutto, pure il nome». Leggi il resto di questa voce

Elena Valdini racconta: «Le parole di De André ci aiutano a capire le nostre cose e anche quelle del mondo»

Fabrizio De Andréle sue passioni, le sue parole e soprattutto la sua vena ispiratrice sono al centro del libro Ai Bordi dell’Infinito(Chiarelettere, pp.256), a cura della giornalista e scrittrice, Elena Valdini per la Fondazione De André OnlusUn libro composto da una ricchissima raccolta di saggi e testimonianze che ruotano attorno alle parole e al pensiero di Fabrizio De André, rilasciate da grandi esponenti della società civile e del mondo culturale, da Marco Revelli ad Erri De Luca, da Padre Alex Zanotelli a Don Gallo. Proprio la Valdini ha chiarito quale sia la prima peculiarità di questo libro ovvero una celebrazione fine a se stessa per quanto pregevole «ma la volontà di sottolineare come come le sue parole, i suoi versi, le sue idee hanno in parte contribuito alla nascita di progetti che vanno oltre le sue parole».

Dopo il ricchissimo volume Tourbook, la Fondazione De André e Chiarelettere tornano a braccetto in libreria con Ai bordi dell’infinito. Come nasce questo progetto? Perché questo titolo?

Il progetto in realtà risale ai tempi della lavorazione del nostro primo libro, Volammo davvero (Rizzoli/BUR, 2007), un’antologia in cui sono state raccolte le “parole dette” e dedicate all’opera di Fabrizio De André dal 2000 al 2005. Pubblicato Volammo davvero, da subito ci siamo ripromessi di lavorare a una seconda antologia che sarebbe arrivata cinque anni dopo, Ai bordi dell’infinito è nato anche così. Dico anche, perché questa nuova raccolta si differenzia molto rispetto alla prima: in questo caso si tratta infatti di saggi e testimonianze che si muovono intorno al pensiero di Fabrizio De André, dalle cui parole sono nati anche progetti concreti come testimoniano i laboratori condotti per esempio con i detenuti e gli studenti. Ai bordi dell’infinito è uno sguardo su quanto si è mosso in questi anni intorno alla giustizia sociale. Parla di questo perché in molti su questo hanno voluto confrontarsi, magari partendo proprio da un verso o da un pensiero di Fabrizio De André.

Perché questo titolo?

Il titolo è tratto dal “Cantico dei drogati” proprio con lo slancio di guardare oltre quel “confine stabilito/ che qualcuno ha tracciato /ai bordi dell’infinito”. 

Da curatrice come ti sei districata fra i numerosissimi contributi raccolti? C’è una testimonianza, un ricordo, che ti ha colpito di più?

È un lavoro che richiede tempo perché si tratta di recuperare registrazioni e interventi che magari non è così ovvio poter trovare anni dopo. È però bellissimo ricostruire percorsi e dialoghi e provare a far sì che possano poi essere conosciuti anche da chi magari non ha avuto occasione di partecipare a questo o quell’altro incontro o dibattito. Così com’è bellissimo vedere il naturale lavoro del tempo. Voglio dire che se i primissimi anni, penso per esempio ai primi anni Duemila, ci si concentrava in particolare a omaggiare l’uomo e l’artista, ora è splendido vedere come le sue parole, i suoi versi, le sue idee hanno in parte contribuito alla nascita di progetti che, pur lavorando sui concetti espressi da De André nella sua opera, vanno oltre le sue parole. 

Quanto è durata la costruzione del libro e, a tuo avviso, il sentimento prevalente nei contributi è il rimpianto per la scomparsa di Fabrizio De André o la celebrazione di ciò che ha fatto?

Credo che ora più del rimpianto e della celebrazione sia più forte la tensione a “impastare” sempre più i suoi versi con ciò che ci sta più a cuore. Nel libro si racconta come da qui sono sbocciati laboratori con i detenuti, con gli studenti, con i disabili. E ancora, anche nei Gruppi AMA, quelli dell’Auto Mutuo Aiuto, come racconta Gabriele Gatania, psicoterapeuta all’ospedale Luigi Sacco di Milano. Credo sia un libro che parla di noi non solo per le testimonianze di chi lavora o si espresso sui temi di De André, ma perché sono parole che provocano il sentire di tutti, perché sono i temi dell’uomo e, purtroppo, molte problematiche sono ancora attuali.

Dopo la tua introduzione, segue la cronaca del tuo incontro con Don Andrea Gallo. Ti hanno sorpreso la forza delle sue parole e il suo personale ricordo di De André?

È stato un incontro denso, in ogni sua sfumatura. Non si tratta tanto di rimanere sorpresi, ma di essere profondamente colpiti dalla sua potenza e dalla sua intensità. Sono molto affezionata a don Andrea Gallo, è forse la persona, tra quelle vicine alla Fondazione, che in questi anni ho più spesso avuto occasione di incontrare e ascoltare. Nel libro ci parla di giustizia sociale, quindi di uguaglianza. Di amore, amore a perdere. Quindi di gratuità, non di premi. La sua analisi di Laudate hominem è molto intensa così come quando ricorda di quando Fabrizio De André richiamò Archimede: «Datemi un punto d’appoggio e vi solleverò il mondo». E ci spiega così bene che il punto d’appoggio è dentro di noi «ecco perché bisogna mettere al centro l’uomo». Così come quando alle voci “speranza” e “indignazione” spiega che a entrambe devono seguire proposte concrete. 

Infine vorrei chiederti: navigando sui social network ti sorprende la grande nostalgia che c’è verso Fabrizio De Andrè? Ti sorprende il fatto che le sue canzoni siano amate e capite anche dalle nuove generazioni?

Da un lato non smette di sorprendere perché è molto potente che ciò avvenga anche da parte di chi non ha avuto occasione di conoscerlo quando era in tour o quando uscivano i suoi dischi. Dall’altro lato mi vien da dire che non dovrebbe sorprenderci se all’opera di De André accade ciò che accade a quella di altri grandi classici: essere lette e rilette perché ci tengono compagnia e perché ci sembra che ci aiutino un po’ a capire le nostre cose, e anche quelle del mondo.

(FRANCESCO MUSOLINO)

«Scrivere è una questione di ritmo». Parola di Erri de Luca

Il duello fra un uomo, il Cacciatore, e una bestia nobile, il Re dei Camosci, è al centro de Il peso della Farfalla (Feltrinelli editore; pp.70; €7.50) dello scrittore napoletano Erri De Luca. Sulla pagina si confrontano due diverse concezioni del tempo ma soprattutto, fra ammirazione e rispetto si sfidano due solitudini. Da un lato quella del Re dei camosci, «l’acrobata della montagna» ormai sfiancato dagli anni, dal peso di un ruolo che non può durare in eterno e dall’altro quella del cacciatore. Anch’egli solitario, scala i versanti, apre i sentieri e rispetta ciò che di nobile la natura serba in sé ma prima di ritirarsi vorrebbe confrontarsi con il Re e la sua astuzia che lo tiene lontano dal branco, un’assenza che incombe sui giovani scalpitanti. De Luca in poche ma densissime pagine, narra la poesia di un confronto che appare inevitabile con una prosa musicale, pregna di un’atmosfera quasi fiabesca. Segue il bel “Visita ad un albero”, dove emerge un De Luca ancor più personale racconta uno scorsio del suo rapporto con la Natura.

 

La narrazione si apre con il Re dei camosci. Come mai ha scelto questo animale?

«E’ la bestia più specializzata ad abitare quelle altezze, la più agile, la meglio organizzata. L’animale più bello che c’è lassù, un acrobata».Quando sono nati questi due racconti?«L’estate scorsa, in montagna quando raccolsi notizie su bracconieri e camosci. Li devo alla mia capacità di ascoltare le storie, le esperienze altrui».

La sua prosa, spesso piena di paesaggi con scorcio marino, ha virato verso il bosco e la montagna, due sue passioni dichiarate.

«Verissimo. Io scrivo storie che hanno a che vedere con i paraggi. Paraggi sia storici che geografici».

Molto importante il tema del tempo: per la natura importa solo il presente, per l’uomo il futuro.

«In questa storia incombe il sentimento di un tempo che sta scadendo, un tempo che è arrivato al termine della sua corsa senza sapere di preciso come si interromperà ma a differenza dell’uomo, l’animale sa».Lei scrive che il branco si pone regole ferree, allo stesso modo fa l’uomo che codifica le sue regole, salvo poi infrangerle spesso e volentieri.«Questa è una delle nostre specialità: Avere formato delle grandi comunità di vita associata ma aver introdotto la variante della disobbedienza, dell’esperimento anche individuale e ciò ha permesso alla nostra specie di attecchire molto più profondamente rispetto alle specie animali».

In giovane età il cacciatore faceva il pescatore, ma poi capì che non poteva essere il suo mestiere

«Il pescatore è tenuto ad una vita più sociale, è tenuto a prestare soccorso e ad organizzare in maniera più corale la sua vita lavorativa. Al contrario il cacciatore ma anche l’uomo di montagna sia esso agricoltore o allevatore, riesce a cavarsela da solo, è più solitario».Cos’è la solitudine?«In fin dei conti è una faccenda di temperamento. Semplicemente ci sono persone, come me, che si trovano meglio in quella condizione».

Narrando la giovinezza del cacciatore, lei accenna ad anni rivoluzionari che sovvertirono valori e regole. «Il protagonista, come me, dovrebbe avere circa sessant’anni, dunque per forza di cose è passato dentro la temperatura politica degli anni Settanta e lui come me ha obbedito alla chiamata di quella generazione rivoluzionaria».

“La montagna nasconde, ha vicoli, soffitte, sotterranei, come la città dei suoi anni più violenti, ma più segreti”. I nascondigli delle armi del cacciatore sono un’analogia con le soffitte e i “bassi” della sua Napoli?

«No perché Napoli è una città che sorveglia molto se stessa e i segreti sono molto ben distribuiti fra le persone. Napoli è una città che non permette l’individualismo sfrenato, al massimo un individualismo controllato, permesso dalla comunità che partecipa. I nascondigli di Napoli li sanno tutti quanti».

Lei scrive che un uomo senza donna è un “uomo-senza”. Perché?

«E’ una sua perdita, una sua rinuncia, una sua mancanza ma finchè non si scontra con una presenza non la si può notare, la si dimentica fatalmente. Nel momento in cui c’è una presenza femminile, quando una donna sfiora la vita di quest’uomo che vi ha rinunciato, solo allora emergono queste rinunce».

Come il cacciatore, anche lei crede in un padrone di tutto, in un Creatore?

«Un Creatore, un Capomastro, un Proprietario generale. Ciascuno dà un titolo a questo sentimento religioso».

Molti scrittori dicono di privilegiare l’istintività delle parole al lavoro di cesello. Per lei come funziona?

«Per me è tutta una questione di ritmo. Prendo il ritmo della voce narrante e non ho niente da cesellare».

 

Erri De Luca. Nato da una famiglia della media borghesia napoletana, vive circondato dai libri della biblioteca paterna. Entra a far parte di Lotta Continua e, nel ‘76, le amicizie lo portano in fabbrica e poi in giro per il mondo, da camionista a scaricatore di porto, da fattorino a muratore per circa vent’anni. Ha detto di essere riuscito a sopravvivere perché ogni mattina si svegliava un’ora prima per tradurre pagine della Bibbia dall’ebraico antico. Autore di numerosi libri di successo – è un autore cult in Francia – il suo esordio quasi a quarant’anni con “Non ora, non quì” ha stupito la critica per la sua prosa al confine con la poesia.

 

Fonte: www.tempostretto.it del 17 novembre 2009

 

«La mia vita tra i vulcani». A tu per tu con lo scrittore Erri De Luca

MESSINA. ‹‹LʼEtna è un vulcano simpatico, un vero fuoco dʼartificio, niente a che vedere col Vesuvio››. I ricordi di quellʼanno passato a Sigonella a scaricare aerei riportano Erri De Luca sotto il cratere dellʼEtna ma il centro del suo mondo narrativo è da sempre Napoli, da cui si è estratto a diciottʼanni, ‹‹come fosse un dente dalla mandibola››, quella Napoli fatta di vicoli intricati cui sente di appartenere, che porta dentro di se ancora oggi, ricreandola nel suo cuore come sulla pagina e che troviamo anche nel suo ultimo romanzo “Il giorno prima della felicità” (Feltrinelli Editore – pp.144 – € 13). Erri De Luca risponde alle domande con tono posato, ciascuna parola è pesata, evocativa quasi e sentirlo parlare rammenta la dolcezza, la malinconia provata leggendo le sue pagine: ‹‹Scrivo per ritrovare parte del mio passato, ma non provo alcuna nostalgia, non vorrei tornare in nessuna stazione precedente. Napoli è un luogo in cui non posso tornare, quel luogo da cui io provengo non esiste più››. Leggi il resto di questa voce