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«Devo amare per riuscire a scrivere». Elisabetta Bucciarelli racconta “La resistenza del maschio”.

Elisabetta Bucciarelli

Elisabetta Bucciarelli

A PordenoneLegge l’ho ascoltata parlare, flirtare con il pubblico e sferzarlo con un contropensiero arguto, teso a smontare i cliché narrativi. Elisabetta Bucciarelli – scrittrice, sceneggiatrice, saggista e autrice tv – torna in libreria con “La resistenza del maschio” nel catalogo di una delle più interessanti case editrici del momento, NNEditore (pp.240 €13) che si sta distinguendo grazie ad un catalogo variegato e la bella consistenza fisica dei libri. La Bucciarelli, padrona dei ritmi del noir (nel 2010 con “Ti voglio credere”, Kowalski vinse il Premio Scerbanenco per il miglior noir italiano) in questo romanzo prende di mira il maschio contemporaneo, indagandone lo stile di vita e il mutare del suo approccio seduttivo. Da anni leggiamo di questi presunti “nuovi maschi” ma la Bucciarelli anziché osservarli passivamente ne ha indossato i panni e in un azzeccato doppio piano narrativo, alterna le vicende de L’Uomo e quelle di tre donne in attesa in uno studio medico. In tal modo svela anche le nevrosi femminile, l’ansia di vivere in un tempo ritmato dai traguardi, frantumato dall’instabilità. L’Uomo professa l’attesa, la sospensione, una distanza emotiva che non anela al climax del possesso totale e come tutti i personaggi azzeccati in letteratura, si finisce per amarlo o per odiarlo. Personalmente, io l’ho adorato pur con tutte le sue contraddizioni.  Leggi il resto di questa voce

Antonio Scurati ammette: «i padri d’oggi? Somigliano a “madri mancate».

Antonio Scurati

Antonio Scurati

Riscoprirsi genitori ai nostri giorni può essere scioccante, rivelatorio, rivoluzionario. E non necessariamente in senso positivo, come dimostrano i numerosi romanzi e saggi che dominano le attuali classifiche editoriali, da “Gli Sdraiati” (Michele Serra, Feltrinelli) passando per “Geologia di un padre” (Valerio Magrelli, Einaudi) e “Le attenuanti sentimentali” (Antonio Pascale, Einaudi). Il nuovo romanzo di Antonio Scurati – napoletano, classe ’69 e vincitore del Premio Campiello nel 2005 con “Il Sopravvissuto” – trae spunto dall’assunto iniziale, ponendo al centro de “Il padre infedele” (Bompiani, pp.208 €17) Glauco Revelli, un laureato in filosofia che piuttosto di insegnare ha scelto di diventare lo chef di un blasonato ristorante milanese. Secondo Scurati i genitori d’oggi sono protagonisti di una rivoluzione socioculturale ma quando Giulia, sua moglie, gli si nega, in lui riesplode il desiderio selvaggio, travolto dai mai sopiti «demoni del sesso», scoprendosi infedele non alla coniuge, bensì alla piccola Anita, la figlia che ha cambiato tutte le carte in tavola.

Perché ha dichiarato che fare un figlio oggi è quasi una scelta epica?

«È un paradosso per raccontare la nostra realtà. Dopo un passato millenario in cui la filiazione era un atto naturale dell’esistenza, oggi fare un figlio in occidente è una decisione che riguarda la minoranza delle persone con un atto deliberato, sempre più raro e ragionato. Facciamo un figlio e ci sentiamo eroi, è grottesco ma è così».

Cosa significa che i padri d’oggi sono “madri mancate”?

«Glauco rappresenta l’emblema dei nuovi padri che vengono inclusi nell’accudimento della creatura sin dai corsi pre-parto. Il suo modo d’essere padre di Anita è improntato da un fondamento affettivo, lui impara ad amare la figlia in modo nuovo e inedito prima d’oggi, sino ad instaurare una relazione quasi materna con la figlia».

Perché il suo Glauco molla la filosofia per la cucina?

«Ho scelto di farne uno chef perché sono convinto che la ricerca di una nuova condizione paterna si inserisca in una più ampia crisi della società. Oggi vige il culto smodato del cibo, della cultura enogastronomica e dei suoi eroi, fino ad usurpare la letteratura e il mondo delle arti».

scuratiPressoché in contemporanea al suo romanzo, sono stati editi numerosi libri sui “nuovi padri”. Ne è sorpreso?

«Si tratta di una questione epocale, centrale nella mia generazione. Ciascun libro ha affrontato il tema da una prospettiva diversa ma è una cesura storica ed è soltanto un bene che se ne sia scritto tanto».

Lei scrive “Se le lasci andare le persone se ne vanno”. Una frase semplice che mette davanti ad una fine inevitabile per le relazioni?

«Sembra una di quelle frasi che rasentano la banalità ma solo oggi è diventato ovvio. Questa frase sottolinea la tragicità a bassa intensità della nostra vita emozionale. Mentre una volta i rapporti con le persone erano sorretti da una possente impalcatura sociale che faceva pressione affinché le coppie e le famiglie rimanessero unite con obblighi e condizionamenti morali conseguenti; oggi tutto questo è venuto meno, siamo lasciati a noi stessi e tutto dipende dalla nostra capacità e volontà di coltivare le relazioni.  E’ un’enorme fatica e anche un pò una vera e propria condanna. Gli individui da soli non uno straccio di possibilità di farcela».

Francesco Musolino®

Fonte: La Gazzetta del Sud, 29 marzo 2014

Arturo Pérez-Reverte: «Il peggior nemico dell’uomo non è la cattiveria, ma la stupidità»

Arturo-Perez-ReverteSin dalla più tenera età, Arturo Pérez-Reverte ha subito la malìa del mare. Ma solo in età più adulta, e dopo aver passato ben ventun anni nei panni di stimato giornalista e reporter di guerra, ha realizzato che il mare è una perfetta metafora del mondo e della vita stessa, crudele e spietato rivelatore della natura più intima d’ogni uomo. Oggi Arturo Pérez-Reverte è lo scrittore spagnolo più letto nel mondo grazie ai suoi best-seller con protagonista il Capitano Diego Alatriste con cui fa rivivere l’epoca dorata e avventurosa della Spagna del XVII° secolo. In attesa della nuova avventura della saga, è tornato in libreria con “Le barche si perdono a terra”, una preziosa raccolta dei suoi scritti su barche, mari e marinai che parte dal 1994 per giungere sino ai giorni nostri, edita da Marco Tropea Editore (pp. 352 Euro 15). La passione per il mare si sposa alla perfezione, nei novantasei testi raccolti (in parte inediti), con la bibliofilia, la denuncia ambientalista – lo fanno molto arrabbiare i cacciatori di balene, i marinai della domenica, le moto ad acqua e i megayacht – e l’eroismo perduto della gente di mare cui fa da contraltare la spiazzante codardia di quella di terra. Con una prosa sempre arguta e velata d’ironia, Pérez-Reverte mira dritto al cuore del lettore. In ciascuna riga, in ogni singola parola, trasuda l’amore, il puro incanto per il mare, al contempo prodigo dispensatore di meraviglie e severo maestro di vita, pronto a punire crudelmente peccati e incertezze degli uomini senza qualità.

Perché ha dichiarato che “il mare, crudele e ingrato, è una perfetta metafora dell’universo”?

«Il mare è una porta. Non nel senso di una barriera, ma di cammino, avventura, viaggio. Leggere mi ha spinto verso di lui in modo inevitabile. Sono nato in una città di mare (è nato a Cartagena nel 1951, ndr). Da piccolo andavo a vedere le navi, i marinai con i loro tatuaggi, le donne che fumavano sulle banchine e si davano del tu con uomini e le barche dai nomi esotici. Sognavo di partire su una di quelle.
E un giorno lo feci. Misi qualche libro in uno zaino e partii. Volevo scoprire se il mondo era quello dei romanzi che avevo letto, con compagni leali, avversari caparbi, donne bellissime, paura e coraggio, vittorie e sconfitte».

Spesso si dice che solo in alto mare un uomo dimostra di che pasta è fatto davvero. Che ne dice?

«Quanto più conosco il mare, quanto più lo temo. Il mare è crudele, proprio come la vita: non possiede sentimenti e non ha pietà.
Per questo probabilmente è fonte inesauribile di letteratura, di vita, di sogni, certezze e dubbi. Ma è lo stesso mare a prenderti per mano, a non permetterti di fermare la navigazione o di abbassare la testa. I marinai sanno bene che più le condizioni atmosferiche peggiorano più devi andare avanti, fino alla fine e questa è una grande lezione di vita. A differenza della terraferma, in mare sei costretto a pagare sempre le conseguenze delle tue azioni, dei tuoi errori e delle tue incertezze. Oggi ho sessant’anni e non mi faccio illusioni sulla condizione umana. Navigare ti offre l’opportunità della distanza e della riflessione, ti permette di guardare la costa con calma, serenità e imparzialità. Così impari che uomini che a terra disprezzeresti in condizioni di avversità possono guadagnarsi il tuo rispetto. Il mare non mente. Ce lo insegna Omero raccontandoci il ritorno di Ulisse e ce lo insegnano i marinai tutti i giorni. Quando il vento soffia a 40 nodi non puoi fingere ciò che noi sei: là fuori sei nudo».
Nel 1994 decise di abbandonare il giornalismo per darsi alla scrittura. Perché?

«Ho fatto il giornalista spinto dalla curiosità nei confronti della condizione umana. Sono poi diventato inviato perché le risposte che trovavo in Spagna erano troppo locali, insufficienti.  La guerra, che ho raccontato per trent’anni, come il mare, conduce all’estremo la condizione umana. Oggi ho cambiato forma di scrittura, ma il mio approccio non è cambiato. Continuo ad osservare tutto ciò che mi circonda e, a volte, decido che vale la pena scrivere quello che ho visto. Sono un uomo che guarda e che può farlo grazie a una biblioteca di libri e all’esperienza personale. E con i resti di migliaia di naufragi, miei e di altri, scrive romanzi».

Ha scritto che non dimenticherà mai il 18 febbraio 1978. Cosa significa per lei questo preciso giorno?

«Il 18 febbraio 1978, da te menzionato, ho visto per la prima volta una balena, un gruppo di balene per la precisione. Non ho neanche avuto la forza di prendere la macchina fotografica, tanto ero colpito da quello spettacolo della natura. Le balene sono l’essenza stessa del mare. Considero chiunque le cacci un mio nemico personale».
Il suo bel libro si chiude con un pezzo che analizza due tragedie del mare, quella del Titanic e della Costa Concordia. Perché le ha volute accostare?
«Il peggior nemico dell’uomo non è la cattiveria, ma la stupidità. Da un malvagio intelligente puoi apprendere e dalle sue angherie diventare più lucido, ma da uno stupido non c’è niente da imparare. Cent’anni fa il Titanic e di recente la Costa Concordia continuano ad essere quello che sono sempre state: uno spettacolo superbo destinato a un finale penoso. Il loro equipaggio era formato da maggiordomi, camerieri e cuochi, più che da esperti marinai. Erano delle residenze galleggianti con un capitano ridotto al ruolo di gestore di uno stabilimento balneare. Non c’è stato eroismo né grandezza nella storia di quelle due navi sfortunate».

Leggendo le sue pagine di denuncia delle brutture moderne, trasuda la voglia d’avventura ma anche di giustizia…
«Sarebbe stupendo se ci fossero ancora avventure verso le quali salpare o sogni in cui perdersi, rivolte di popolo in grado di appassionarti e di spingerti al fianco del tuo vicino o di un uomo dall’altra parte del Mediterraneo.
Oggi che sono morti gli dèi e gli eroi con la maiuscola, la salvezza risiede nell’eroismo con la minuscola. Nel pedone degli scacchi, dimenticato in un angolo della scacchiera, che si guarda intorno e vede un re inetto, una regina corrotta, un cavallo di cartone e una torre da sempre immobile. Però il pedone resta lì, in piedi, nella sua fragile casella. E proprio quella casella si trasforma nella ragione per cui lottare, in una trincea dove resistere e ripararsi dal freddo che arriva. La letteratura è la mia casella. Qui resto fermo e lotto».

Francesco Musolino®

Fonte: La Gazzetta del Sud

 

Franco Marcoaldi: «I nostri cani ci osservano e ci giudicano»

Il legame affettivo che lega l’uomo e il cane ha ispirato diversi scrittori eccellenti da Paul Auster a Franz Kafka, da Edmondo Berselli a Grenier. Una lista che si arricchisce con il nome del poeta, scrittore e giornalista Franco Marcoaldi, autore di Baldo. I cani ci guardano (Einaudi, pp. 136, €13). Marcoaldi, che collabora alle pagine del quotidiano La Repubblica, ha voluto dar voce a Baldo, «un cane che attende il suo padrone» sino all’arrivo dell’Uomo e della Donna che lo porteranno a casa con loro. Nasce così un rapporto sempre più stretto fra Baldo e il Dio-Padrone e il cane con levità ma anche con grande profondità d’animo, osserva gli uomini, le loro ansie e la loro incapacità di essere felici godendo semplicemente del miracolo della vita: «Spesso noi rinunciamo inconsciamente alla spontaneità, all’immediatezza e alla dignità e solo loro sono capaci di dimostrarci quanto siano importanti queste qualità». Un libro adatto agli amanti dei cani, degli animali domestici tutti ma in generale Baldo è un libro di una bellezza malinconica, adatto ad ogni buon Lettore a caccia di una buona lettura.

 

Perché ha voluto dar voce ad un cane?
«Nasce da un’esperienza concreta, da una convivenza ormai decennale con il mio cane, la creatura con cui passo più tempo. Si è creato un rapporto molto intenso, cosa che spesso accade alle persone che convivono con gli animali e per tale motivo ho cominciato ad osservare il mio cane, provando ad immaginarne i pensieri, le emozioni e le sensazioni che possono attraversare la sua testa. Sin quando, verso la fine, il cane prende la parola e si rivolge al Lettore in prima persona».

Ma concretamente come si è mosso per mettere su carta pensieri e sensazioni del cane?
«Alla fine del libro cito una serie di libri di riferimento sull’argomento e ci sono alcuni classici che considero imperdibili come Flush. Biografia di un cane di Virginia Woolf. Molti libri mi hanno accompagnato durante la scrittura ma Baldo nasce dall’esperienza diretta, dalla convivenza quotidiana. L’idea fondamentale è quella di assumere un altro punto di vista perché probabilmente noi esseri umani siamo incastrati nella nostra presunzione di essere le creature elette dell’Universo e spesso finiamo per dare per scontate delle cose che non lo sono affatto».

Decisivo si rivela il cambio di prospettiva.
«L’idea di assumere un punto di vista differente non ha solo un valore sentimentale perché, diluito nel racconto, il punto di vista canino, con uno sguardo elementare, mette alla berlina l’essere umano, la sua presunta razionalità, il suo presunto buon senso e il suo utilitarismo. In tal modo finisce per mostrare come nelle azioni quotidiane sia possibile essere semplicemente felici tuttavia le nostre ansie ci privano di godere dei piaceri e delle gioie che ci accadono intorno. Uno sguardo attento ai nostri animali durante la vita di tutti i giorni può permetterci di ampliare la nostra percezione del mondo stesso poiché spesso noi rinunciamo inconsciamente alla spontaneità, all’immediatezza e alla dignità e solo loro sono capaci di dimostrarci quanto siano importanti queste qualità».

Il rapporto con l’Uomo e la Donna è molto profondo, soprattutto con il Dio-Padrone. Dopo 11 anni, la Donna accusa il compagno di essersi “inselvatichito”. Ma per il cane è qualcosa di cui andar fieri…
«Il luogo comune vuole che chi abbia un rapporto stretto con gli animali finisca per “umanizzarli” troppo. Anche a me disturbano certi bamboleggiamenti inutili di alcune persone che hanno un rapporto stretto con i cani o i gatti ma in questo frangente il rapporto, semmai, è rovesciato. Il Padrone comprende che è necessario che lui si animalizzi, riscoprendo la naturalezza che ha perso nel corso del tempo. Proprio questa è la lezione che Baldo offre al suo padrone».

 

 

Franco Marcoaldi vive e lavora a Roma. Ha pubblicato: A mosca cieca (Einaudi 1992, premio Viareggio), Celibi al limbo (Einaudi 1995), Amore non Amore (Bompiani 1997), Benjaminowo. Padre e figlio (Bompiani, 2004) e Animali in versi (Einaudi, 2006). Da Einaudi ha pubblicato anche Voci rubate (1993), L’isola celeste (2000), Il tempo ormai breve (2008), Viaggio al centro della provincia (2009) e Baldo (2011). Collabora al quotidiano la Repubblica.

 

Fonte: http://www.tempostretto.it del 26/04/2011

 

«Scrivere è una questione di ritmo». Parola di Erri de Luca

Il duello fra un uomo, il Cacciatore, e una bestia nobile, il Re dei Camosci, è al centro de Il peso della Farfalla (Feltrinelli editore; pp.70; €7.50) dello scrittore napoletano Erri De Luca. Sulla pagina si confrontano due diverse concezioni del tempo ma soprattutto, fra ammirazione e rispetto si sfidano due solitudini. Da un lato quella del Re dei camosci, «l’acrobata della montagna» ormai sfiancato dagli anni, dal peso di un ruolo che non può durare in eterno e dall’altro quella del cacciatore. Anch’egli solitario, scala i versanti, apre i sentieri e rispetta ciò che di nobile la natura serba in sé ma prima di ritirarsi vorrebbe confrontarsi con il Re e la sua astuzia che lo tiene lontano dal branco, un’assenza che incombe sui giovani scalpitanti. De Luca in poche ma densissime pagine, narra la poesia di un confronto che appare inevitabile con una prosa musicale, pregna di un’atmosfera quasi fiabesca. Segue il bel “Visita ad un albero”, dove emerge un De Luca ancor più personale racconta uno scorsio del suo rapporto con la Natura.

 

La narrazione si apre con il Re dei camosci. Come mai ha scelto questo animale?

«E’ la bestia più specializzata ad abitare quelle altezze, la più agile, la meglio organizzata. L’animale più bello che c’è lassù, un acrobata».Quando sono nati questi due racconti?«L’estate scorsa, in montagna quando raccolsi notizie su bracconieri e camosci. Li devo alla mia capacità di ascoltare le storie, le esperienze altrui».

La sua prosa, spesso piena di paesaggi con scorcio marino, ha virato verso il bosco e la montagna, due sue passioni dichiarate.

«Verissimo. Io scrivo storie che hanno a che vedere con i paraggi. Paraggi sia storici che geografici».

Molto importante il tema del tempo: per la natura importa solo il presente, per l’uomo il futuro.

«In questa storia incombe il sentimento di un tempo che sta scadendo, un tempo che è arrivato al termine della sua corsa senza sapere di preciso come si interromperà ma a differenza dell’uomo, l’animale sa».Lei scrive che il branco si pone regole ferree, allo stesso modo fa l’uomo che codifica le sue regole, salvo poi infrangerle spesso e volentieri.«Questa è una delle nostre specialità: Avere formato delle grandi comunità di vita associata ma aver introdotto la variante della disobbedienza, dell’esperimento anche individuale e ciò ha permesso alla nostra specie di attecchire molto più profondamente rispetto alle specie animali».

In giovane età il cacciatore faceva il pescatore, ma poi capì che non poteva essere il suo mestiere

«Il pescatore è tenuto ad una vita più sociale, è tenuto a prestare soccorso e ad organizzare in maniera più corale la sua vita lavorativa. Al contrario il cacciatore ma anche l’uomo di montagna sia esso agricoltore o allevatore, riesce a cavarsela da solo, è più solitario».Cos’è la solitudine?«In fin dei conti è una faccenda di temperamento. Semplicemente ci sono persone, come me, che si trovano meglio in quella condizione».

Narrando la giovinezza del cacciatore, lei accenna ad anni rivoluzionari che sovvertirono valori e regole. «Il protagonista, come me, dovrebbe avere circa sessant’anni, dunque per forza di cose è passato dentro la temperatura politica degli anni Settanta e lui come me ha obbedito alla chiamata di quella generazione rivoluzionaria».

“La montagna nasconde, ha vicoli, soffitte, sotterranei, come la città dei suoi anni più violenti, ma più segreti”. I nascondigli delle armi del cacciatore sono un’analogia con le soffitte e i “bassi” della sua Napoli?

«No perché Napoli è una città che sorveglia molto se stessa e i segreti sono molto ben distribuiti fra le persone. Napoli è una città che non permette l’individualismo sfrenato, al massimo un individualismo controllato, permesso dalla comunità che partecipa. I nascondigli di Napoli li sanno tutti quanti».

Lei scrive che un uomo senza donna è un “uomo-senza”. Perché?

«E’ una sua perdita, una sua rinuncia, una sua mancanza ma finchè non si scontra con una presenza non la si può notare, la si dimentica fatalmente. Nel momento in cui c’è una presenza femminile, quando una donna sfiora la vita di quest’uomo che vi ha rinunciato, solo allora emergono queste rinunce».

Come il cacciatore, anche lei crede in un padrone di tutto, in un Creatore?

«Un Creatore, un Capomastro, un Proprietario generale. Ciascuno dà un titolo a questo sentimento religioso».

Molti scrittori dicono di privilegiare l’istintività delle parole al lavoro di cesello. Per lei come funziona?

«Per me è tutta una questione di ritmo. Prendo il ritmo della voce narrante e non ho niente da cesellare».

 

Erri De Luca. Nato da una famiglia della media borghesia napoletana, vive circondato dai libri della biblioteca paterna. Entra a far parte di Lotta Continua e, nel ‘76, le amicizie lo portano in fabbrica e poi in giro per il mondo, da camionista a scaricatore di porto, da fattorino a muratore per circa vent’anni. Ha detto di essere riuscito a sopravvivere perché ogni mattina si svegliava un’ora prima per tradurre pagine della Bibbia dall’ebraico antico. Autore di numerosi libri di successo – è un autore cult in Francia – il suo esordio quasi a quarant’anni con “Non ora, non quì” ha stupito la critica per la sua prosa al confine con la poesia.

 

Fonte: www.tempostretto.it del 17 novembre 2009