Veronica Raimo: l’amore prima di Internet

veronica-raimo-500x599Che sapore aveva l’amore quando WhatsApp era una semplice interazione e il creatore di Facebook non era nemmeno ancora nato?
Veronica Raimo, scrittrice romana classe ’78, è tornata in libreria con “Tutte le feste di domani” (Rizzoli, pp.306, €18) proprio con l’intenzione di riportarci indietro nella Roma degli anni ’70/’80, quando le storie d’amore erano scandite da gettoni e cabine telefoniche piuttosto che da notifiche ed sms a raffica. Una storia che non è partita sin quando non è “arrivata” Alberta, la protagonista creata dalla Raimo, il vero traino della storia. Si tratta di una donna capace di indossare e svestire, ridicolizzandoli, tutti gli stereotipi femminili fin troppo presenti e abusati nella narrativa contemporanea. Sarà lei a scegliere prima Flavio – il marito innamorato che le permetterà di cambiare rango sociale – e poi Carsten, la perfetta via di fuga dalla stabilità. Sono passati sei anni dall’esordio con “Il dolore secondo Matteo” (minimum fax), ma valeva la pena attenderli e paradossalmente, in questi tempi di produzioni seriali funestati da scrittori fin troppo prolifici, fa notizia che una scrittrice si voglia prendere del tempo per creare, reclamando la propria libertà creativa.

L’intervista integrale sul blog Ho un libro in testa

Amélie Nothomb: «Aveva ragione Barbablù, bisogna difendere i propri segreti».

Da molti anni ormai, con una puntualità che rende felice i suoi numerosi lettori, giunge alle soglie della primavera il nuovo romanzo della scrittrice belga Amélie Nothomb. Con “Barbablù” (come sempre edito dalla Voland di Daniela Di Sora) si tocca quota ventuno ma dato il bisogno quasi fisico di scrivere – un’alchimia che accade ogni giorno dalle 3 alle 7 di mattina – ad oggi la Nothomb ha scritto ben settantasei romanzi e gli inediti sono custoditi con cura nelle sue scatole delle scarpe. In questo nuovo libro viene riletta la celebre fiaba dai toni cupi di Charles Perrault, narrandola dal punto di vista del Mostro per denotare l’attualità della storia ovvero la quasi impossibilità di custodire un segreto nell’epoca moderna. Ma se l’amore è mistero anche per l’autrice, non si può venire meno a degli spazi protetti e la violazione della fiducia riposta nell’amato può comportare gravi conseguenza, proprio come accade per il femminicida Barbablù. Al centro della vicenda troviamo il ricchissimo don Elemiro, il più nobile fra i nobili di Spagna esule in Francia che, rinchiusosi nella sua lussuosa casa, ne affitta una stanza per avere una compagnia femminile. Si presenta una giovane belga, Saturnine che coglie al volo l’occasione ma è decisa ad indagare sulla sorte  delle otto precedenti affittuarie, misteriosamente scomparse. In Barbablù ritornano i dialoghi scoppiettanti ed arguti che hanno resa famosa l’autrice ma si tratta di un titolo imperdibile per i suoi fan poiché la Nothomb riporta in pagina anche le sue più grandi passioni, oltre la scrittura ovviamente; vi si celebra l’oro liquido, lo champagne di grandi marche (come in “Causa di forza maggiore”), la passione per i nomi con carattere (già evidenziata in “Dizionario dei nomi propri”) e in ultimo, quella per i colori, del resto a 18 anni la Nothomb – che indossa sempre un caratteristico  cappello a cilindro nero – scrisse un’inedita “Metafisica dei colori”. L’autrice ha risposto alle nostre domande dal suo ufficio parigino, a Montparnasse, sede del suo storico editore d’Oltralpe.

Perché ha scelto la fiaba-nera di Charles Perrault?

«Barbablù è sempre stata la mia favola preferita ma trovavo che Perrault non era stato giusto, corretto, con il suo personaggio. Io volevo mostrare che Barbablù aveva ragione».

Come mai il suo moderno Barbablù è spagnolo?

«Perrault per il suo Barbablù si è ispirato a Enrico VIII Tudor, che io detesto. Volevo per questo un Barbablù che fosse il suo opposto. L’opposto di un inglese è certamente uno spagnolo».

Un romanzo che parte da una fiaba ma tratta dell’importanza della privacy nella società odierna…

«Anche per questo il mio romanzo è d’attualità. Bisogna legiferare per proteggere i propri segreti».

I colori sono protagonisti assoluti però per se stessa ha scelto il nero…

«Il nero sta bene con tutti i colori! E così posso comprare solo un detersivo, il detersivo per il nero».

Stupisce sempre che cruenti criminali possano avere schiere di ammiratrici, eppure accade puntualmente. È questo cui si riferisce Don Elemiro fotografando il lato oscuro della femminilità?

«È esattamente così. Come dico anche in quest’ultimo romanzo nella maggior parte delle donne, esiste indubbiamente una forma di masochismo. Ho visto troppe donne soccombere all’attrazione di ripugnanti pervertiti».

Saturnine cerca di giustificare don Elemiro salvo poi arrabbiarsi con se stessa. La perdita del giudizio è uno dei rischi legati all’innamorarsi?

«Oh si! E’ una cosa che abbiamo continuamente sotto gli occhi».

Scrive che “Il concetto di sostituzione è alla base del disastro dell’umanità”. Perché?

«Il concetto di sostituzione contesta l’unicità della persona umana. Questo concetto rende possibile il capitalismo selvaggio».

Questo è il suo settantaseiesimo libro, che rapporto ha con l’ispirazione legata alla scrittura?

«L’ispirazione è come una ferita. Non bisogna lasciare che si cicatrizzi. Per farla continuare a sanguinare bisogna scrivere continuamente. È quello che faccio».

Anche lei è guidata dall’ascesi come profetizza debba farsi don Elemiro per ogni attività creativa?

«Si sono una asceta, tranne che per lo champagne».

Tutti i suoi libri italiani sono editi da Voland, un binomio perfetto. Come si trova il proprio editore ideale?

«Voland ed io siamo un miracolo fattosi realtà. Bisogna credere ai miracoli e cercare il proprio».

 

Francesco Musolino

Fonte: La Gazzetta del Sud, 6 marzo 2013

Romana Petri: «Scrivere vuol dire liberarsi dei mali, spurgarsi. Lo scrittore, di sporcizia si nutre per forza, e se scrivendo se ne libera».

Cominci a leggere “Ti Spiego” (Cavallo di ferro; pp. 210; € 16.50) e pagina dopo pagina rischi di metterlo giù solo dopo averlo terminato. Romana Petri vi ricostruisce mediante un rapporto epistolare a senso unico ovvero facendoci leggere solo le lettere di Cristiana, i quarant’anni di vita condivisi fra lei e l’ex marito Mario, compresi quindici anni di separazione “civile”. Perché un giorno tutto cambia, Mario va via oltre oceano, si risposa, fa un altro figlio ma all’improvviso decide di riprendersi la “perduta giovinezza” e fatalmente, con essa, vorrebbe riprendersi Cristiana e lei risale dall’oblio dei ricordi. Un racconto che colpisce perché ha dentro il senso del ritmo, «sono figlia del bass-baritono Mario Petri, questo libro è concepito come un crescendo, comincia con dei pianissimo e sfocia nella sarabanda» e così, pagina dopo pagina, si passa dalla sorpresa al livore e la sua scrittura si fa “acuminata come una freccia”, rivivendo i ricordi, le delusioni, le false speranze, i pianti notturni e solitari: «il vero significato di una vita non si capisce mai al momento, bisogna voltarsi indietro per farlo». E la boxe, l’arte di tirar pugni tanto cara a scrittori made in U.S.A. diviene metafora del “tutto”: «la relazione di due ex coniugi che non hanno ancora fatto chiarezza sul passato, cos’altro potrebbe essere se non un vero e proprio ring?». Proprio in questi giorni ritorna in libreria “La donna delle Azzorre” (con cui vinse il Grinzane-Cavour nel 2002) ed esce una sua nuova traduzione del folgorante “Il diario di Adamo ed Eva” (Cavallo di ferro; pp.96; € 12.50) di Mark Twain che gli causò non pochi dispiaceri: «alla fine i due dicono che in fondo l’Eden non era poi gran cosa paragonato al loro amore. Insomma, l’amore tra un uomo e una donna, per Twain, era il vero Paradiso». Scrittrice, editrice, insegnante di lettere e traduttrice parlando della scrittura afferma: «Scrivere vuol dire liberarsi dei mali, spurgarsi. Lo scrittore, di sporcizia si nutre per forza, e se scrivendo se ne libera».

 


Ai tempi dei social network un romanzo epistolare può sembrare un’idea folle, invece il meccanismo narrativo si rivela azzeccato sino all’ultima pagina, colpo di scena incluso. “Ti spiego” è nato con l’idea di far parlare solo lei sin da principio o aveva tentato il dialogo epistolare?

«Non avevo mai pensato a un dialogo a due, quello sì che sarebbe stato un classico romanzo epistolare. Le lettere di un’unica persona, invece, il romanzo epistolare lo camuffano in romanzo e basta. In realtà ogni lettera si legge come un normalissimo capitolo, anzi, come una confessione, una seduta dall’analista in cui una voce sola riassume la sua vita passata, qual è poi stato il suo vero significato. Perché il vero significato di una vita non si capisce mai al momento, bisogna voltarsi indietro per farlo. E’ un po’ come scrivere un libro, prima di darlo alle stampe bisogna lasciarlo decantare un po’. Cristiana ha addirittura avuto fortuna, non è stata lei a voler cominciare questa corrispondenza, è stato l’ex marito che, come in un contrappasso dantesco, è ridotto al silenzio. Un silenzio, però, assai eloquente».

Isabella Bossi Fedrigotti sul Corriere della Sera, afferma che la cura con cui ricostruisce i quarant’anni complessivi che Mario e Cristiana hanno condiviso, passando sulla pagina dalla sorpresa al livore, somiglia ad una vera e propria indagine psicologica.  Ritrova il suo libro in questo paragone? E più in generale, è stato difficile “acuminare la scrittura” di Cristiana di lettera in lettera?

«Isabella Bossi Fedrigotti ha detto ciò che io speravo dicesse un critico, e cioè che questo romanzo (io vengo da una famiglia di musicisti, mio padre era il famoso bass-baritono Mario Petri) fosse in realtà un crescendo. Comincia con dei pianissimo e sfocia nella sarabanda. Acuminare la scrittura non è stato un problema, ogni volta che descrivo un personaggio cerco di annullarmi completamente in lui. Prenda ad esempio Mimmo, un personaggio mostro, La Fedrigotti lo chiama l’assassino (ovviamente in senso metaforico), ma per renderlo credibile mi sono dovuta identificare con lui, diventare lui, così come sono stata Elsa la vittima, Marta, la traditrice, Mario l’inconcluso etc. etc.»

Il pugilato è per Cristiana una metafora significativa del rapporto di Cristiana con Marco. E’ una mia impressione o la boxe, con l’inversione dei ruoli fra i protagonisti, finisce per assume un significato quasi “catartico”?

«Non ci sono dubbi, catartico al massimo. Anche se qui, devo ammetterlo, qualcosa di

autobiografico c’è. Io ho fatto davvero pugilato per qualche anno. E’ uno sport faticoso ma bellissimo. Ovviamente non ho mai fatto incontri, ma anche un sacco può essere un avversario e, come dico nel libro, ci si può vedere il volto che si vuole. E poi, la relazione di due ex coniugi che non hanno ancora fatto chiarezza sul passato, cos’altro potrebbe essere se non un vero e proprio ring?»

Grazie al modo in cui descrive il pugilato – dal rituale della fasciatura delle mani all’attenzione agli odori, dalla luce della palestra a fine giornata al suono armonico ed ipnotico del punch ball – entra a pieno diritto in quella schiera di scrittori affascinati dalla boxe capitanati da Hemingway. Qual è il suo personale rapporto con questo sport e secondo lei in cosa consiste, o consisteva, il suo grande fascino?

«Ne sono stata affascinata da bambina. Mio padre, quando aveva 17 anni scappò da Perugia e venne a Roma per studiare canto lirico, per pagarsi le lezioni faceva degli incontri di pugilato, era un peso massimo e vinceva quasi sempre. Naturalmente, anche quando smise la passione restò e riuscì a trasmettermela completamente. Per riassumerla in un’unica parola direi che lì dentro c’è tutta l’epica, per lo meno quella di cui sono sempre andata a caccia io».

Ha curato una nuova traduzione de “Il diario di Adamo ed Eva” (pp. 96; €12) che sta uscendo proprio in questi giorni. Un libro che nasconde una storia ricca di peripezie e delusioni per il “primo vero scrittore americano” come lo definì Faulkner…

«Twain era uno scrittore geniale perché oltre ad essere bravo era anche senza paure. Venne molto tormentato per l’audacia di ciò che aveva scritto. Un libro che con la Chiesa non ha niente a che vedere. Si immagini che alla fine i due dicono che in fondo l’Eden non era poi gran cosa paragonato al loro amore. Insomma, l’amore tra un uomo e una donna, per Twain, era il vero Paradiso. Tradurre questo libro è stato un lavoro appassionante e spassoso».

Un libro/diario sul primo rapporto fra i due sessi che viene inteso come mondo inesplorato. Oltreché divertentissimo ma anche toccante, è un libro ancora attuale?

«Direi attualissimo, anzi, direi che potrebbe essere scritto adesso e nessuno avrebbe nulla da obiettare. L’uomo e la donna sono due universi che hanno ben poco a che vedere l’uno con l’altro, ma sono talmente complementari da non poter fare a meno l’uno dell’altra. Twain è molto generoso con Eva, le attribuisce tutte le qualità, ad Adamo, invece, lo tratta piuttosto maluccio, fa la figura del tonto, però, quando alla fine Eva cerca di capire perché lo ama, l’unica risposta attendibile che può darsi è che lo ama perché è maschio, insomma, diverso, l’altro, ma proprio per questo l’affascinante da scoprire».

Ritorna in libreria “La donna delle Azzorre” (la quinta edizione portoghese uscirà per l’editore Bertrand). Che rapporto ha con i suoi precedenti libri, li rilegge volentieri o, come accade per alcuni, non li sente più suoi come fossero figli divenuti ormai grandi e pronti per procedere con le proprie forze?

«Un certo distacco è fisiologico, altrimenti non si potrebbe nemmeno andare avanti. Però il legame resta, e anche profondo. Intanto, per ridare alle stampe un libro è necessario rileggerlo per vedere se c’è qualcosa da cambiare, ed ecco che a quel punto il “ritorno nel passato” si fa necessario. Sembrerà paradossale, ma a volte rileggendo un suo vecchio libro, uno scrittore può trovare l’idea per un lavoro nuovo. Ma non è tanto paradossale, quello che abbiamo da dire lo abbiamo dentro, viene fuori un po’ volta, certe cose fanno più fatica, altre meno».

E più in generale, lei che riassume in sé molti ruoli come lettrice innanzitutto ma anche scrittrice, editrice, traduttrice ed insegnante, che rapporto ha con la scrittura? Cosa vuol dire per lei “scrivere”?

«Vuol dire liberarsi dei mali, spurgarsi. Insomma essere delle persone privilegiate, perché l’unico modo per ripulirsi un po’ è fare del proprio mestiere un’arte, nel senso di farlo con una passione che al lavoro ti fa aderire totalmente. Fortunato è chi riesce a farlo anche che so… facendo il barista, o qualsiasi altra cosa, perché se fatta bene è sempre un’arte. C’è però una differenza, chi panifica con arte ha più possibilità di ripulirsi completamente rispetto a chi scrive. Lo scrittore, di sporcizia si nutre per forza, e se scrivendo se ne libera, non c’è dubbio che questo passaggio continuo possa essere un po’ nocivo».

«Esiste una certa necessità di realismo nella vecchiaia, niente più illusioni», scrive ne La Donna delle Azzorre e il tema del tempo è centrale in “Ti Spiego” («Eravamo giovani. E’ triste ma è così. A un certo punto non lo si è più. E succede proprio in un momento, sai?»). Secondo lei nella nostra società, fa più paura la vecchiaia o la morte?

«Personalmente non avrei dubbi: la morte. La vecchiaia è una scocciatura, ma dipende molto da come stiamo dentro, organi e cervello compreso. Meno si è legati al passato della propria giovinezza e meno si invecchia tanto dentro quanto fuori. Ci vuole coraggio per vivere, e per averlo bisogna stare qui, né voltati indietro, né troppo inutilmente proiettati nel futuro.  Bisognerebbe abusare dell’oggi per stare meglio, vivere imitando la spina dorsale di un serpente, unita ma sciolta allo stesso tempo, tra un pezzo e l’altro ci passa di certo un benefico filo interdentale».

 

Fonte: Satisfiction del 3 settembre 2010