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La vita di Charlotte Salomon e l’orrore del nazismo: intervista a David Foenkinos

David Foenkinos

David Foenkinos

Si può essere giovani, si può vivere un amore mentre gli animi bruciano abbagliati dalla follia nazista?

A soli 26 anni la pittrice Charlotte Salomon venne uccisa nel campo di sterminio di Auschwitz il 10 ottobre del 1943. Era incinta di cinque mesi. Tedesca ma d’origini ebraiche, Charlotte non gode della fama che meriterebbe poiché il suo talento venne spezzato negli anni della Germania nazista, trovando la morte per mano di una denuncia anonima sul suolo francese: un gratuito, inspiegabile, atto di crudeltà. La vita di Charlotte venne funestata dalle crisi depressive e dai numerosi suicidi delle donne di famiglia, educandola al dolore sin da piccola. Non ancora ventenne nel pieno vigore del partito nazionalsocialista in patria, Charlotte venne umiliata con l’allontanamento dall’accademia di belle arti di Berlino mentre il padre, esperto virologo, veniva interdetto dalla propria professione e internato nel campo di Sachsenhausen.

Nel 1940 il clima era ormai irrespirabile in Germania e in un rastrellamento Charlotte e il nonno vennero internati nel campo di Gurs riuscendo ad uscirne solo per le precarie condizioni dell’uomo. Riacquistata quella precaria forma di libertà Charlotte capì che il proprio tempo era già agli sgoccioli. Appena 23enne si rifugiò in una stanza in affitto a St. Jean Cap Ferrat dove dipinse l’intero corpus di “Leben? Oder Theater? Ein Singespiel” (Via? O Teatro? Un dramma in musica): si tratta di 769 dipinti con la tecnica del “guazzo” cui accompagna fitte annotazioni e persino un accompagnamento musicale, tributo all’amore impossibile con Alfred Wolfsohn, insegnante di canto della propria matrigna. Si tratta di un vero e proprio copione teatrale – racchiuso in una valigia – per raccontare, senza vittimismo, l’orrore che circonda Charlotte e la sua generazione, ostaggio della follia nazista.

Dopo aver casualmente scoperto i dipinti di Charlotte in una mostra ad Amsterdam, il romanziere francese David Foenkinos ha deciso di seguirne le tracce della memoria imbarcandosi in un viaggio a ritroso da Berlino a Nizza sino al campo di Gurs nei Pirenei, incontrando i testimoni sopravvissuti, giungendo a sfiorare l’abisso dell’ossessione nel tentativo – riuscito – di raccontare un’esistenza tragica, il talento e l’estro di una donna che grazie all’arte è riuscita a divenire immortale senza però, riuscire a vivere una vita semplicemente normale. Con “Charlotte” – già vincitore dei premi Renaudon e del Gouncourt des Lycéens in patria (in libreria dal 27 gennaio per Mondadori, traduzione di Elena Cappellini, pp.204 €16) il 40enne Foenkinos che aveva raggiunto il successo con “La Delicatezza” e “Le Nostre Separazioni” (entrambi editi da E/O), abbandona il taglio satirico-sentimentale, firmando un libro malinconico, con frasi brevi dallo stile netto, essenziale nella scelta di ogni singola parola. Un poema in prosa doloroso come un pugno nello stomaco, il racconto di un’esistenza spezzata che trova il proprio riscatto nell’arte.

L’intervista integrale su “Minima&Moralia

Pierre Lemaitre, premio Goncourt 2013: «il dramma della disoccupazione ci sottrae la nostra dignità»

Il futuro del mondo lavorativo sarà sempre più cinico e il management aziendale, trovandosi dinnanzi ad una forza lavoro proporzionalmente sempre più numerosa e disperata, potrebbe arrivare, un giorno non lontano, ad arrogarsi persino il diritto di vita o di morte, in cambio del miraggio di un impiego remunerato. Questa considerazione amarissima è uno dei concetti chiave del nuovo libro di Pierre Lemaitre, “Lavoro a mano armata”, edito da Fazi editore (pp. 449 euro 16,50 trad. it. Giacomo Cuva) e vincitore in patria del Prix Le Point du polar européen come miglior romanzo noir. Il romanziere transalpino, già apprezzato autore di “Alex” e “L’abito da sposo”, è un grande appassionato di Hitchcock e anche in questo libro riesce a portare in pagina una prosa spiazzante per durezza e una tensione assai reale (speriamo di ritrovarla anche nel film che ne verrà tratto, con Sandrine Bonnaire nel cast). Protagonista del romanzo è Alain Delaimbre, un manager cinquantasettenne, un quadro disoccupato. Disposto a tutto pur di non perdere del tutto la dignità, Alain si arrangia con lavoretti degradanti per guadagnare poche centinaia di euro, dando fondo ai risparmi per mantenere almeno le apparenze. Nonostante l’appoggio della moglie Nicole, la voce narrante di Alain, ci racconta una vera e propria odissea emotiva. Aver perso il proprio lavoro non lo priva soltanto della sicurezza ma del ruolo di capofamiglia, persino della propria virilità agli occhi della società, delle figlie stesse. E poi all’improvviso “si libera” una posizione di alto profilo che sembra ritagliata sulle sue qualifiche professionali e nonostante sia di gran lunga il più anziano dei candidati, viene ammesso alla selezione; ma tutto ciò nasconde un gioco di ruolo assai crudele ovvero la creazione di un finto commando per la messa in scena di finto rapimento, al fine di testare la fedeltà dei dirigenti dell’azienda. Ma quando il tranello esce allo scoperto Alain si troverà solo, senza alcun freno inibitore a far da rete di protezione…

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Rostain trasforma il dolore in un sorriso malinconico ne “Il Figlio”

Si può sopravvivere al dolore della perdita di un figlio? Molti scrittori si sono confrontati con tale dilemma, da Victor Hugo sino a Philippe Djian. Ultimo in ordine cronologico giunge in Italia, Il Figlio (Elliot edizioni) di Michel Rostain, vincitore del Premio Goncourt opera prima 2011 e già best seller in Francia, con merito. L’autore, regista teatrale ed operistico, confessa nella nota finale di essere partito proprio da una dolorosa esperienza autobiografia e di averla elaborata sotto forma di romanzo, a metà fra realtà e finzione, decidendo di affidare la voce narrante a Lion, il figlio scomparso a soli 21 anni per una Purpura fulminans ovvero una meningite folgorante. Sarà la sua voce, il suo sguardo benevolo con cui segue il dolore dei propri genitori, a guidarci lungo l’intero romanzo con un tono mai retorico anche dinnanzi alla disperazione e allo strazio per i ricordi che continuamente affiorano, trascinandosi dietro le lacrime. Rostain si allontana dalla vivisezione del dolore scelta da Philippe Forest nei suoi toccanti libri dedicati alla figlia Pauline, scegliendo invece un tono confidenziale ma discreto, che affronta il dolore e i ricordi di petto, riuscendo persino a concedersi il lusso di uno humour lieve e mai fuori posto. “Il Figlio” si apre con Lion che osserva – dal paradiso o da chissà dove – il proprio padre che, undici giorni dopo la morte del figlio, ha deciso di portare le sue lenzuola in lavanderia e percorre tutta la strada a piedi, con il viso immerso per catturare l’odore. Un’immagine dolce che Rostain ci consegna, salvo poi lenirla osservando con un tono scanzonato, “in realtà puzzano”. Da lì in poi l’autore segue il vagare disperato dei genitori, fra le miriadi di foto, i quaderni di appunti e persino gli sms sul cellulare, alla ricerca di un’impossibile risposta che giustifichi la loro perdita. Ma Rostain vuole semplicemente dirci che si può convivere anche con un dolore così grande poiché la morte fa parte della vita e questa lucida considerazione trapela dal suggestivo viaggio che i genitori di Lion intraprendono in Islanda per esaudire il suo ultimo e sconosciuto desiderio.

Fonte: Il Futurista 

La Carta e il Territorio. Un romanzo ditirambico

Se non avesse ancora scritto Piattaforma, l’ultimo romanzo dello scrittore francese Michel Houellebecq, La Carta e il Territorio (Bompiani, traduz. it. di Fabrizio Ascari, pp. 364; €20) sarebbe la sua miglior prova. Perché? Appena lo si comincia a leggere si ha l’impressione che si debba necessariamente rallentare l’impeto volontario della lettura, centellinando le pagine quasi come si stesse sorseggiando un pregiato vino. Se esisteva ancora al giorno d’oggi la possibilità di scrivere un romanzo totale, Houellebecq l’ha colta e fatta sua e il tanto atteso trionfo al premio Goncourt – posta l’ostilità assai nota dei critici nei suoi confronti – lo avvalora ancor di più.

Come accadeva nel già citato Piattaforma o ne La possibilità di un’isola, Houellebecq non ha timore di osare. Chi ha letto Nemici Pubblici ovvero una serie di dialoghi con il controverso filosofo Bernard-Henri Lévy, sa bene che non si tratta affatto di divismo o uno snobismo asservito al mercato editoriale; al contrario l’autore da sempre sembra curarsi assai poco degli intermediari avendo sempre preferito parlare direttamente ai lettori. Ma non essendo un mero dispensatore di banalità, non è amato da tutti. Anzi spesso viene considerato soltanto un provocatore. Ne La Carta e il Territorio lo scrittore transalpino porta sulla pagina una serie di personaggi assai noti, fra cui scrittori e giornalisti. Una lunga serie su cui spiccano la sua editrice Teresa Cremisi e lo scrittore Frédéric Beigbeder ma soprattutto se stesso, Michel Houellebecq. Il libro si apre con le paturnie del talentuoso artista Jed Martin che sta per allestire la sua seconda personale ma perché il pubblico comprenda la sua decisione di passare dalla fotografia – la sua prima passione che ne ha decretato il successo immediato – alla pittura, serve un testo critico di grande impatto mediatico. Chi meglio di Michel Houellebecq? Nonostante la sua nota fama di misantropo – l’autore non si descrive mai con l’aureola del santo, forse talvolta dell’incompreso – il suo gallerista lo convince che sia necessario insistere. E ha ragione.L’autore con un agile passo indietro ci racconta che Jed era un adolescente anomalo, «mentre i suoi coetanei ne sapevano di solito un po’ di più sulla vita di Spiderman che su quella di Gesù», lui aveva letto con ordine e disciplina tutti i classici. Prima di arrivare alla pittura, un lungo flashback ci racconta che il suo rapporto con l’arte sbocciò grazie alla fotografia ma Martin sarà destinato a passare da una passione all’altra sacrificando tutto in nome dell’ispirazione perché – e qui ritroviamo lo stesso credo dello scrittore – è necessario tenere sempre i sensi all’erta: «la vita serve le carte ma poi è lesta a riprendersele» se le occasioni non le si sfrutta a tempo debito.Grazie alla fotografia Jed Martin sbanca e conosce anche la russa Olga. Fra i due, lui piccolo e gracile, lei vertiginosamente bella, scoppia una passione ardente. Lei per la prima volta le apre le porte del mondo dell’arte e lui, ancora spaesato fra cocktail e vernissage, si sentirà spesso come uno di quei giovinetti amanti di donne importanti. Quasi come uno dei giovani amanti creati dalla penna di Colette. Ma i loro destino è segnato perché lui resterà sempre «un piccolo francese indeciso». L’entrata in scena di Houellebecq condurrà, come anticipato, Martin alla ricchezza e al successo definitivo e persino il tormentato scrittore – che sembrava destinato a vivere per sempre in una casa piena di scatoloni, isolato da tutto e in una Francia del futuro ritornata felicemente all’agricoltura dopo il definitivo crollo del sistema capitalistico mondiale – troverà la serenità ritornando nella sua casa dell’infanzia, in un minuscolo borgo. Ma ecco che Houellebecq vira bruscamente mettendo in scena il suo stesso, brutale, omicidio.La seconda parte del romanzo, che sarà incentrata sulle indagini relative all’assassinio dello scrittore e del suo cane, vedrà come protagonista Jasselin, un poliziotto esperto e ad un passo dalla pensione. Un uomo ormai capace di accettare la brutalità del mondo ma, come sottolinea in un bel dialogo con la moglie, esausto nello scovare dietro ogni delitto un movente assolutamente razionale, spesso meramente economico.

La Carta e il Territorio colpisce perché è un romanzo scritto con grande padronanza del flusso narrativo. Houellebecq controlla sul velluto i rimandi al passato e il difficoltoso rapporto fra Jed e suo padre, avendo modo anche di attaccare tanto il sistema economico attuale che il politically correct oggi imperante. La svolta thriller che gli permette di portare sulla pagina la propria morte è un tocco di classe e sfrontatezza che sottolinea la maturità raggiunta da Houellebecq tanto da avergli permesso di conquistare, finalmente, il premio Goncourt.

Fonte: www.tempostretto.it del 25 novembre 2010