Archivi Blog

“La Triomphante è il mio autoritratto spirituale”. Teresa Cremisi si racconta.

Teresa Cremisi

Teresa Cremisi

La Triomphante” (pubblicato da Adelphi pp. 185 euro 16, traduzione di Lorenza Di Lella e Francesca Scala), è il romanzo d’esordio di Teresa Cremisi, la “première dame” dell’editoria francese che si racconta in un romanzo delicato, non una vera autobiografia, piuttosto un “autoritratto spirituale, un omaggio ai miei genitori”, dichiara la Cremisi. Nata ad Alessandria d’Egitto, a dieci anni si è trasferita in Italia, trascorrendo ventidue anni alla Garzanti finché nel 1989, giunse in Francia per dirigere la prestigiosa casa editrice Gallimard, divenendo in breve una figura di prestigio internazionale, nume tutelare di grandi autori, come Yasmina Reza e Michel Houellebecq. Finché nel 2005 lasciò Gallimard per la casa editrice Flammarion. Cinquant’anni di trionfi nel mondo editoriale finché, un anno fa, ha pubblicato il suo primo romanzo, “La Triomphante”, narrando la carriera brillante e piena di soddisfazioni di una alter ego avvenuta nell’ombelico d’Europa, dopo un’infanzia a dir poco travagliata e fascinosa, trascorsa sulle sponde del Mediterraneo. Proprio com’è accaduto a lei. Leggi il resto di questa voce

Philippe Djian: «Cerco semplicemente la lingua giusta per rappresentare il mio mondo».

Philippe Djian non è interessato alle storie. O meglio, al romanziere francese considerato l’ultimo erede della Beat Generation e divenuto celebre a livello internazionale grazie al grande successo ottenuto con 37°2 al mattino (da cui è stato tratto nel 1986 il film Betty Blue con Béatrice Dalle protagonista) ciò che importa davvero è l’uso della lingua, che dev’essere “declinata alla giusta frequenza” per rappresentare il suo punto di vista, il suo mondo. Djian ha ricevuto numerosi premi in patria fra cui il Jean Freustiè nel 2009 e diversi scrittori transalpini, fra cui Michel Houellebecq, lo considerano il proprio maestro. Ben diciotto anni dopo la sua pubblicazione, la casa editrice Voland prosegue la valorizzazione di questo autore di culto, pubblicando Assassini (pp. 208 euro 14), primo capitolo di una trilogia. Quì Djian trasporta in lettore con grande ritmo e dialoghi pungenti, nella piccola Hénochville, una cittadina di montagna sovrastata da una fabbrica che sta avvelenando il fiume della regione, donando ricchezza e al tempo stesso, morte. In una notte di pioggia torrenziale i protagonisti saranno costretti a fare i conti con se stessi mentre su loro incombe proprio il fiume, pronto ad una fatale esondazione.

“Lavoravo per un assassino”. Comincia così Assassini ma quanto è importante un buon incipit nell’economia del libro?

«Perché dovrei iniziare con un incipit noioso? Sarebbe assurdo, toglierebbe la voglia al lettore di continuare. È come nelle gare per i corridori, si inizia con un colpo di pistola poi se sono i 100 metri o è una maratona, si vedrà; come accendere una miccia, e poi la prima frase dà tutta l’atmosfera del romanzo. La prima frase è come il diapason che dà il là a un musicista ma poi bisogna tenere la nota altrimenti crolla tutto».

Anche in Assassini il sentimento dell’amicizia, il legame fra uomini adulti è centrale. Crede davvero in questo sentimento già decantato da Cicerone?

«Non credo nell’amicizia come a un sentimento privo di conflitti, un sentimento in cui c’è una comprensione totale. Per esempio nel mio ultimo romanzo (Oh…, edito da Gallimard in Francia ed ancora inedito in Italia) la protagonista va a letto con il marito della sua migliore amica ma nonostante ciò, il suo tradimento non toglie valore al sentimento d’amicizia. In realtà l’amicizia non è come quella idilliaca di Cicerone, l’amicizia è strana come la vita stessa d’altronde».

Marc afferma che forse abbiamo già passato il segno, che non è possibile rompere la catena produttiva e invertire il corso delle cose, salvando noi stessi e la Terra. È d’accordo?

«Sì, credo non ci sia ritorno. Forse inventeremo qualcosa che migliorerà un poco la situazione, del resto l’ingegno dell’uomo può trovare altre soluzioni per superare i problemi del nostro mondo ma non sono Nostradamus, non lo so davvero. Non credo che gli scrittori sappiano quello che succederà. A me non interessa neanche cosa succederà tra vent’anni. Oggi, almeno in Francia, tutti criticano l’OGM ma se non ci fosse l’OGM non ci sarebbe abbastanza da mangiare per tutti. Che fare? Il padre di José Bovè è uno scienziato e dice che suo figlio è un coglione e secondo lui bisogna sperimentare, andare avanti con la scienza, fare ricerca ma anche José Bovè ha le sue ragioni. Tempo fa mi hanno invitato in Irlanda a una conferenza il cui tema è la “decelerazione” ma non credo che nemmeno questa sia la soluzione. Oggi con lo sviluppo della Cina e di altri paesi, l’Occidente si preoccupa di quello che potrebbe accadere ma allo stesso tempo dopo aver fatto tutto quello che volevamo, noi occidentali come potremmo dire ai paesi in crescita: “non vi comprate tutti la macchina, non mangiate tutti la carne altrimenti il mondo scoppia”? Ma non so cosa risponderle, io sono solo uno scrittore».

Il legame fra produzione-lavoro-inquinamento è drammaticamente attuale a spese dell’ecosistema. In generale crede che l’uomo possa imparare dai suoi errori o sia destinato a ricadervi fatalmente?

«L’uomo impara, certo, ma ci ricasca sempre. Oggi sappiamo a cosa portano gli investimenti delle banche ma non facciamo niente contro. Ci ricadiamo puntualmente. L’uomo cerca la sua soddisfazione, il suo piacere a discapito degli altri. Oggi le banche investono sul grano e sappiamo benissimo a cosa porta questo ma non facciamo niente. Blythe Masters, ex JP Morgan, la donna più potente del mondo, definita dal “Guardian” come “la donna che ha inventato le armi finanziarie di distruzione di massa” ha messo su una società che investe solo su materie prime e non sono solo numeri, quelle sono popolazioni messe in ginocchio…»

Com’è nata l’idea di questa trilogia? Cosa ci aspetta nei prossimi due libri?

«L’idea della trilogia è molto semplice. Quando ho consegnato il romanzo all’editore Gallimard, mi ha detto che gli sarebbe piaciuto che il romanzo fosse stato più lungo e io gli ho subito risposto che in realtà quello era il primo romanzo di una trilogia. Il secondo volume che ho scritto non aveva nessun rapporto con il primo, è scrivendo il terzo che ho collegato tutto. Nel primo volume il protagonista racconta la storia delle persone che vivono sul lato destro del fiume, nel secondo racconta le storie del lato sinistro del fiume e nel terzo si capisce tutto. Le storie mi annoiano in realtà quello che mi interessa è la lingua. Nei miei libri affronto sempre temi esistenziali: la morte, la famiglia… Non parlo di attualità, come Aurelien Bellanger, o di cose vissute, come Christine Angot. Alla rentrée littéraire quest’anno sono praticamente il solo a non parlare di cose “vere”. Mi dicono che nel mio libro c’è una trama degna di Hitchock. Certo bisogna che la storia regga che attiri, che ci si industri, ma non è quello che mi interessa».

Ha dichiarato che, giovanissimo, dopo aver letto Il Giovane Holden, ha deciso di fare lo scrittore. Perché? Quale esigenza voleva soddisfare?

«Volevo semplicemente trovare la lingua giusta per rappresentare il mio mondo. È come alla radio quando si cerca la frequenza, a un certo punto trovi la frequenza giusta quella che funziona, così è la lingua. Nei miei libri in fondo racconto sempre le stesse storie, non c’è niente di particolare. Potrei dire che se fossi un regista sarei interessato alla posizione della telecamera, all’inquadratura. Quando scrivo è come se avessi un suono dentro, una lingua che parla dentro di me, poi si può scrivere quello che si vuole: gialli, storie d’amore, fantascienza; non ci sono generi minori ci sono solo scrittori minori».

Francesco Musolino

 

Fonte: La Gazzetta del Sud, ottobre 2012

Giulio Minghini: «Sono fuggito dall’Italia e non ho nessuna intenzione di farvi ritorno»

Febbre (edito da Piemme) è il libro d’esordio (con tanto di paragone eccellente: Michel Houellebecq) di Giulio Minghini, giovane e traduttore stimato per Adelphi, che ha scosso la critica francese con un romanzo sul gioco degli specchi virtuali della rete, dove feticismo e timidezza si mescolano pericolosamente fra la ricerca di sesso appagante e quello dell’anima gemella, spesso con risultati sorprendenti, attraverso Pointcommuns, un sito di ricerca dell’anima gemella tramite le affinità elettive. Minghini tramite Delacero – il suo alter ego virtuale – va diretto al bersaglio, aggressivo sui temi soci-politici e scevro della morale da canonica ormai consueta nei giovani romanzieri che vorrebbero provocare senza scioccare, non lesina giudizi ma non nasconde la mano.

Pubblicato in Francia da Editions Allia riscuotendo gran successo, Febbre esce finalmente in Italia.

Perché ha scritto il suo romanzo in francese?

Devo molto alla Francia, paese in cui ho vissuto metà della mia vita e che mi ha insegnato parecchi trucchi. Volevo sdebitarmi scrivendo un libro sulla mia Parigi, nella lingua che mi ha adottato – il francese appunto.

All’esordio la paragonano nientemeno che ad Houellebecq. É un paragone che la lusinga o la infastidisce?

Houellebecq è uno scrittore che ha saputo descrivere la società francese e occidentale degli ultimi trenta, quarant’anni come nessun altro.

Il suo bersaglio preferito sono i bobò e i loro profili imbottiti di “citazioni intellettualoidi”: secondo lei perché ci si rifugia nel web?

La parola senza volto, gli scambi virtuali, le chat notturne rappresentano il coro inudibile e segreto delle nostre fantasie più nascoste. Un mondo parallelo, sconfinato, eccitante e angoscioso, libero e liberatorio.

Il rapporto del suo protagonista con i suoi alter ego è controverso. Nasce come una provocazione contro il bigottismo dei moderatori ma poi la situazione gli sfugge di mano…

Sempre più preso dal gioco degli incontri, il protagonista finisce per sprofondare in una potente allucinazione che lo porta a moltiplicarsi attraverso false identità (fake), autentici personaggi di una commedia mentale il cui copione, a mano a mano che il libro avanza, si fa sempre più accecante, illeggibile e pericoloso.

“Un paese governato dal peggi­o. L’Avanguardia stessa del peggio”. I suoi giudizi sull’Italia e sulla classe politica attuale non lasciano dubbi. Che futuro vede per il Belpaese?

Per l’Italia vedo un eterno presente fatto di indecenti risate, rassegnazione, impotenza, corruzione generalizzata, ignoranza crescente, barbarie.

Il peso del Vaticano lo avverte ancor di più guardando l’Italia da Oltralpe?­

Da quando avevo sei o sette anni, mi sono sempre chiesto perché non ci sia ancora decisi a mettere a fuoco e fiamme il Vaticano, luogo perniciosissimo per i grandi e spaventevole per i piccini.

Secondo lei oggi urterebbe ancora la morale affermare che il suo Delacero sul web cerca “soltanto” il piacere, la perdizione e l’estasi sessuale?

Non avendo una nozione precisa di morale, non so rispondere a questa domanda.

Come mai non ha tradotto lei stesso il suo romanzo?

L’editore francese e quello italiano me lo hanno sconsigliato. Sbagliando.

Ma quanto c’è di autobiografico in Febbre?

Febbre nasce evidentemente dalle mie esperienze, che sono in parte esposte nella loro stravagante nudità e in parte deformate. Esistono poi, nel libro, episodi del tutto inventati, pure divagazioni romanzesche, congetture visionarie.

Giulio lei tornerebbe in Italia domani?

In Italia forse no, ma a Portomaggiore, il paese dei matti dove sono nato e dal quale sono scappato certamente sì. Qualche giorno almeno, all’epoca delle dense nebbie, in novembre ad esempio. Per girare un documentario sul vuoto atroce e grottesco della provincia italiana.

Giulio Minghini è nato in Italia, si è trasferito giovanissimo a Parigi. Lettore e traduttore dal francese e dallo spagnolo, collabora con diverse case editrici, tra cui Adelphi, che gli ha affidato autori del calibro di Georges Simenon.

La Carta e il Territorio. Un romanzo ditirambico

Se non avesse ancora scritto Piattaforma, l’ultimo romanzo dello scrittore francese Michel Houellebecq, La Carta e il Territorio (Bompiani, traduz. it. di Fabrizio Ascari, pp. 364; €20) sarebbe la sua miglior prova. Perché? Appena lo si comincia a leggere si ha l’impressione che si debba necessariamente rallentare l’impeto volontario della lettura, centellinando le pagine quasi come si stesse sorseggiando un pregiato vino. Se esisteva ancora al giorno d’oggi la possibilità di scrivere un romanzo totale, Houellebecq l’ha colta e fatta sua e il tanto atteso trionfo al premio Goncourt – posta l’ostilità assai nota dei critici nei suoi confronti – lo avvalora ancor di più.

Come accadeva nel già citato Piattaforma o ne La possibilità di un’isola, Houellebecq non ha timore di osare. Chi ha letto Nemici Pubblici ovvero una serie di dialoghi con il controverso filosofo Bernard-Henri Lévy, sa bene che non si tratta affatto di divismo o uno snobismo asservito al mercato editoriale; al contrario l’autore da sempre sembra curarsi assai poco degli intermediari avendo sempre preferito parlare direttamente ai lettori. Ma non essendo un mero dispensatore di banalità, non è amato da tutti. Anzi spesso viene considerato soltanto un provocatore. Ne La Carta e il Territorio lo scrittore transalpino porta sulla pagina una serie di personaggi assai noti, fra cui scrittori e giornalisti. Una lunga serie su cui spiccano la sua editrice Teresa Cremisi e lo scrittore Frédéric Beigbeder ma soprattutto se stesso, Michel Houellebecq. Il libro si apre con le paturnie del talentuoso artista Jed Martin che sta per allestire la sua seconda personale ma perché il pubblico comprenda la sua decisione di passare dalla fotografia – la sua prima passione che ne ha decretato il successo immediato – alla pittura, serve un testo critico di grande impatto mediatico. Chi meglio di Michel Houellebecq? Nonostante la sua nota fama di misantropo – l’autore non si descrive mai con l’aureola del santo, forse talvolta dell’incompreso – il suo gallerista lo convince che sia necessario insistere. E ha ragione.L’autore con un agile passo indietro ci racconta che Jed era un adolescente anomalo, «mentre i suoi coetanei ne sapevano di solito un po’ di più sulla vita di Spiderman che su quella di Gesù», lui aveva letto con ordine e disciplina tutti i classici. Prima di arrivare alla pittura, un lungo flashback ci racconta che il suo rapporto con l’arte sbocciò grazie alla fotografia ma Martin sarà destinato a passare da una passione all’altra sacrificando tutto in nome dell’ispirazione perché – e qui ritroviamo lo stesso credo dello scrittore – è necessario tenere sempre i sensi all’erta: «la vita serve le carte ma poi è lesta a riprendersele» se le occasioni non le si sfrutta a tempo debito.Grazie alla fotografia Jed Martin sbanca e conosce anche la russa Olga. Fra i due, lui piccolo e gracile, lei vertiginosamente bella, scoppia una passione ardente. Lei per la prima volta le apre le porte del mondo dell’arte e lui, ancora spaesato fra cocktail e vernissage, si sentirà spesso come uno di quei giovinetti amanti di donne importanti. Quasi come uno dei giovani amanti creati dalla penna di Colette. Ma i loro destino è segnato perché lui resterà sempre «un piccolo francese indeciso». L’entrata in scena di Houellebecq condurrà, come anticipato, Martin alla ricchezza e al successo definitivo e persino il tormentato scrittore – che sembrava destinato a vivere per sempre in una casa piena di scatoloni, isolato da tutto e in una Francia del futuro ritornata felicemente all’agricoltura dopo il definitivo crollo del sistema capitalistico mondiale – troverà la serenità ritornando nella sua casa dell’infanzia, in un minuscolo borgo. Ma ecco che Houellebecq vira bruscamente mettendo in scena il suo stesso, brutale, omicidio.La seconda parte del romanzo, che sarà incentrata sulle indagini relative all’assassinio dello scrittore e del suo cane, vedrà come protagonista Jasselin, un poliziotto esperto e ad un passo dalla pensione. Un uomo ormai capace di accettare la brutalità del mondo ma, come sottolinea in un bel dialogo con la moglie, esausto nello scovare dietro ogni delitto un movente assolutamente razionale, spesso meramente economico.

La Carta e il Territorio colpisce perché è un romanzo scritto con grande padronanza del flusso narrativo. Houellebecq controlla sul velluto i rimandi al passato e il difficoltoso rapporto fra Jed e suo padre, avendo modo anche di attaccare tanto il sistema economico attuale che il politically correct oggi imperante. La svolta thriller che gli permette di portare sulla pagina la propria morte è un tocco di classe e sfrontatezza che sottolinea la maturità raggiunta da Houellebecq tanto da avergli permesso di conquistare, finalmente, il premio Goncourt.

Fonte: www.tempostretto.it del 25 novembre 2010