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Le scimmie di Berselli cadono dagli alberi e imparano la lezione. Noi no.
Fine umorista, Alessandro Berselli con “Anche le scimmie cadono dagli alberi” (Piemme) torna alla scrittura umoristica dopo aver firmato diversi romanzi noir. Samuel Ferrari, il suo protagonista, lavora per una bieca multinazionale che sta allegramente distruggendo il mondo – cosa che gli procurerà non pochi problemi – ma la sua è un’esistenza anestetizzata, disimpegnata, forse persino educata all’errore. Sul suo cammino di sopravvivenza esistenziale – frustrato da un padre che lo vorrebbe in divisa e con una sorella fin troppo svampita – Samuel Ferrari rappresenta “un Peter Pan terminale” che si scontra con un universo femminile – rappresentato dalla collega Anna, la compagna Giada, la sorella Violet e la misteriosa Milf made in Japan – cinico e fin troppo determinato a prendere ciò che vuole, con qualsiasi mezzo. Fra le pagine di questo caustico romanzo “spaventosamente contemporaneo” troviamo la celebre Generazione X ormai alla deriva, alienata e alienante, rappresentata da una galleria di casi umani che Berselli fotografa con maestria. Perché chi critica la scrittura umoristica, relegandola in second’ordine rispetto ai cosiddetti romanzi impegnati, non ha compreso che far ridere riuscendo anche a far riflettere è un’impresa davvero, davvero dura. Leggi il resto di questa voce
Michael Connelly: «Leggere è come mettere benzina nel serbatoio della creatività»
Con oltre 45 milioni di copie vendute nel mondo Michael Connelly è considerato uno fra gli autori thriller più importanti al mondo. Per anni i fan hanno invocato un libro che portasse in pagina i suoi eroi principali, Hieronymus “Harry” Bosch e Mickey Haller – rispettivamente un detective privato e un avvocato penalista – e finalmente Connelly li ha soddisfatti con La Svolta (Piemme, pp.372 Euro 19,90), un thriller molto intenso che non viene meno alla consueta attenzione verso l’evoluzione psicologica dei personaggi. Ha un passato felice nel giornalismo potendo vantare anche la candidatura al Pulitzer per un reportage sui sopravvissuti di un disastro aereo e nonostante il successo raggiunto – i suoi libri sono tradotti in 35 lingue – trova l’ispirazione per la strada e continuando a leggere tutto ciò che trova, giorno dopo giorno. Proprio come profetizzava Cervantes. Mr. Connelly perché ha scelto di portare in pagina contemporaneamente Bosch e Haller?
Considero i miei libri come una sorta di storia continua che si dipana per cui è naturale che i personaggi principali possano attraversarsi la strada reciprocamente. Dando vita al ciclo di Haller ho sancito che lui e Haller fossero fratellastri e in questo libro volevo concedermi la possibilità di tornare indietro ed esplorare le pieghe del loro rapporto».
Bosch e Haller hanno personalità “ingombranti”. È stato difficoltoso trovare il giusto equilibrio a livello narrativo?
«Ammetto che è stato complicato perché volevo che fossero proprio loro due a costruire la storia, bilanciandola alla perfezione. Credo che abbiano due “voci” molto caratteristiche e diverse per cui non avevo paura che il lettore potesse confondersi, piuttosto volevo essere certo che fossero entrambi capaci di portare avanti la storia in modo autonomo».
Parliamo di Hieronymus “Harry” Bosch, il personaggio a lei più vicino. Com’è nato?
«Harry è il risultato di molti differenti detective che ho conosciuto facendo il giornalista e insieme il frutto di tante influenze letterarie e cinematografiche. Proprio per l’aver mescolato tante cose insieme, sia reali che fittizie, spero che il mio Harry Bosch sia un personaggio davvero unico.
È vero che comincia ogni giornata ascoltando “Lullaby” di Frank Morgan in suo onore?
«Sì mi piace molto ascoltare “Lullaby” di Frank Morgan, la considero l’inno di Harry. È una canzone malinconica ma anche piena di speranza. Proprio come Harry».
Ha dichiarato che “la giustizia trionfa solo nel mondo del thriller perché nel mondo reale i casi irrisolti sono davvero numerosi”. Scrive anche per fare giustizia, per mettere le cose a posto?
«Anche per questo motivo. Del resto ho usato più volte reali casi irrisolti come punto di partenza ma almeno nella fiction, venivano risolti».
Le manca qualcosa della sua esperienza giornalistica al Los Angeles Times?
«Non mi manca il lavoro da reporter piuttosto ho nostalgia della vita di redazione e del cameratismo fra colleghi. Mi manca la prospettiva giornalistica, il fatto che al termine della giornata sapevi davvero cosa stava accadendo nella tua città».
Quando ha capito che sarebbe diventato uno scrittore?
«A 19 anni lessi i libri di Raymond Chandler e ciò mi mise su quel sentiero. Da allora ho voluto diventare uno scrittore».
Dopo tanti successi letterari qual è il suo rapporto con l’ispirazione? La sua voglia di scrivere è cambiata nel tempo?
«Devo andare in giro per trovarla, l’ispirazione. Trascorro molto tempo con avvocati e poliziotti e ascolto molte storie diverse, aspettando di sentire quella che mi colpirà e farà scattare la scintilla. Nei miei primi anni ero più affamato e desideroso di dimostrare qualcosa. Adesso sono più interessato al lavoro vero e proprio e ai miei personaggi e non mi interessa più cosa si dice lì fuori, nel mondo».
Ha detto che un giovane scrittore deve leggere ogni giorno per tenere viva la fiamma.
«Credo che leggere serva a mettere benzina nel serbatoio. Se sei in procinto di scrivere una crime fiction allora devi certamente leggerne una ma non bisogna limitarsi a questo. Bisogna leggere anche saggistica, arte e opere in lingua originale. Insomma, leggete ogni singola cosa che vi capiti a tiro. Per quanto mi riguarda ultimamente sto leggendo da Charles Bukowski a Dennis Lehane sino a Donato Carrisi ».
Francesco Musolino®
Fonte: La Gazzetta del Sud, 27 aprile 2013
Federalismo? No, “fregalismo”. Intervista a Pino Aprile
Dopo il grande successo ottenuto con Terroni – il libro di saggistica più venduto del 2010 che ha incendiato il dibattito sul Risorgimento e sui torti e le violenze subite dalle popolazioni meridionali per mano dei “liberatori” sabaudi – il giornalista Pino Aprile ritorna in libreria con Giù al Sud (Piemme) sottolineando come il futuro stesso dell’Italia sia nella mani del Meridione e dei giovani e lancia l’allarme sul federalismo leghista che potrebbe solo ampliare il divario nord-sud, nato proprio con l’Unità d’Italia.
In Giù al Sud propone una tesi antitetica a quella leghista: sarà il Sud a salvare l’Italia. Ma come?
In un sistema squilibrato, solo chi si trova in posizione svantaggiata ha interesse a mutare le cose perché, prima o poi, la pazienza termina. Al sud sta accadendo proprio questo, sta crescendo la consapevolezza verso quella politica discriminatoria e brutale che, nel tempo, ha asservito il Meridione al Nord. Non è detto che si riesca ad invertire la tendenza ma, di certo, le premesse per il cambiamento sembrano esserci tutte poiché non c’è più una supina accettazione dello status quo.
Il cambiamento passa per la riscrittura della storia del Risorgimento?
Proprio sulla ricostruzione faziosa della storia d’Italia poggia la costruzione del divario nord-sud e oggi disponiamo di talmente tanti documenti che solo chi è in malafede può ancora dubitarne. Chi volesse approfondire dovrebbe leggere “Il divario Nord-Sud in Italia (1861-2011)” di P. Malanima e V. Daniele, dove emerge con chiarezza come lo squilibrio nacque proprio nel 1861 e venne consolidato con una chiara volontà politica.
Nel suo libro parla anche del federalismo, anzi, del “fregalismo”. Una provocazione?
Nessuna provocazione. Lo chiamo così perché tutti i criteri del federalismo sono stati concepiti in funzione anti-meridionale e le decisioni, in pratica, sono state prese da organi solo settentrionali, escludendo i rappresentanti del sud con la sola eccezione della Sicilia che, però, è una regione a statuto speciale. A riprova di ciò, il biglietto di ingresso nel federalismo fiscale regionale è la sottrazione di un altro miliardo di euro a favore delle regioni più ricche: è il soccorso dei poveri a favore degli agiati. Se questo non è fregalismo…
Lei è favorevole ai festeggiamenti per il 150° anniversario dell’Unità o no?
Avrei voluto festeggiarlo ma in realtà lo abbiamo solo celebrato, è diverso. Ma solo le cose morte vengono celebrate e infatti abbiamo solo applaudito a delle cerimonie e per quanto sia felice quando suona l’inno di Mameli, vorrei che altri fenomeni identitari molto importanti non venissero offuscati. Sono italiano e fiero d’esserlo ma vorrei che si celebrasse tutto il nostro patrimonio identitario, quella somma di culture che ci rendono unici nel mondo.
Fonte: Il Futurista – n°27 dell’8 dicembre 2011
Giulio Minghini: «Sono fuggito dall’Italia e non ho nessuna intenzione di farvi ritorno»
Febbre (edito da Piemme) è il libro d’esordio (con tanto di paragone eccellente: Michel Houellebecq) di Giulio Minghini, giovane e traduttore stimato per Adelphi, che ha scosso la critica francese con un romanzo sul gioco degli specchi virtuali della rete, dove feticismo e timidezza si mescolano pericolosamente fra la ricerca di sesso appagante e quello dell’anima gemella, spesso con risultati sorprendenti, attraverso Pointcommuns, un sito di ricerca dell’anima gemella tramite le affinità elettive. Minghini tramite Delacero – il suo alter ego virtuale – va diretto al bersaglio, aggressivo sui temi soci-politici e scevro della morale da canonica ormai consueta nei giovani romanzieri che vorrebbero provocare senza scioccare, non lesina giudizi ma non nasconde la mano.
Pubblicato in Francia da Editions Allia riscuotendo gran successo, Febbre esce finalmente in Italia.
Perché ha scritto il suo romanzo in francese?
Devo molto alla Francia, paese in cui ho vissuto metà della mia vita e che mi ha insegnato parecchi trucchi. Volevo sdebitarmi scrivendo un libro sulla mia Parigi, nella lingua che mi ha adottato – il francese appunto.
All’esordio la paragonano nientemeno che ad Houellebecq. É un paragone che la lusinga o la infastidisce?
Houellebecq è uno scrittore che ha saputo descrivere la società francese e occidentale degli ultimi trenta, quarant’anni come nessun altro.
Il suo bersaglio preferito sono i bobò e i loro profili imbottiti di “citazioni intellettualoidi”: secondo lei perché ci si rifugia nel web?
La parola senza volto, gli scambi virtuali, le chat notturne rappresentano il coro inudibile e segreto delle nostre fantasie più nascoste. Un mondo parallelo, sconfinato, eccitante e angoscioso, libero e liberatorio.
Il rapporto del suo protagonista con i suoi alter ego è controverso. Nasce come una provocazione contro il bigottismo dei moderatori ma poi la situazione gli sfugge di mano…
Sempre più preso dal gioco degli incontri, il protagonista finisce per sprofondare in una potente allucinazione che lo porta a moltiplicarsi attraverso false identità (fake), autentici personaggi di una commedia mentale il cui copione, a mano a mano che il libro avanza, si fa sempre più accecante, illeggibile e pericoloso.
“Un paese governato dal peggio. L’Avanguardia stessa del peggio”. I suoi giudizi sull’Italia e sulla classe politica attuale non lasciano dubbi. Che futuro vede per il Belpaese?
Per l’Italia vedo un eterno presente fatto di indecenti risate, rassegnazione, impotenza, corruzione generalizzata, ignoranza crescente, barbarie.
Il peso del Vaticano lo avverte ancor di più guardando l’Italia da Oltralpe?
Da quando avevo sei o sette anni, mi sono sempre chiesto perché non ci sia ancora decisi a mettere a fuoco e fiamme il Vaticano, luogo perniciosissimo per i grandi e spaventevole per i piccini.
Secondo lei oggi urterebbe ancora la morale affermare che il suo Delacero sul web cerca “soltanto” il piacere, la perdizione e l’estasi sessuale?
Non avendo una nozione precisa di morale, non so rispondere a questa domanda.
Come mai non ha tradotto lei stesso il suo romanzo?
L’editore francese e quello italiano me lo hanno sconsigliato. Sbagliando.
Ma quanto c’è di autobiografico in Febbre?
Febbre nasce evidentemente dalle mie esperienze, che sono in parte esposte nella loro stravagante nudità e in parte deformate. Esistono poi, nel libro, episodi del tutto inventati, pure divagazioni romanzesche, congetture visionarie.
Giulio lei tornerebbe in Italia domani?
In Italia forse no, ma a Portomaggiore, il paese dei matti dove sono nato e dal quale sono scappato certamente sì. Qualche giorno almeno, all’epoca delle dense nebbie, in novembre ad esempio. Per girare un documentario sul vuoto atroce e grottesco della provincia italiana.
Giulio Minghini è nato in Italia, si è trasferito giovanissimo a Parigi. Lettore e traduttore dal francese e dallo spagnolo, collabora con diverse case editrici, tra cui Adelphi, che gli ha affidato autori del calibro di Georges Simenon.