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Marc Levy: «il nostro destino è il risultato delle scelte che la vita ci offre»

Con oltre 28 milioni di copie vendute nel mondo, Marc Levy è lo scrittore francese contemporaneo più letto al mondo. Ha dedicato tutta la sua vita alla scrittura eppure per diversi anni ha diretto uno studio di architettura fra Parigi e New York, oltre ad aver lavorato per la Croce Rossa e Amnesty International. Il suo romanzo d’esordio, “Se solo fosse vero” (pubblicato in Francia nel 2000), è stato tradotto in 42 lingue, un sorprendente risultato peraltro costante nel tempo, grazie alla cura con cui costruisce le trame e i personaggi, partendo da un severo lavoro di documentazione. Nel suo ultimo romanzo “Se potessi tornare indietro” (Rizzoli, pp. 324 €18), porta in pagina Andrew Stilman, reporter del New York Times, con una grande passione per il proprio lavoro; ma sarà proprio la sua dedizione nella ricerca della verità a condurlo in una spinosa indagine sul traffico degli orfani cinesi negli States prima, e sul dramma dei desaparecidos argentini poi. Dei suoi tredici romanzi (ricordiamo il successo de “I figli della libertà” e “Quello che non ci siamo detti” sempre editi da Rizzoli) quest’ultimo ha la più forte costruzione thrilleristica, firmando una trama che sembra offrire al protagonista una seconda chance per tornare indietro e salvarsi la vita. Una chance di cui tutti, ad un certo punto nella nostra vita, avremmo voluto usufruire.

Monsieur Levy, com’è nato “Se potessi tornare indietro”?

«L’idea per questo libro è sbocciata mentre stavo guardando un documentario su un giornalista del New York Times. Pur non avendolo mai incontrato, sentivo già una sorta di complicità con lui. Mi ha commosso l’umanità e la completezza che quest’uomo comunicava: era diventato un alcolizzato ma era stato salvato dalla sua passione, dalla sua dedizione per il lavoro. L’etica giornalistica gli ha dato la forza di combattere la sua dipendenza e di sconfiggerla. Proprio questo è il punto di partenza per creare il personaggio di Andrew Stilman. Per quanto riguarda la storia in sé, avevo letto un articolo sul traffico di bambini in Cina e ho deciso che volevo scrivere un intrigo in cui i personaggi avrebbero avuto la possibilità di evolversi rapidamente, in una trama che sotto certi aspetti può apparire sconcertante. E, ultimo ma non meno importante, si tratta di un romanzo su una seconda possibilità…». Leggi il resto di questa voce

Michael Connelly: «Leggere è come mettere benzina nel serbatoio della creatività»

 

Michael Connelly

Michael Connelly

Con oltre 45 milioni di copie vendute nel mondo Michael Connelly è considerato uno fra gli autori thriller più importanti al mondo. Per anni i fan hanno invocato un libro che portasse in pagina i suoi eroi principali, Hieronymus “Harry” Bosch e Mickey Haller – rispettivamente un detective privato e un avvocato penalista – e finalmente Connelly li ha soddisfatti con La Svolta (Piemme, pp.372 Euro 19,90), un thriller molto intenso che non viene meno alla consueta attenzione verso l’evoluzione psicologica dei personaggi. Ha un passato felice nel giornalismo potendo vantare anche la candidatura al Pulitzer per un reportage sui sopravvissuti di un disastro aereo e nonostante il successo raggiunto – i suoi libri sono tradotti in 35 lingue – trova l’ispirazione per la strada e continuando a leggere tutto ciò che trova, giorno dopo giorno. Proprio come profetizzava CervantesMr. Connelly perché ha scelto di portare in pagina contemporaneamente Bosch e Haller?

Considero i miei libri come una sorta di storia continua che si dipana per cui è naturale che i personaggi principali possano attraversarsi la strada reciprocamente. Dando vita al ciclo di Haller ho sancito che lui e Haller fossero fratellastri e in questo libro volevo concedermi la possibilità di tornare indietro ed esplorare le pieghe del loro rapporto».

Bosch e Haller hanno personalità “ingombranti”. È stato difficoltoso trovare il giusto equilibrio a livello narrativo?

«Ammetto che è stato complicato perché volevo che fossero proprio loro due a costruire la storia, bilanciandola alla perfezione. Credo che abbiano due “voci” molto caratteristiche e diverse per cui non avevo paura che il lettore potesse confondersi, piuttosto volevo essere certo che fossero entrambi capaci di portare avanti la storia in modo autonomo».

Parliamo di Hieronymus “Harry” Bosch, il personaggio a lei più vicino. Com’è nato?

«Harry è il risultato di molti differenti detective che ho conosciuto facendo il giornalista e insieme il frutto di tante influenze letterarie e cinematografiche. Proprio per l’aver mescolato tante cose insieme, sia reali che fittizie, spero che il mio Harry Bosch sia un personaggio davvero unico.

È vero che comincia ogni giornata ascoltando “Lullaby” di Frank Morgan in suo onore?

«Sì mi piace molto ascoltare “Lullaby” di Frank Morgan, la considero l’inno di Harry. È una canzone malinconica ma anche piena di speranza. Proprio come Harry».

Ha dichiarato che “la giustizia trionfa solo nel mondo del thriller perché nel mondo reale i casi irrisolti sono davvero numerosi”. Scrive anche per fare giustizia, per mettere le cose a posto?

«Anche per questo motivo. Del resto ho usato più volte reali casi irrisolti come punto di partenza ma almeno nella fiction, venivano risolti».

Le manca qualcosa della sua esperienza giornalistica al Los Angeles Times?

«Non mi manca il lavoro da reporter piuttosto ho nostalgia della vita di redazione e del cameratismo fra colleghi. Mi manca la prospettiva giornalistica, il fatto che al termine della giornata sapevi davvero cosa stava accadendo nella tua città».

Quando ha capito che sarebbe diventato uno scrittore?

«A 19 anni lessi i libri di Raymond Chandler e ciò mi mise su quel sentiero. Da allora ho voluto diventare uno scrittore».

Dopo tanti successi letterari qual è il suo rapporto con l’ispirazione? La sua voglia di scrivere è cambiata nel tempo?

«Devo andare in giro per trovarla, l’ispirazione. Trascorro molto tempo con avvocati e poliziotti e ascolto molte storie diverse, aspettando di sentire quella che mi colpirà e farà scattare la scintilla. Nei miei primi anni ero più affamato e desideroso di dimostrare qualcosa.  Adesso sono più interessato al lavoro vero e proprio e ai miei personaggi e non mi interessa più cosa si dice lì fuori, nel mondo».

Ha detto che un giovane scrittore deve leggere ogni giorno per tenere viva la fiamma.

«Credo che leggere serva a mettere benzina nel serbatoio. Se sei in procinto di scrivere una crime fiction allora devi certamente leggerne una ma non bisogna limitarsi a questo. Bisogna leggere anche saggistica, arte e opere in lingua originale. Insomma, leggete ogni singola cosa che vi capiti a tiro. Per quanto mi riguarda ultimamente sto leggendo da Charles Bukowski a Dennis Lehane sino a Donato Carrisi ».

 

Francesco Musolino®

Fonte: La Gazzetta del Sud, 27 aprile 2013

Glenn Cooper: «Non esiste una formula per il successo sicuro»

cooper-Il curriculum di Glenn Cooper è davvero ricco di sorprese. Laureatosi in archeologia e medicina è diventato un produttore e sceneggiatore cinematografico nonché presidente di una fiorente industria di biotecnologie nel Massachusetts. Ma la sua vita cambiò radicalmente quando, un lontano giorno del 2006 venne folgorato da una visione, l’immagine di una biblioteca sepolta contenente oltre 700 mila volumi dove erano iscritte le date di vita e di morte di tutti gli abitanti della Terra. Ma tutto si interrompeva il 9 febbraio 2027. Nacque così “La Biblioteca dei Morti”, il suo libro d’esordio. Fu un thriller di successo internazionale che lanciò Cooper nell’olimpo degli scrittori americani capaci di sfondare quota un milione di copie vendute, raccogliendo curiosamente più successo in Europa che in patria. Proprio in questi giorni è stato pubblicato “I Custodi della Biblioteca” (Editrice Nord) che porterà a compimento la trilogia – “Il Libro delle Anime” fu il secondo capitolo – catapultando il lettore nel 2026, proprio a ridosso di quella fatidica data, forse indicante la fine del mondo, con buona pace dei Maya. Glenn Cooper che ha lanciato in anteprima mondiale il suo libro al festival BookCity di Milano, chiuderà la sua mini-tournée italiana proprio a Messina, giovedì 22 novembre presso la Santa Maria Alemanna. Un evento organizzato dalla Libreria Mondadori di Messina, in collaborazione con l’associazione culturale “La Gilda dei Narratori”.

Com’è nata l’idea della Biblioteca?

«Mi ha colto all’improvviso una mattina d’inverno e nello stesso modo mi è apparso il mio protagonista, Will Piper. In effetti sono le idee migliori a trovare me, non il contrario»

Will Piper è un uomo con pregi e difetti, non il classico duro e puro dei libri d’azione.

«Non mi piacciono i personaggi tagliati con l’accetta, ma quelli ricchi di sfumature e contraddizioni. Will non è ispirato a nessuno che conosca, lo volevo proprio così, complesso ma disposto a tutto per trovare la verità. In questo terzo libro lui ha 60 anni, siamo quasi coetanei, ed è stata una bella sfida portarlo in pagina ma è stato stimolante perché facciamo i conti con l’idea della mortalità e con i figli che crescono. È stata un’esperienza catartica».

La incuriosisce il fatto che i suoi libri, come i film di Woody Allen, abbiano più successo in Europa?

«Mi è servito del tempo per abituarmi a quest’idea però negli States mi è capitato anche di sentirmi dire “mi piacciono i tuoi libri ma devono esserci per forza tutti quei dettagli storici?”».

Vedremo presto un film sulla sua Trilogia? Quale attore vorrebbe nei panni di Will Piper?

«Attualmente un produttore hollywoodiano è al lavoro ma credo che sia necessario un grosso budget per portarlo al cinema. Vedremo. Il mio attore ideale? Russell Crowe su tutti».

Lei realizzò diverse sceneggiature, senza fortuna, prima di scrivere La Biblioteca. Eppure non ha mai messo da parte il suo sogno di dedicarsi alla scrittura…

«È fondamentale essere testardi. Nessuno merita il successo senza mettercela tutta e se non ha qualcosa da dire. Ma ovviamente serve anche un pizzico di fortuna».

E se la fine fosse domani, cosa farebbe?

«Continuerei a scrivere, come tutti i giorni. Forse mi concederei soltanto un goccetto di più la sera».

Francesco Musolino®

Fonte: La Gazzetta del Sud

Wilbur Smith: «La scrittura è la mia vita»

Wilbur-Smith_h_partbDopo ben 33 romanzi d’avventura e 122 milioni di libri venduti nel mondo, Wilbur Smith non ha affatto messo da parte la penna, la fantasia e l’ingegno. Difatti è pronto a rilanciare la sfida con una scelta nel segno del celebre Alexandre Dumas e non dimentica mai che nella vita avrebbe potuto fare tutt’altro che lo scrittore. Giunto in Italia per presentare in anteprima mondiale il suo nuovo romanzo – “Vendetta di Sangue” (Longanesi; pp. 510 euro 19,90) – lo scrittore d’origini zambiane e cresciuto in sudafrica che recentemente ha festeggiato l’ottantesimo compleanno accanto alla quarta moglie, ha risposto alle nostre domande. Per Wilbur Smith, indiscusso re dei romanzi d’avventura dal 1964 ad oggi, la scelta dell’Italia non è certo casuale visto che proprio nel nostro paese ha venduto oltre 33 milioni di copie. In “Vendetta di sangue”, vedremo il ritorno di Hector Cross – già protagonista ne “La legge del deserto” – in un fitto intreccio a base di vendetta, potere e denaro, ambientato fra la City londinese e l’Africa nordorientale. La firma di Smith? Il ritmo serratissimo e la morale salda.

Hector Cross, aveva trovato l’amore e la felicità ma in Vendetta di Sangue torna in pagina animato solo dal desiderio di rivalsa. Mr. Smith è arduo portare in pagina le emozioni più dilanianti dell’animo umano in modo realistico?
«Per prima cosa mi documento moltissimo e soprattutto scrivo solo di ambienti che conosco molto bene, ecco perché c’è sempre tanta Africa nei miei libri. Una documentazione più che esaustiva è fondamentale per la credibilità della storia. I lettori devono fidarsi di ciò che scrivo, come se si trattasse di personaggi reali. Per questa ragione le informazioni che sono sullo sfondo devono essere correttissime, altrimenti il tutto perde di veridicità e si finisce per avere la stessa sensazione che può avere un guidatore, quando supera un dosso artificiale lungo la strada: sobbalza, sente che c’è qualcosa che non va.
Per lo più scrivo di getto, per poi tornare indietro e rifinire in modo tale che ogni frase esprima al massimo emozione e forza».

Voleva fare il giornalista e per poco non divenne un contabile di stato, come desiderava suo padre. La pubblicazione de “Il destino del leone” nel 1964 le ha cambiato la vita?
«Ne sono più che sicuro. La scrittura non solo mi ha cambiato la vita, ma è la mia vita. E non credo tanto che sia stato io a scegliere la scrittura quanto piuttosto il contrario, è stata lei a scegliere me. Fin da prima che fossi in grado di scrivere ero affascinato dalle storie e dal modo in cui mi venivano raccontate. Mio padre e mio nonno prima di lui erano dei grandi contastorie. E mia madre, donna di grande cultura, amava moltissimo leggere e raccontarmi storie a sua volta. La voglia di raccontare fa parte del mio dna e da quando ho iniziato non sono più riuscito a farne a meno.

Ma cosa le piace di più della scrittura?
«Posso scatenare guerre, uccidere, torturare, guidare come un pazzo, violentare, incendiare e quant’altro…senza in realtà far del male a una mosca!»

In Italia i suoi libri hanno venduto 23 milioni di copie. Che rapporto ha con il nostro paese? 
«Con l’Italia e gli italiani non potrei avere un rapporto migliore! Si tratta del paese in cui ho maggior successo e credo di aver ormai sviluppato una grandissima affinità con i suoi lettori. L’Italia è un paese meraviglioso, di cui amo ogni cosa, dalla vitalità e allegria degli abitanti al buon vino e al buon cibo. L’Italia è la culla della civiltà. Quando gli antichi romani arrivarono in Inghilterra con i loro eserciti, trovarono popolazioni che da un punto di vista culturale e civile erano terribilmente indietro.

Nel prossimo futuro potrebbe ambientare proprio qui un suo romanzo?
«Non saprei. Sono convinto che si debba scrivere solo di quello che si conosce più che bene, proprio per questo che amo scrivere dell’Africa».

I suoi libri sono colmi d’azione a perdifiato…la sua vita privata è altrettanto adrenalinica?
«Beh, di certo ho avuto una vita molto avventurosa, ho viaggiato molto, ho partecipato a pericolose battute di caccia, ma di qui a dire che sono come Hector Cross c’è parecchia strada!»

Recentemente ha siglato un contratto con l’editore HarperCollins. Un team di co-autori svilupperà sei trame da lei ideate. È un progetto molto interessante ma cosa l’ha convinta a condividere il suo genio creativo?
«La ragione principale sta nella fame dei miei libri che hanno i miei lettori: ne vorrebbero sempre di più, ma vede, come sa ho passato da un po’ i quarant’anni…! Non riesco a tenere un ritmo così alto o almeno non tanto alto quanto vorrebbero loro. Non sappiamo ancora esattamente come funzionerà questa nuova formula, ci stiamo lavorando, ma di certo ha dei precedenti illustri. Penso a Clive Cussler o James Patterson per parlare dei giorni nostri, o Alexandre Dumas per andare su un grande del passato. Sono certo che troveremo la formula adatta per lavorare bene in questo modo e credo che moltissimo dipenderà dal tipo di rapporto che si creerà tra me e i miei collaboratori».

Intervista pubblicata su La Gazzetta del Sud (di sabato 2 febbraio)

Francesco Musolino®