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«Sono un artigiano della parola». Intervista a Marc Levy.

Marc Levy

Marc Levy

Marc Levy è il romanziere francese più letto al mondo. Basterebbe questa affermazione, tradotta in trentacinque milioni di copie, per intendere al volo la caratura del personaggio, il valore della sua scrittura, l’amore che i suoi lettori gli tributano ad ogni latitudine. Ma come spesso accade, ciò che colpisce maggiormente dei grandi autori è la loro disponibilità, l’ascolto del proprio pubblico (anche) mediante i social, l’impegno per cause nobili – Levy ha lavorato per la Croce Rossa e Amnesty International – e la capacità di ampliare il proprio sguardo, affrontando anche i temi dell’attualità. Di recente è tornato in libreria con il suo nuovo romanzo, il sedicesimo, “Lei & Lui” (Rizzoli, pp.350 euro 18) in cui racconta, con ironia e leggerezza, una storia d’amore, una commedia romantica sbarazzina ovvero il ritorno in pagina di Mia e Paul, richiamando il suo romanzo d’esordio, “Se solo fosse vero”. Lei è un’attrice inglese di successo con un matrimonio infelice, Lui uno scrittore dalle alterne vicende, fidanzato con la sua traduttrice coreana. Entrambe le coppie sono in crisi e per una casualità Paul e Mia si incontreranno, andando alla scoperta di una Parigi nascosta, sconosciuta ai turisti, battibeccando dalla prima all’ultima pagina in attesa del lieto fine. Sabato 17 settembre, Marc Levy è stato protagonista durante la serata finale della sesta edizione del TaoBuk International Book Festival, incontrando il pubblico alle ore 20 presso Piazza IX Aprile per presentare il suo ultimo romanzo “Lei & Lui”. Leggi il resto di questa voce

Philippe Djian: «Cerco semplicemente la lingua giusta per rappresentare il mio mondo».

Philippe Djian non è interessato alle storie. O meglio, al romanziere francese considerato l’ultimo erede della Beat Generation e divenuto celebre a livello internazionale grazie al grande successo ottenuto con 37°2 al mattino (da cui è stato tratto nel 1986 il film Betty Blue con Béatrice Dalle protagonista) ciò che importa davvero è l’uso della lingua, che dev’essere “declinata alla giusta frequenza” per rappresentare il suo punto di vista, il suo mondo. Djian ha ricevuto numerosi premi in patria fra cui il Jean Freustiè nel 2009 e diversi scrittori transalpini, fra cui Michel Houellebecq, lo considerano il proprio maestro. Ben diciotto anni dopo la sua pubblicazione, la casa editrice Voland prosegue la valorizzazione di questo autore di culto, pubblicando Assassini (pp. 208 euro 14), primo capitolo di una trilogia. Quì Djian trasporta in lettore con grande ritmo e dialoghi pungenti, nella piccola Hénochville, una cittadina di montagna sovrastata da una fabbrica che sta avvelenando il fiume della regione, donando ricchezza e al tempo stesso, morte. In una notte di pioggia torrenziale i protagonisti saranno costretti a fare i conti con se stessi mentre su loro incombe proprio il fiume, pronto ad una fatale esondazione.

“Lavoravo per un assassino”. Comincia così Assassini ma quanto è importante un buon incipit nell’economia del libro?

«Perché dovrei iniziare con un incipit noioso? Sarebbe assurdo, toglierebbe la voglia al lettore di continuare. È come nelle gare per i corridori, si inizia con un colpo di pistola poi se sono i 100 metri o è una maratona, si vedrà; come accendere una miccia, e poi la prima frase dà tutta l’atmosfera del romanzo. La prima frase è come il diapason che dà il là a un musicista ma poi bisogna tenere la nota altrimenti crolla tutto».

Anche in Assassini il sentimento dell’amicizia, il legame fra uomini adulti è centrale. Crede davvero in questo sentimento già decantato da Cicerone?

«Non credo nell’amicizia come a un sentimento privo di conflitti, un sentimento in cui c’è una comprensione totale. Per esempio nel mio ultimo romanzo (Oh…, edito da Gallimard in Francia ed ancora inedito in Italia) la protagonista va a letto con il marito della sua migliore amica ma nonostante ciò, il suo tradimento non toglie valore al sentimento d’amicizia. In realtà l’amicizia non è come quella idilliaca di Cicerone, l’amicizia è strana come la vita stessa d’altronde».

Marc afferma che forse abbiamo già passato il segno, che non è possibile rompere la catena produttiva e invertire il corso delle cose, salvando noi stessi e la Terra. È d’accordo?

«Sì, credo non ci sia ritorno. Forse inventeremo qualcosa che migliorerà un poco la situazione, del resto l’ingegno dell’uomo può trovare altre soluzioni per superare i problemi del nostro mondo ma non sono Nostradamus, non lo so davvero. Non credo che gli scrittori sappiano quello che succederà. A me non interessa neanche cosa succederà tra vent’anni. Oggi, almeno in Francia, tutti criticano l’OGM ma se non ci fosse l’OGM non ci sarebbe abbastanza da mangiare per tutti. Che fare? Il padre di José Bovè è uno scienziato e dice che suo figlio è un coglione e secondo lui bisogna sperimentare, andare avanti con la scienza, fare ricerca ma anche José Bovè ha le sue ragioni. Tempo fa mi hanno invitato in Irlanda a una conferenza il cui tema è la “decelerazione” ma non credo che nemmeno questa sia la soluzione. Oggi con lo sviluppo della Cina e di altri paesi, l’Occidente si preoccupa di quello che potrebbe accadere ma allo stesso tempo dopo aver fatto tutto quello che volevamo, noi occidentali come potremmo dire ai paesi in crescita: “non vi comprate tutti la macchina, non mangiate tutti la carne altrimenti il mondo scoppia”? Ma non so cosa risponderle, io sono solo uno scrittore».

Il legame fra produzione-lavoro-inquinamento è drammaticamente attuale a spese dell’ecosistema. In generale crede che l’uomo possa imparare dai suoi errori o sia destinato a ricadervi fatalmente?

«L’uomo impara, certo, ma ci ricasca sempre. Oggi sappiamo a cosa portano gli investimenti delle banche ma non facciamo niente contro. Ci ricadiamo puntualmente. L’uomo cerca la sua soddisfazione, il suo piacere a discapito degli altri. Oggi le banche investono sul grano e sappiamo benissimo a cosa porta questo ma non facciamo niente. Blythe Masters, ex JP Morgan, la donna più potente del mondo, definita dal “Guardian” come “la donna che ha inventato le armi finanziarie di distruzione di massa” ha messo su una società che investe solo su materie prime e non sono solo numeri, quelle sono popolazioni messe in ginocchio…»

Com’è nata l’idea di questa trilogia? Cosa ci aspetta nei prossimi due libri?

«L’idea della trilogia è molto semplice. Quando ho consegnato il romanzo all’editore Gallimard, mi ha detto che gli sarebbe piaciuto che il romanzo fosse stato più lungo e io gli ho subito risposto che in realtà quello era il primo romanzo di una trilogia. Il secondo volume che ho scritto non aveva nessun rapporto con il primo, è scrivendo il terzo che ho collegato tutto. Nel primo volume il protagonista racconta la storia delle persone che vivono sul lato destro del fiume, nel secondo racconta le storie del lato sinistro del fiume e nel terzo si capisce tutto. Le storie mi annoiano in realtà quello che mi interessa è la lingua. Nei miei libri affronto sempre temi esistenziali: la morte, la famiglia… Non parlo di attualità, come Aurelien Bellanger, o di cose vissute, come Christine Angot. Alla rentrée littéraire quest’anno sono praticamente il solo a non parlare di cose “vere”. Mi dicono che nel mio libro c’è una trama degna di Hitchock. Certo bisogna che la storia regga che attiri, che ci si industri, ma non è quello che mi interessa».

Ha dichiarato che, giovanissimo, dopo aver letto Il Giovane Holden, ha deciso di fare lo scrittore. Perché? Quale esigenza voleva soddisfare?

«Volevo semplicemente trovare la lingua giusta per rappresentare il mio mondo. È come alla radio quando si cerca la frequenza, a un certo punto trovi la frequenza giusta quella che funziona, così è la lingua. Nei miei libri in fondo racconto sempre le stesse storie, non c’è niente di particolare. Potrei dire che se fossi un regista sarei interessato alla posizione della telecamera, all’inquadratura. Quando scrivo è come se avessi un suono dentro, una lingua che parla dentro di me, poi si può scrivere quello che si vuole: gialli, storie d’amore, fantascienza; non ci sono generi minori ci sono solo scrittori minori».

Francesco Musolino

 

Fonte: La Gazzetta del Sud, ottobre 2012

Philippe Djian: «I giovani hanno voglia di vendicarsi»

Vendette (Voland edizioni; pp. 160), il nuovo romanzo di Philippe Djian è un libro lacerante, tanto da riuscire a farsi beffe del moralismo dominante nella società borghese non solo francese, capace di mostrare con chiarezza che le passioni, le emozioni, benché sopite sono ancora fortemente radicate nell’animo umano e possono irrompere nella vita quotidiana con un impatto devastante, facendosi beffe delle etichette sociali, travolgendo persino le amicizie più salde nel tempo, apparentemente granitiche. 

Djian – già autore di 37°2 al mattino, Imperdonabili Incidenze (tutti editi da Voland) – rende un esplicito tributo a Teorema di Pasolini con un romanzo che ci mette di fronte al dolore per la prematura perdita del proprio figlio che attanaglia Marc, scultore contemporaneo di grande successo, nella Parigi dei giorni nostri. Il baratro per la perdita e dell’autocommiserazione nel quale piomba rapidamente, renderà impossibile la sopravvivenza della sua storia d’amore con Élisabeth, decisa a non sopportare più il fardello del lutto. A quarantacinque anni, Marc piange Alexandre, il proprio figlio suicida, potendosi appoggiare solo sulla spalla di Michel e Anne, i suoi amici di sempre con i quali condivide un passato di azioni politiche ben poco ortodosse. Ma un giorno, nella sua vita piomba Gloria, la ragazza di suo figlio e Marc, sorprendendo tutti persino se stesso, la accoglie in casa. Una giovanissima, affascinante, imbronciata e incazzata lolita, viene ospitata in casa del padre del proprio ex e Marc, donnaiolo con una passione per la coca e l’alcool, è indeciso se questa sia una possibilità di redenzione o un castigo divino…

Qual è il suo personale rapporto con la vendetta?

«L’idea che sta alla base del romanzo è affrontare la vendetta e il perdono, anche se non li ho mai studiati in modo preciso. Un modo di analizzare questi sentimenti forti, che quando vengono interrotti portano alla rottura di legami. Io credo che sia meglio un legame violento piuttosto che non avere legami. I giovani hanno voglia di vendicarsi e questo è quello che prova Gloria, vuole portare il caos, come in Teorema di Pasolini ma al contrario».

Gloria afferma che il perdono è impossibile. Crede che il perdono sia possibile o che sia solo una facciata necessaria per la convivenza pacifica?

«Se dice che il perdono serve non è certo per ottenere un ambiente pacifico in cui vivere. Non c’è redenzione, ma piuttosto un’attitudine generale, non solo generazionale, verso un sentimento molle. Certamente non è bello basare le relazioni su questo tipo di sentimenti. Non è così semplice quando ti macchi di una qualsiasi colpa, venire perdonato. Se ti rompi una gamba, poi si aggiusta, ma resta sempre un punto debole. Gloria sa che deve vendicarsi e questo la tiene in vita, mentre il figlio di Marc si uccide, o forse è il suo modo di vendicarsi».

Qual è il suo rapporto con l’ispirazione letteraria? La attende o la insegue?

«Non esiste l’ispirazione, per fare della letteratura non si aspetta la grazia. La scrittura è un lavoro, bisogna scrivere, riscrivere, limare continuamente. L’ispirazione c’è solo nei film. Secondo me l’ispirazione non è una cosa da bravo scrittore».

Élisabeth dice a Marc che lasciarsi andare al dolore del lutto è inutile. Non le pare che l’elaborazione del lutto spesso sia più necessaria per la collettività, piuttosto che per chi ha subito la perdita?

«Non lo so, lei gli rimprovera che lasciarsi andare alla pena e alla tristezza è un modo di non affrontare il vero dolore. A volte si sviene per non affrontare il dolore. Ma il dolore del lutto è per chi resta, e per Marc sta nell’autoimpietosirsi che è quello che Elisabeth gli rimprovera».

Spesso si dice che l’opera d’arte sia un perfetto modo per scampare alla mortalità eppure le opere d’arte di Marc sembrano destinate all’autodistruzione. Crede nel potere salvifico dell’arte?

«No, appunto Marc sostiene il contrario e io penso lo stesso. Marc è un creatore che sa che il suo lavoro si distruggerà. Se credo che l’arte abbia un potere salvifico? No, non ce l’ha. Io non scrivo per essere salvato».

Leggendo “Vendette” si ha la sensazione che da un momento all’altro scopriremo tutto su Gloria, sul suo modo di fare e sulle sue misteriose compagnie. Al contrario lei sceglie con coraggio di mantenere molti punti interrogativi senza il classico punto di vista onnisciente.

«Penso che non c’erano dei lati della personalità di Gloria che mi interessassero tanto. Lei riesce a rompere l’amicizia tra i tre, poi finisce massacrata ma da un personaggio che non c’entrava niente con loro, in tutt’altra situazione. Gli altri suoi coetanei sono come dei suoi cloni con cui Marc non riesce neanche a comunicare, non parlano neanche la stessa lingua. È la ragazza alla fine che dice a Marc di andare dal suo amico, quindi anche se non c’è più Gloria lo stesso sentimento viene portato avanti perché le armi di Gloria e dei suoi amici sono più forti, come in Teorema il meccanismo è inesorabile».

Infine le giro una considerazione che Anne rivolge a Marc: fare sesso orale è tradire?

«Ma cosa vuol dire tradire? Negli Stati Uniti c’è stata tutta una teoria Clinton sulla differenza del sesso orale… Ma cosa vuol dire tradire. Fai male all’altro? no. Tradire è andare a denunciare un ebreo ai tedeschi. Se pensi che tradisci, allora tradisci. Ci sono a volte sguardi che tradiscono di più. Ti rendi disponibile all’altro e quindi già tradisci. Quando ero giovane ero molto geloso, certo non mi piace pensare che la mia compagna stia con un altro…

Francesco Musolino

Fonte: Satisfiction

Giulio Minghini: «Sono fuggito dall’Italia e non ho nessuna intenzione di farvi ritorno»

Febbre (edito da Piemme) è il libro d’esordio (con tanto di paragone eccellente: Michel Houellebecq) di Giulio Minghini, giovane e traduttore stimato per Adelphi, che ha scosso la critica francese con un romanzo sul gioco degli specchi virtuali della rete, dove feticismo e timidezza si mescolano pericolosamente fra la ricerca di sesso appagante e quello dell’anima gemella, spesso con risultati sorprendenti, attraverso Pointcommuns, un sito di ricerca dell’anima gemella tramite le affinità elettive. Minghini tramite Delacero – il suo alter ego virtuale – va diretto al bersaglio, aggressivo sui temi soci-politici e scevro della morale da canonica ormai consueta nei giovani romanzieri che vorrebbero provocare senza scioccare, non lesina giudizi ma non nasconde la mano.

Pubblicato in Francia da Editions Allia riscuotendo gran successo, Febbre esce finalmente in Italia.

Perché ha scritto il suo romanzo in francese?

Devo molto alla Francia, paese in cui ho vissuto metà della mia vita e che mi ha insegnato parecchi trucchi. Volevo sdebitarmi scrivendo un libro sulla mia Parigi, nella lingua che mi ha adottato – il francese appunto.

All’esordio la paragonano nientemeno che ad Houellebecq. É un paragone che la lusinga o la infastidisce?

Houellebecq è uno scrittore che ha saputo descrivere la società francese e occidentale degli ultimi trenta, quarant’anni come nessun altro.

Il suo bersaglio preferito sono i bobò e i loro profili imbottiti di “citazioni intellettualoidi”: secondo lei perché ci si rifugia nel web?

La parola senza volto, gli scambi virtuali, le chat notturne rappresentano il coro inudibile e segreto delle nostre fantasie più nascoste. Un mondo parallelo, sconfinato, eccitante e angoscioso, libero e liberatorio.

Il rapporto del suo protagonista con i suoi alter ego è controverso. Nasce come una provocazione contro il bigottismo dei moderatori ma poi la situazione gli sfugge di mano…

Sempre più preso dal gioco degli incontri, il protagonista finisce per sprofondare in una potente allucinazione che lo porta a moltiplicarsi attraverso false identità (fake), autentici personaggi di una commedia mentale il cui copione, a mano a mano che il libro avanza, si fa sempre più accecante, illeggibile e pericoloso.

“Un paese governato dal peggi­o. L’Avanguardia stessa del peggio”. I suoi giudizi sull’Italia e sulla classe politica attuale non lasciano dubbi. Che futuro vede per il Belpaese?

Per l’Italia vedo un eterno presente fatto di indecenti risate, rassegnazione, impotenza, corruzione generalizzata, ignoranza crescente, barbarie.

Il peso del Vaticano lo avverte ancor di più guardando l’Italia da Oltralpe?­

Da quando avevo sei o sette anni, mi sono sempre chiesto perché non ci sia ancora decisi a mettere a fuoco e fiamme il Vaticano, luogo perniciosissimo per i grandi e spaventevole per i piccini.

Secondo lei oggi urterebbe ancora la morale affermare che il suo Delacero sul web cerca “soltanto” il piacere, la perdizione e l’estasi sessuale?

Non avendo una nozione precisa di morale, non so rispondere a questa domanda.

Come mai non ha tradotto lei stesso il suo romanzo?

L’editore francese e quello italiano me lo hanno sconsigliato. Sbagliando.

Ma quanto c’è di autobiografico in Febbre?

Febbre nasce evidentemente dalle mie esperienze, che sono in parte esposte nella loro stravagante nudità e in parte deformate. Esistono poi, nel libro, episodi del tutto inventati, pure divagazioni romanzesche, congetture visionarie.

Giulio lei tornerebbe in Italia domani?

In Italia forse no, ma a Portomaggiore, il paese dei matti dove sono nato e dal quale sono scappato certamente sì. Qualche giorno almeno, all’epoca delle dense nebbie, in novembre ad esempio. Per girare un documentario sul vuoto atroce e grottesco della provincia italiana.

Giulio Minghini è nato in Italia, si è trasferito giovanissimo a Parigi. Lettore e traduttore dal francese e dallo spagnolo, collabora con diverse case editrici, tra cui Adelphi, che gli ha affidato autori del calibro di Georges Simenon.

Chi è davvero Luca Cordero di Montezemolo?

Stefano Feltri

Stefano Feltri

Tutti lo tirano per la giacchetta e per molti potrebbe essere il salvatore della patria in un momento in cui le ideologie sono in piena crisi e troppo spesso si parla di necessarie convergenze. Ma chi è davvero Luca Cordero di Montezemolo? L’imprenditore bolognese, classe ’47, attuale presidente della Ferrari s.p.a, ex presidente della Luiss e di Confindustria e attuale presidente di NTV (Nuovo Trasporto Ferroviario), sembra ormai prossimo a scendere in pista e ad impegnarsi politicamente in prima persona, come conseguenza diretta della sua creatura Italia Futura. Ma quest’uomo capace di affascinare le masse e di figurare come possibile alternativa tanto per la destra che per la sinistra, come ha costruito la sua fortuna. Leggi il resto di questa voce