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«Sono un artigiano della parola». Intervista a Marc Levy.

Marc Levy

Marc Levy

Marc Levy è il romanziere francese più letto al mondo. Basterebbe questa affermazione, tradotta in trentacinque milioni di copie, per intendere al volo la caratura del personaggio, il valore della sua scrittura, l’amore che i suoi lettori gli tributano ad ogni latitudine. Ma come spesso accade, ciò che colpisce maggiormente dei grandi autori è la loro disponibilità, l’ascolto del proprio pubblico (anche) mediante i social, l’impegno per cause nobili – Levy ha lavorato per la Croce Rossa e Amnesty International – e la capacità di ampliare il proprio sguardo, affrontando anche i temi dell’attualità. Di recente è tornato in libreria con il suo nuovo romanzo, il sedicesimo, “Lei & Lui” (Rizzoli, pp.350 euro 18) in cui racconta, con ironia e leggerezza, una storia d’amore, una commedia romantica sbarazzina ovvero il ritorno in pagina di Mia e Paul, richiamando il suo romanzo d’esordio, “Se solo fosse vero”. Lei è un’attrice inglese di successo con un matrimonio infelice, Lui uno scrittore dalle alterne vicende, fidanzato con la sua traduttrice coreana. Entrambe le coppie sono in crisi e per una casualità Paul e Mia si incontreranno, andando alla scoperta di una Parigi nascosta, sconosciuta ai turisti, battibeccando dalla prima all’ultima pagina in attesa del lieto fine. Sabato 17 settembre, Marc Levy è stato protagonista durante la serata finale della sesta edizione del TaoBuk International Book Festival, incontrando il pubblico alle ore 20 presso Piazza IX Aprile per presentare il suo ultimo romanzo “Lei & Lui”. Leggi il resto di questa voce

Una, nessuna e centomila Milano. Alessandro Robecchi si racconta

Alessandro Robecchi

Alessandro Robecchi

Dopo il felice esordio nella noir con “Questa non è una storia d’amore”, Alessandro Robecchi ritorna in libreria con “Dove sei stanotte” (Sellerio, pp.350 €14). Carlo Monterossi, autore televisivo di successo con la sua tv-spazzatura, si ritrova invischiato in un altro pasticcio: gli toccherà ancora una volta vestire i panni dell’investigatore per tirarsene fuori, al contempo preda e cacciatore, sempre sotto l’occhio vigile dei suoi angeli custodi. Robecchi – milanese classe ’60, giornalista, autore televisivo di successo per Maurizio Crozza e già caporedattore presso il giornale satirico “Cuore” – riporta il lettore nella sua Milano, fra il Salone del Mobile e i faraonici numeri dell’Expo, ma anziché fermarsi nei tipici scenari turistici, si inoltra nelle periferie ricche di speranza e immigrazione, lontano dai riflettori della «capitale morale d’Italia». Alessandro Robecchi è stato recentemente protagonista in Sicilia partecipando alla fiera dell’editoria “Una Marina di Libri” di Palermo e al festival “A tutto volume” a Ragusa.  Leggi il resto di questa voce

Stefano Piedimonte: «Dobbiamo imparare a ridere della camorra»

I maestri dell’ironia, da Charlie Chaplin a Ennio Flaiano senza dimenticare P.G. Wodehouse e Woody Allen, ci hanno insegnato che si può sorridere di tutto, soprattutto delle tragedie umane, basta trovare la giusta chiave di lettura. E allora perché non si dovrebbe ridere anche della camorra? Partendo da questo assunto, gli scrittori Roberto Saviano e Stefano Piedimonte – entrambi campani doc – saranno in scena alla rassegna Pordenonelegge, sabato 21 settembre con l’incontro-dibattito “Comicamorra. Come i clan non vogliono essere raccontati”. L’amicizia fra i due autori oggi è solida, galeotto fu proprio il libro d’esordio di Piedimonte, “Nel nome dello zio” che Saviano recensì felicemente su Facebook. La Gazzetta del Sud ha intervistato Stefano Piedimonte, appena tornato in libreria con “Voglio solo ammazzarti”, anche questo edito dalla casa editrice Guanda, guidata da Luigi Brioschi (pp. 256 Euro 16). Si tratta del brillante seguito delle avventure delle grottescamente-comiche dello Zio, un boss della camorra con una passione per il Grande Fratello, che ritroviamo rinchiuso nel carcere di Poggioreale, affettuosamente ribattezzato “Poggi-Poggi” da Piedimonte.

Stefano c’è grande interesse per Comicamorra, ma com’è nata l’amicizia con Roberto Saviano?

«Dopo l’uscita del primo libro, decidemmo di farlo avere a Roberto Saviano e lui rispose con un sincero e forte apprezzamento. A quel punto colsi la palla al balzo e, in buona sostanza, gli chiesi di combattere la mia battaglia al mio fianco. A distanza di pochi giorni, scrisse un lungo pezzo su Facebook e devo dire che le sue parole mi hanno quasi commosso. Oggi fra noi c’è uno splendido rapporto e così è nato anche questo incontro che si terrà a Pordenone».

Di cosa si tratta?

«Nel tempo abbiamo raccolto storie che parlano di boss e criminali da strapazzo e abbiamo pensato di montarci dei dialoghi. Siamo molto curiosi di vedere come reagirà la gente, se sarà disposta a ridere della camorra, in fondo la nostra è anche una scommessa, un salto nel buio».

Pensi che si possa ridere della camorra?

«Sì, anzi, penso che si debba farlo. La considerazione di cui godono questi personaggi è basata tutto sul timore che infondono ma se si riesce a far capire che oltre ad essere capaci delle più basse nefandezze sono anche dei coglioni sarà anche più facile non subirne alcuna fascinazione».

Dopo dieci anni da giornalista, come hai vissuto il passaggio al mondo del romanzo?

«In realtà ho messo piede per la prima volta in una redazione giornalistica con il preciso scopo di diventare un romanziere. Sin da piccolo ho sempre scritto brevi racconti e pensavo che diventando giornalista, piano piano, avrei potuto allacciare contatti con editori e case editrici. Ovviamente dopo dieci anni non conoscevo proprio nessuno…»

E poi?

«Scrissi un libricino per un editore locale ma gli chiesi di pubblicarlo anche in ebook. Avevo ben chiaro che solo così c’era qualche chance che fosse letto al di fuori della sua catene di librerie. In poco tempo scalò le classifiche di BookRepublic e venni notato da un agente letterario, Maria Cristina Guerra, che mi propose di rappresentarmi. All’epoca lavoravo ancora al giornale e dopo appena dodici giorni dalla consegna del manoscritto di Nel nome dello Zio, lei mi richiamò e mi disse “Stefano, da quale editore vorresti essere pubblicato?”. Credevo scherzasse e invece erano arrivate ben cinque proposte di pubblicazione…e così scegliemmo Guanda».

C’è un consiglio che vorresti riservare agli aspiranti scrittori?

«Pochi considerano il fatto che la cosa più importante non è l’editore che ti pubblica ma quanto crede e decide di investire nel tuo libro. Se manca la promozione stampa, se mancano la spinta e la fiducia, tutto il resto non conta nulla».

Il tuo secondo libro, “Voglio solo ammazzarti” è uscito ieri in libreria. Ma c’è un curioso antefatto…

«Ancor prima che “Nel nome dello zio” venisse pubblicato, avevo già cominciato a scrivere questo libro, il suo sequel. Appena il mio agente lo seppe, rimase senza parole, perché poteva essere tutto tempo perso. E invece, a mio avviso, il suo tratto vincente è il fatto che sia ancor più spontaneo. Certamente nessuno potrà accusarmi di aver fatto un’operazione di marketing».

In pagina porti personaggi grottescamente unici come Stiv Ciops – un curioso programmatore – e Gennaro detto Marelièr, che di professione fa il degustatore di mare. Ma soprattutto ritorna il boss, lo Zio…

«Ho cominciato subito a scrivere questo secondo libro perché convinto che lo Zio avesse ancora delle cose da dire e su pagina lo ritroviamo rinchiuso a Poggioreale, a Poggi-Poggi. Lui è “libero” anche in carcere grazie ai suoi soldi ma deve evadere per andare a regolare dei conti in sospeso con chi l’ha tradito e lungo la strada incontra una serie di personaggi stravaganti…».

Ma se un giorno trovassero un tuo libro in un covo di un boss, saresti sorpreso?

«Certo, credo che sarebbe più facile trovarci i libri di Saviano o magari dei saggi, insomma libri basati su fatti reali. Non perché sono dei lettori accaniti ma perché immagino che siano incuriositi di cosa si scrive di loro».

Stefano sei già tornato al lavoro?

«Sì, sto scrivendo un nuovo libro ma stavolta la camorra e la criminalità organizzata non ci saranno affatto. Ho affrontato la sfida di creare un luogo di fantasia, con strade negozi e persone inventate da me, un luogo in cui c’è tanta solidarietà ma anche molta cialtroneria e forti rancori…».

Francesco Musolino®

Fonte: La Gazzetta del Sud, sabato 21 settembre

«Chi conosce davvero la Corea del Nord?». Intervista ad Adam johnson (Premio Pulitzer, 2013)

La prima volta che Adam Johnson è riuscito a varcare la frontiera della Corea del Nord, l’ha fatto spacciandosi per l’aiutante di un uomo che doveva occuparsi di alcune piantagioni di mele in quel misterioso paese. Comincia così, con un escamotage degno di un romanzo spionistico, il viaggio dello scrittore statunitense Adam Johnson in uno delle nazioni più oscure dei nostri giorni, dominata da una dittatura totalitaria e dall’odio verso gli Stati Uniti, emblema del marcio imperialismo occidentale. Ha impiegato sette anni di severe ricerche per capire una realtà impenetrabile, sempre al centro delle speculazioni e dei complotti politici e mentre il suo libro prendeva forma, accanto al protagonista, il giovane Pak Jun Do, l’autore ha voluto mettere nel libro anche il defunto dittatore Kim Jong-il, il “caro leader” (scomparso nel dicembre del 2011) e le sue notevoli stranezze. Il bel libro di cui stiamo parlando è “Il Signore degli Orfani” (Marsilio, pp. 560 euro 21, traduzione di Fabio Zucchella) con cui Johnson ha recentemente vinto il prestigioso premio Pulitzer, permettendo, a noi lettori di qualsiasi latitudine, di cominciare squarciare il sipario su un paese in cui rapimenti, sevizie e torture sono all’ordine del giorno. Un libro che ha un effetto straniante, capace di trasportare il lettore in una realtà distorta e capovolta, al fine di farci comprendere cosa significhi vivere in un paese da oltre 24 milioni di abitanti, in cui non esiste nemmeno una libreria. Recentemente Adam Johnson era a Capri per il festival letterario Conversazioni e ha accettato di rispondere alle nostre domande.

Mr. Johnson, cosa significa aver vinto il Premio Pulitzer?
«In realtà ancora non l’ho capito. Credo mi serva del tempo per metabolizzare. Posso senz’altro dire che sono felice che in questo modo si parlerà di più della Corea del Nord, per cui più del premio fine a se stesso, mi sta a cuore il fatto che i lettori possano finalmente cominciare a conoscere la realtà di questo paese e capire cosa significa vivere sotto l’egida della propaganda».

Il suo stile è stato definito dal New York Times come “una sorta di realismo magico dove la realtà supera la finzione”. Perché ha scelto questa tecnica narrativa?
«Realismo magico? Questa è una buona domanda. In realtà ho cercato di essere il più realista possibile ma volevo narrare la Corea del Nord con gli occhi e la voce di un suo cittadino e si tratta di qualcosa di molto lontano e diverso dal mondo occidentale che conosciamo. Adottando quel punto di vista è venuto fuori una narrativa assurda, surreale e per l’appunto, persino magica in certi momenti».

Il dittatore Kim Jong-il è uno dei personaggi centrali del suo libro. Alla sua morte molti pensarono che avremmo scoperto tutto di lui e invece…
«Verissimo. Alla morte di Saddam Hussein o Gheddafi, il dittatore invincibile ha lasciato il posto ad un cadavere e le telecamere sono entrate nelle loro stanze, nelle loro regge, svelandone le umane debolezze. E Kim Jong-il? Lui è morto ma non abbiamo visto il corpo, né si sa di cosa sia effettivamente morto. Per scrivere questo libro ho fatto molto ricerche anche su lui, scoprendo, ad esempio, la sua passione per le moto d’acqua e per il sushi ma soprattutto che ha rapito Choe Eun-hui, una star del cinema sudcoreano, e Shin-Sang Ok, il suo consorte nonché apprezzato regista. Li imprigionò a Pyongyang per due anni fin quando non hanno accettato di girare la versione comunista di Godzilla, Pulsagari. Ecco, se dovessi immaginare un dittatore capace di rinchiudersi in un bunker e da lì sotto, osservare il regno del figlio, Kim Jong-un, questo sarebbe senz’altro Kim Jong-il».

Cosa l’ha colpita di più della Corea del Nord?
«In Corea del Nord nessuno si può permettere di essere ironico. Non ci sono sottintesi in quello che ci si dice. Non esistono librerie e nessuno legge libri da sessant’anni. Esiste una sola storia ufficiale e nessuno dei 24 milioni di abitanti della Corea del Nord, sa cosa accada nel mondo, là fuori. Sanno solo quello che gli raccontano e ogni casa ha una radio accesa e sintonizzata su una frequenza che trasmette continuamente i messaggi de “il caro leader” e chi la spegne… rischia guai seri».

C’è una famosa immagine della Corea del Nord vista dal satellite e praticamente al buio cui fa da contraltare quella della Corea del Sud e degli Usa in un tripudio di luci. C’è una lezione che il mondo occidentale dovrebbe apprendere?
«Fa davvero impressione vedere cosa sono costrette a fare le persone pur di sopravvivere in Corea del Nord. Vivono in enormi stanzoni con una minuscola lampadina, costretti a conservare persino le proprie feci per poterle riutilizzare come fertilizzante. Anche in Corea del Nord ci sono scale mobili nei musei ma mi ha colpito il fatto che appena arrivati in cima, si debba premere un interruttore per disattivarle. Non posso non pensare alle nostre scale mobili, che girano e girano a vuoto e mi chiedo a cosa serva tutto questo spreco di energia, a cosa serva tenere accese tutte le luci per brillare persino dallo spazio…».

Francesco Musolino®
Fonte: La Gazzetta del Sud – 11 luglio 2013