Archivi Blog
La Scuola Holden sbarca a Messina!

Per la prima volta la Scuola Holden sbarca in città.
Raccontarsi: scalare l’iceberg, strappare il sipario, lasciare affiorare l’ignoto dell’inconscio, trovare le parole per descrivere ciò che si sente e chi si è davvero, osando sfidare i propri tabù, senza mai perdere il controllo della narrazione.
Grand Tour: Messina, è il corso che terrò in partnership con la libreria La Gilda dei Narratori – Ubik Messina.
Tre sabati consecutivi – 26 marzo, 2 e 9 aprile – in mezzo alle parole, fra tecnica, esercizi e letture.
Raccontarsi è un bisogno naturale, un’immersione nel mondo delle parole, andando alla ricerca di un proprio stile e di una voce, necessaria ma non necessariamente sincera.
#HoLettoCose – Onora il babbuino (Michele Dalai, Feltrinelli, 2015)
#HoLettoCose – Onora il babbuino (Michele Dalai, Feltrinelli, 2015)
Che libro ha scritto Michele Dalai? Faccio subito un passo indietro. Dalai è un omone con la barba e il sorriso buono. Potete seguirlo in tv o su twitter. Oppure no. Anche se è interista e non è bello dire certe cose perché è facile farsi una cattiva idea delle persone. Ma c’è una cosa che lo rende speciale: Michele Dalai è un editore – di quelli veri – e già il semplice fatto di credere nei libri in un simile momento, mettendoci la faccia e non solo, credo meriti un applauso. Ma a dirla tutta c’è un’altra cosa che gli fa onore.
Philippe Djian: «Cerco semplicemente la lingua giusta per rappresentare il mio mondo».
Philippe Djian non è interessato alle storie. O meglio, al romanziere francese considerato l’ultimo erede della Beat Generation e divenuto celebre a livello internazionale grazie al grande successo ottenuto con 37°2 al mattino (da cui è stato tratto nel 1986 il film Betty Blue con Béatrice Dalle protagonista) ciò che importa davvero è l’uso della lingua, che dev’essere “declinata alla giusta frequenza” per rappresentare il suo punto di vista, il suo mondo. Djian ha ricevuto numerosi premi in patria fra cui il Jean Freustiè nel 2009 e diversi scrittori transalpini, fra cui Michel Houellebecq, lo considerano il proprio maestro. Ben diciotto anni dopo la sua pubblicazione, la casa editrice Voland prosegue la valorizzazione di questo autore di culto, pubblicando Assassini (pp. 208 euro 14), primo capitolo di una trilogia. Quì Djian trasporta in lettore con grande ritmo e dialoghi pungenti, nella piccola Hénochville, una cittadina di montagna sovrastata da una fabbrica che sta avvelenando il fiume della regione, donando ricchezza e al tempo stesso, morte. In una notte di pioggia torrenziale i protagonisti saranno costretti a fare i conti con se stessi mentre su loro incombe proprio il fiume, pronto ad una fatale esondazione.
“Lavoravo per un assassino”. Comincia così Assassini ma quanto è importante un buon incipit nell’economia del libro?
«Perché dovrei iniziare con un incipit noioso? Sarebbe assurdo, toglierebbe la voglia al lettore di continuare. È come nelle gare per i corridori, si inizia con un colpo di pistola poi se sono i 100 metri o è una maratona, si vedrà; come accendere una miccia, e poi la prima frase dà tutta l’atmosfera del romanzo. La prima frase è come il diapason che dà il là a un musicista ma poi bisogna tenere la nota altrimenti crolla tutto».
Anche in Assassini il sentimento dell’amicizia, il legame fra uomini adulti è centrale. Crede davvero in questo sentimento già decantato da Cicerone?
«Non credo nell’amicizia come a un sentimento privo di conflitti, un sentimento in cui c’è una comprensione totale. Per esempio nel mio ultimo romanzo (Oh…, edito da Gallimard in Francia ed ancora inedito in Italia) la protagonista va a letto con il marito della sua migliore amica ma nonostante ciò, il suo tradimento non toglie valore al sentimento d’amicizia. In realtà l’amicizia non è come quella idilliaca di Cicerone, l’amicizia è strana come la vita stessa d’altronde».
Marc afferma che forse abbiamo già passato il segno, che non è possibile rompere la catena produttiva e invertire il corso delle cose, salvando noi stessi e la Terra. È d’accordo?
«Sì, credo non ci sia ritorno. Forse inventeremo qualcosa che migliorerà un poco la situazione, del resto l’ingegno dell’uomo può trovare altre soluzioni per superare i problemi del nostro mondo ma non sono Nostradamus, non lo so davvero. Non credo che gli scrittori sappiano quello che succederà. A me non interessa neanche cosa succederà tra vent’anni. Oggi, almeno in Francia, tutti criticano l’OGM ma se non ci fosse l’OGM non ci sarebbe abbastanza da mangiare per tutti. Che fare? Il padre di José Bovè è uno scienziato e dice che suo figlio è un coglione e secondo lui bisogna sperimentare, andare avanti con la scienza, fare ricerca ma anche José Bovè ha le sue ragioni. Tempo fa mi hanno invitato in Irlanda a una conferenza il cui tema è la “decelerazione” ma non credo che nemmeno questa sia la soluzione. Oggi con lo sviluppo della Cina e di altri paesi, l’Occidente si preoccupa di quello che potrebbe accadere ma allo stesso tempo dopo aver fatto tutto quello che volevamo, noi occidentali come potremmo dire ai paesi in crescita: “non vi comprate tutti la macchina, non mangiate tutti la carne altrimenti il mondo scoppia”? Ma non so cosa risponderle, io sono solo uno scrittore».
Il legame fra produzione-lavoro-inquinamento è drammaticamente attuale a spese dell’ecosistema. In generale crede che l’uomo possa imparare dai suoi errori o sia destinato a ricadervi fatalmente?
«L’uomo impara, certo, ma ci ricasca sempre. Oggi sappiamo a cosa portano gli investimenti delle banche ma non facciamo niente contro. Ci ricadiamo puntualmente. L’uomo cerca la sua soddisfazione, il suo piacere a discapito degli altri. Oggi le banche investono sul grano e sappiamo benissimo a cosa porta questo ma non facciamo niente. Blythe Masters, ex JP Morgan, la donna più potente del mondo, definita dal “Guardian” come “la donna che ha inventato le armi finanziarie di distruzione di massa” ha messo su una società che investe solo su materie prime e non sono solo numeri, quelle sono popolazioni messe in ginocchio…»
Com’è nata l’idea di questa trilogia? Cosa ci aspetta nei prossimi due libri?
«L’idea della trilogia è molto semplice. Quando ho consegnato il romanzo all’editore Gallimard, mi ha detto che gli sarebbe piaciuto che il romanzo fosse stato più lungo e io gli ho subito risposto che in realtà quello era il primo romanzo di una trilogia. Il secondo volume che ho scritto non aveva nessun rapporto con il primo, è scrivendo il terzo che ho collegato tutto. Nel primo volume il protagonista racconta la storia delle persone che vivono sul lato destro del fiume, nel secondo racconta le storie del lato sinistro del fiume e nel terzo si capisce tutto. Le storie mi annoiano in realtà quello che mi interessa è la lingua. Nei miei libri affronto sempre temi esistenziali: la morte, la famiglia… Non parlo di attualità, come Aurelien Bellanger, o di cose vissute, come Christine Angot. Alla rentrée littéraire quest’anno sono praticamente il solo a non parlare di cose “vere”. Mi dicono che nel mio libro c’è una trama degna di Hitchock. Certo bisogna che la storia regga che attiri, che ci si industri, ma non è quello che mi interessa».
Ha dichiarato che, giovanissimo, dopo aver letto Il Giovane Holden, ha deciso di fare lo scrittore. Perché? Quale esigenza voleva soddisfare?
«Volevo semplicemente trovare la lingua giusta per rappresentare il mio mondo. È come alla radio quando si cerca la frequenza, a un certo punto trovi la frequenza giusta quella che funziona, così è la lingua. Nei miei libri in fondo racconto sempre le stesse storie, non c’è niente di particolare. Potrei dire che se fossi un regista sarei interessato alla posizione della telecamera, all’inquadratura. Quando scrivo è come se avessi un suono dentro, una lingua che parla dentro di me, poi si può scrivere quello che si vuole: gialli, storie d’amore, fantascienza; non ci sono generi minori ci sono solo scrittori minori».
Francesco Musolino
Fonte: La Gazzetta del Sud, ottobre 2012