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Massimo Maugeri: «Scrivere è l’atto di massima libertà possibile»
Fa parte dei “nuovi” membri della giuria del premio Strega. Il suo nome richiama una puntuale e appassionata comunicazione letteraria sul web mediante Letteratitudine, il suo seguitissimo blog. Ha la passione della scrittura e in pagina porta sovente la sua terra, la nostra terra, e i corto circuiti della contemporaneità. Il suo nuovo romanzo, “Trinacria Park”, è edito nell’interessante collana Sabot/Age curata da Colomba Rossi (ideata da Massimo Carlotto) per le Edizioni E/O. Stiamo chiaramente parlando di Massimo Maugeri che con questo libro segna un salto di qualità stilistico e il passaggio al genere noir, con un libro dai forti tratti metaforici che richiama l’importanza del Mito e non esita a denunciare le brutture della Sicilia…
Com’è nata l’idea di Trinacria Park?
«In maniera piuttosto semplice. Ho immaginato una piccola isola siciliana deturpata dall’edilizia selvaggia e dall’industria siderurgica, e ho immaginato un piano di riconversione fondato sulla realizzazione di un enorme parco tematico: il “Trinacria Park”. Un parco talmente grande da ambire a superare – per fama – l’Eurodisney di Parigi. L’idea è nata così. E da qui è nata la storia…»
Questo libro segna l’approdo ad una casa editrice di primo piano in una fra le collane editoriali più interessanti. Trinacria Park, a ben vedere, vi si colloca perfettamente poiché la menzogna e il suo necessario disvelamento sono alla base del tuo libro…
«Assolutamente sì. “Trinacria Park” è stato accolto all’interno della collezione Sabot/Age delle edizioni e/o: una collana diretta da Colomba Rossi e curata da Massimo Carlotto e che tra le tematiche prevalenti di cui si occupa c’è, appunto, il “tema della menzogna” (che è il tema centrale di “Trinacria Park”). All’interno del parco, e dell’isola, per un motivo o per l’altro, tutti fingono. La storia si dipana nel mezzo di interessi contrapposti, sopra cumuli di bugie dissimulate dai fasti mediatici che ruotano intorno a un grande sogno… che però è solo apparenza. Nulla è come sembra al “Trinacria Park”. Ma non c’è solo questo. Ci sono le storie dei tanti personaggi che popolano questo romanzo. Ciascuno di loro compie un percorso che incrocia inevitabilmente la tragedia collettiva consumata all’interno del parco. A partire da Manuel Vetri: un attore balbuziente che smette di tartagliare appena si accende l’occhio della telecamera, e che scoprirà verità che lo riguardano solo alla fine del percorso».
Interessante e suggestivo il collegamento fra le tre donne e le tre Gorgoni. Perché hai voluto questo parallelismo, questo gioco di rimandi che lega passato e presente?
«Perché sentivo l’esigenza di inserire una componente mitologica e visionaria all’interno di questa storia. Credo che il Mito, oggi, sia il grande assente della nostra letteratura. E credo sia giunto il momento di tornare a ridargli spazio. A mio modo di vedere la componente mitologico/visionaria agisce di più sull’inconscio e dunque (in un momento di grande bombardamento mediatico e di flussi di notizie che ci investono senza soluzione di continuità) può consentire – paradossalmente – di raccontare una storia in modo più incisivo. Nel corso della narrazione si crea un parallelismo tra le vicende dei tre principali personaggi femminili e le tre Gorgoni: la giornalista Marina Marconi viene accostata a Steno (detta “la forte”); alla direttrice del parco, la produttrice cinematografica statunitense Monica Green, si affianca la figura di Euriale (detta “la spaziosa”); la giovane attrice Angela Metis si ritrova a incarnare il mito di Medusa (“la distruttrice”)».
Un altro personaggio significativo è Gregorio Monti. Con lui emergono delle considerazioni sull’Isola, seviziata, malgovernata e stuprata…
«Gregorio Monti è il direttore artistico del parco. È un uomo di teatro. Un siciliano che ha lasciato l’isola e che ha fatto fortuna all’estero, approdando anche a Broadway. Lui incarna una serie di contraddizioni e di paradossi, a partire da quello che chiama “effetto isola”: un miscuglio di sensazioni contrastanti che prova ogni volta che torna o si allontana dal suo luogo di origine: un senso di fastidio frammisto a una componente di nostalgia».
Allargando l’occhio alla tua intera opera, le contraddizioni della modernità ti hanno sempre affascinato. In questo senso la scrittura si fa denuncia o piuttosto cartina di tornasole per evidenziare le brutture, i corto circuiti del nostro tempo?
«Entrambe le cose. In tal senso credo che la letteratura sia tutt’altro che morta. Al contrario, si trasforma in opportunità e urgenza. Ritengo che ne dia dimostrazione l’intera collezione Sabot/Age, che offre una potente suggestione: quella di una letteratura di sabotaggio fondata sul simbolo del “sabot”… lo zoccolo di legno che gli operai, ai tempi della rivoluzione industriale, lanciavano contro gli ingranaggi della macchina per arrestarne il meccanismo quando erano stremati. “Noi siamo esausti della menzogna che ci opprime”, dice Massimo Carlotto».
Da anni con Letteratitudine ti sei reso megafono della cultura e della scrittura in Italia. Invertendo il flusso delle domande, passando da intervistatore ad intervistato, ti chiedo: cosa significa per te l’atto della scrittura?
«Per me l’atto della scrittura coincide con l’atto della massima libertà. Ma è anche un atto di forte condivisione. E questo vale per tutte le grandi storie. Lo scrittore invita il lettore a intraprendere un viaggio, a condividere un’esperienza che oltrepassa le barriere dello spazio e del tempo. Spero che il viaggio offerto da “Trinacria Park” sia uno di quelli meritevoli di essere intrapresi».
Francesco Musolino®
Fonte: Tempostretto.it del 19 aprile 2013
Baricco ritorna e conquista con il suo “Mr Gwyn”
La lista degli scrittori che hanno discettato sulla propria arte è davvero lunga e composita – spaziando da Oz a King, da Carver a Vargas Llosa – e per tale motivo non è ingiusto avvicinarsi a Mr Gwyn (Feltrinelli; pp. 160; €14), il nuovo romanzo di Alessandro Baricco, con qualche pregiudizio.
Invece Mr Gryn potrebbe, a ragion veduta, essere il miglior romanzo dello scrittore torinese nonché fondatore della Scuola Holden, poiché finalmente la sua prosa barocca si è asciugata e contratta e lì dove si potevano trovare orpelli e descrizioni curate all’infinitesimo dettaglio, qui troviamo un armonioso fluire narrativo che, talvolta, cede persino alla grevità dei bisogni corporali ordinari. Una vera rivoluzione nella scrittura, dunque, un traguardo raggiunto e superato con decisione che probabilmente gli permetterà di conquistare anche una fascia di lettori alienati da una ricerca, talvolta sopra le righe, dell’aulicità. Jasper Gwyn, il protagonista, è uno scrittore che gode di una buona fama che, d’un tratto, si rende conto di non avere più alcuna intenzione di continuare a scrivere e pubblicare libri e per renderlo definitivo, firma una lettera al Guardian dove chiarisce le 52 cose che non farà più, comprese le foto con aria pensosa tanto care alle quarte di copertina. Ciò che lo assorbiva lo stava anche uccidendo ma sacrificando il suo principale talento, la sua vita stessa traballa e dopo un lungo periodo di solitario relax, Jasper Gwyn non sa come riempire le proprie giornate donando loro un senso.
Ma una serie di coincidenze gli permetterà di inforcare una nuova via mediante la quale la scrittura, adesso piegata al suo bisogno, dovrà riemergere con maggiore purezza: Jasper Gwyn farà il copista. Di persone.Trovare un luogo adatto – l’elenco dettagliato dei criteri per il nuovo studio e la ricerca della luce perfetta sono pagine da leggere e rileggere, dimostrando come si possa far tesoro di un dono senza sacrificargli un libro intero – nel quale condurre le persone desiderose di “essere riportate a casa”, spogliandole di tutto, sino a poterne cogliere l’essenza grazie ad una giusta distanza, fra osservatore e attore, fra assenza e presenza, sotto una “luce infantile”.
Un libro ambizioso che centra il bersaglio soprattutto perché affronta temi sempreverdi – ad esempio il senso della vita e la necessità di scegliere fra l’essere condotti dal destino o esploratori – con un tono sempre azzeccato, mai palesemente desideroso di stupire il Lettore. Si può, in definitiva, vivere senza scrivere, rifiutando il proprio dono e cercando di reinventare se stessi? Baricco ci consegna la versione di Jasper Gwyn dimostrando, come recitano tutti i film sui supereroi, che dai grandi poteri derivano grandi responsabilità. Ma non sempre si ha la voglia di affrontare di petto la vita.
«La letteratura disincanta». Parola di Ian Sansom
Con il gustoso Galeotto fu il libro (Tea edizioni; pp. 322; €12), le avventure del bibliotecario Israel Amstrong, ideato dal critico letterario e scrittore Ian Sansom, giungono al quarto capitolo. Antieroe per eccellenza con un’eredità nobile che pesca dalla letteratura sino al film muto, Israel è nato per decisione ferrea dell’autore ma anche per una felice coincidenza: “abito di fronte a una biblioteca, e ogni mattina lì davanti si ferma un bibliobus per rifornirsi di volumi: impossibile non celebrare una cosa come questa”. Sansom, inoltre, ha svelato il suo personalissimo rapporto con libri, critici e con l’atto stesso della lettura e non mancano certo le sorprese…
Per il Salone del Libro di Torino, Ian Sansom ha presentato al pubblico italiano il suo nuovo libro e Tempostretto.it l’ha intervistato.
La serie del Bibliobus di Tundrum è giunta ad un nuovo episodio: Ma dome è nata 0questa fortunata serie?
«È nata per un puro atto di volontà, per una decisione consapevole. Uno scrittore si siede e pensa: voglio scrivere un libro che abbia questi elementi: una biblioteca e un personaggio che sia “fuori luogo”, cioè che si trovi in un luogo a cui non appartiene. Così è nato Israel Armstrong. A cioè si aggiunge il fatto che abito di fronte a una biblioteca, e ogni mattina lì davanti si ferma un bibliobus per rifornirsi di volumi: impossibile non celebrare una cosa come questa».
Per creare il suo protagonista si è ispirato almeno in parte a qualche personaggio letterario? «Israel è un genere di personaggio che troviamo spesso in letteratura: si sposta, vaga, non ha un luogo fisso e sicuro nel mondo. In questo è un personaggio ricorrente, sempre alla ricerca di qualcosa, anche quando non sembra così evidente. Israel è vicino a molti antieroi che troviamo nei romanzi del XX secolo, come “L’uomo senza qualità” di Robert Musil o “Ho servito il re d’Inghilterra” di Bohumil Hrabal. Ma in Israel ritroviamo anche i fratelli Marx e i personaggi del film muto, quindi si avvicina a esempi in parte letterari e in parte cinematografici».
Un critico letterario ce lo si figura serio e borioso, al contrario lei brilla per fantasia e humor. Questa serie è anche un modo per non prendersi troppo sul serio e imparare a godere semplicemente del piacere letterario?
«In realtà spero di fare il critico letterario scrivendo con la stessa arguzia e allegria che cerco di mettere nei miei libri. Credo che la critica letteraria, nei suoi aspetti migliori, possa essere gioiosamente creativa. Non mi piace differenziare le due attività in modo radicale. A volte le mie critiche letterarie hanno più allegria di alcune mie opere che invece vengono considerate molto serie».
A proposito, che rapporto ha con i cuoi colleghi critici?
«Faccio una vita piuttosto da eremita: vado a lavorare, torno, leggo, scrivo. Se uno legge seriamente, finisce inevitabilmente per avere più rapporti con i morti che con i vivi. Ma sono certo che tutti i miei colleghi, critici e scrittori, sono persone simpatiche ed eccezionali».
Infine vorrei domandare ad Israel: fa bene leggere e perché?
«Non penso che la lettura funzioni come una medicina, che ti rende moralmente migliore. Molti di quelli che la consigliano ad ogni costo lo fanno come suggerire l’echinacea per il raffreddore. Credo piuttosto che il valore principale della lettura è che aiuta ad avere un punto di vista più disincantato. Spesso si dice che la letteratura incanta; secondo me, invece, disincanta. Quasi tutta la letteratura ha un messaggio universale: che la gente è cattiva. Insomma, la carta da parati non ci salverà se il muro crolla; ma è comunque piacevole avere una bella carta da parati».
Ian Sansom, inglese, vive vicino a Belfast con la sua famiglia. Collabora regolarmente con il «Guardian» e con la «London Review of Books» in qualità di critico letterario. Nel 2002 ha pubblicato The Truth About Babies, resoconto di un anno di gioie e orrori della paternità. Ha debuttato nella narrativa nel 2004 col romanzo The Impartial Recorder.
Sul web: www.iansansom.net
