Manlio Sgalambro: «La scrittura è la mia psicanalisi»

sgalambro3In un’elegante e sobrio appartamento nel centro di Catania, incontro il noto filosofo, scrittore e poeta Manlio Sgalambro. Camicia bianca abbottonata sino al colletto e un gilet nero pendant con i pantaloni, ci accoglie dinnanzi ad un lungo tavolo ingombro di fogli d’appunti, moltissimi libri e plichi postali, su cui si trovano anche due computer portatili: “prima scrivevo solo a penna ma ora lavoro anche al pc ma – aggiunge – quello che utilizzo non è connesso ad internet”. In attesa dell’autunno, quando uscirà “Apriti Sesamo” – il nuovo album di Franco Battiato con cui collabora sin dal 1993 – Sgalambro ritorna in libreria con “Della Misantropia” (Adelphi, pp. 120 euro 10) dove ha indagato lo stretto legame che essa intrattiene con la filosofia stessa, cui l’autore ammette d’aver dedicato l’intera vita, senza rimpianto alcuno. A dispetto della vis dei suoi scritti, Sgalambro (nato a Lentini, nel 1924) sfoggia una calma serafica, merito, a suo dire, dello sfogo concessogli dalla scrittura…

Lei scrive che la misantropia è intimamente connessa alla filosofia. Perché, sino ad oggi, non era stato trattato questo legame?

«Le idee, nell’accezione platonica, nascono da un forte distacco dalla realtà, un momento di forte contrapposizione che possiamo definire misantropico. La difficoltà sta nel fatto che un pensatore accademico e pacato, non può cogliere questo momento d’odio per la realtà che coglie la fecalità dell’uomo».

Afferma che la psicologia la ripugna come guardare dal buco della serratura.

«L’ho scritto e lo confermo. Detesto chi si conosce, anzi, io non mi conosco affatto. Se dovessi bestemmiare, direi che la scrittura è la mia psicanalisi».

A proposito, colpisce la contrapposizione fra la forza dei suoi scritti e la sua figura sobria e serena. Merito proprio della scrittura?

«Certamente la scrittura è capace di dare fuoco alle polveri. Come ammoniva l’ars poetica di Aristotele è possibile anche liberarsi dalle passioni e così io mi libero dall’odio scrivendone. In tal modo il mio lato misantropo mi ha lasciato più quieto».

Non si iscrisse alla facoltà di filosofia, piuttosto la studiò da autodidatta. Perché?

«Mi iscrissi a giurisprudenza ma prima diedi un’occhiata alla facoltà di filosofia e lì vidi un uomo malinconico, estraneo a tutto e dissi all’amico con cui ero, “ecco un filosofo”. Ma lui replicò, “no, ha saputo che sua moglie l’ha tradito”.

Praticamente tutti i suoi libri sono editi da Adelphi. Perché scelse questa casa editrice?

«Mi indirizzai a loro con decisione perché i loro libri erano i più puri, i più avulsi da altri interessi. Inviai il manoscritto, avevo 55 anni e dopo due anni di silenzio mi chiamò Roberto Calasso e mi disse che le mie idee sulla pagina “non erano solo mature ma marcie”. Poco dopo uscì “La morte del sole”, il mio primo libro con Adelphi cui seguirono tutti gli altri».

Lei si è sempre schierato contro l’antimafia intellettuale propria di Sciascia e Fava. Conferma tutto?

«Senza dubbio, poiché costoro operavano solo con un tratto di penna, facendo il bene astratto e il male concreto. Ovviamente la lotta sul terreno contro la parte necessaria della mafia, quella condotta da Falcone e Borsellino, era cosa ben diversa. Viceversa questi intellettuali antimafiosi avevano perso di vista la realtà di fatto e non tenendo conto dei limiti del territorio, hanno contribuito ad un regresso, credo non momentaneo, della Sicilia. Del resto quando si tornano periodicamente ad esaltare le pagine di Leonardo Sciascia o Claudio Fava relativi a tali temi, si fa sfoggio della retorica tutta siciliana, in cui trionfano gli ideali del “non volere”, affini alla sua natura intimamente vegetativa e nirvanica».

Il libro si conclude con una presa di coscienza, “io mi possiedo”. Ovvero?

«Io posseggo delle idee, per cui non mi riferisco a me stesso soltanto dicendo “sono” ma anche e soprattutto “ho”. Le idee sono il mio patrimonio e almeno questo non lo possono tassare».

Le mancano alcune figure siciliane del passato come D’Arrigo e Bufalino?

«Certamente. D’Arrigo era davvero un genio straordinario ma venne lasciato colpevolmente isolato. Oggi invece si preferisce adorare Camilleri che, linguisticamente, è molto più povero e banale. Bufalino era un’altra grande intelligenza. Ricordo che un giorno era accanto a Sciascia e lo ascoltava parlare di mafia. Sulle sue labbra credetti di notare un leggerissimo sorriso, come chi compatisce benevolmente».

La collaborazione con Franco Battiato si rinnoverà?

«Sì, nel prossimo autunno uscirà un nuovo album che dovrebbe chiamarsi “Apriti Sesamo”. Lui non scriveva musica da quattro-cinque anni e sono stato io a convincerlo a farlo, cominciando a spedirgli testi di canzoni dallo scorso maggio. Credo proprio di aver fatto bene».

Vorrei chiederle un’ultima cosa…

«Quando morirò?».

Per carità. Piuttosto lei che idea ha dell’aldilà?

«Cosa vuole che ci sia amico mio? Noi siamo qui e dobbiamo cercare di fare qualcosa. Io ho fatto canzoni, ho scritto libri e mi sono messo un gruzzoletto da parte. Mi piacerebbe seguire le sorti di Kierkegaard il quale stabilì che la sua morte dovesse avvenire nel momento in cui liquidava l’ultima moneta del suo patrimonio. E fu proprio quello che avvenne».

Francesco Musolino®

Fonte: La Gazzetta del Sud

Amélie Nothomb si racconta.

Quando entra in una stanza, con il suo cappello a cilindro di velluto, la celebre scrittrice belga Amélie Nothomb non può davvero passare inosservata. Divenuta presto una vera e propria celebrità letteraria grazie anche alla sua proverbiale prolificità – sta ultimando il suo 75° libro – con Uccidere il padre (Voland), la Nothomb è tornata ai livelli dei suoi più grandi successi (Igiene dell’assassinoStupori e tremori) narrando la storia del talentuoso e irrequieto quindicenne Joe che incrocia il destino del più grande mago vivente, Norman e della sua compagna, Christina. Las Vegas con la sua promessa di fama e successo rimane a lungo un’esca visto che Norman vive nella ben più anonima Reno. Ma parafrasando la sua scelta controcorrente e di basso profilo, la Nothomb conclude che il Papa non possa essere una persona perbene proprio perché continua a risiedere nel Vaticano. Uccidere il padre, grazie ad una scrittura pungente e ad una arguta ironia si rivela un romanzo distillato da sorseggiare con cura o da ingollare d’un sorso, lasciandosi travolgere dal fascino della magia e dal demone del fuoco, dal continuo gioco fra controllo e abbandono, fedeltà e tradimento su cui ruota questo romanzo. E infine, come una perfetta illusionista, la Nothomb ci riserva anche un colpo di scena degno di nota. Chapeau.


Amélie, qual è stata la scintilla che ha dato il via al suo ventesimo romanzo?

Questa storia è nata grazie alla frequentazione dell’ambiente dei maghi, che risale a dieci anni fa. Pensavo mi avessero avvicinato per via del cappello che indosso e invece ho scoperto d’essere la lettura preferita dei maghi e, nel tempo, ho potuto frequentarli e conoscere e apprendere il loro ambiente. Il personaggio di Joe Whip è un antieroe, uno Iago moderno.

Com’è nato questo quindicenne?

Ha visto bene, sarebbe perfetto nei panni di uno Iago contemporaneo. L’ambiente dei maghi è stato lo sfondo ideale ma per scrivere sono tornata indietro sino ai miei quindici anni e vi garantisco che quella è un’età folle, in cui si può fare davvero di tutto, si può diventare ladri, scrittori o assassini.

Perché l’affascina tanto la magia?

La magia ha un fine generoso perché pone nell’altro il dubbio sulla realtà e proprio per questo c’è un forte legame con la vera letteratura.

É andata davvero al festival Burning Man?

 Certamente! Sono andata all’edizione del 2010 con molto scetticismo ma ne sono rimasta sbalordita. È un’utopia che funziona da vent’anni, una vera magia: una città che compare all’improvviso divenendo meta per circensi d’ogni tipo, per poi scomparire nella polvere del deserto. Dopo esserci stata ho pensato che ne dovevo scrivere, per i terrestri. I fire-dancer di cui scrive sono in qualche senso dei maghi, sempre in bilico fra pericolo e controllo? I più grandi maghi sono proprio loro, perché scendono a patti con il fuoco, lo dominano ma sono continuamente in pericolo. Li ammiro perché rischiano la vita eppure non lo fanno per i soldi ma solo per stupire, per ammaliare il pubblico, specie quello del Burning Man.

In inglese si scrive “fire-dancer”, in francese “danseur de feu”: non è affatto la stessa cosa..

Sì è vero, perché in francese si aggiunge un complemento che trovo superfluo. Non ho una particolare ammirazione per la lingua inglese ma in questo caso dà vita ad un’espressione molto più forte, lascia che le parole cozzino fra loro e diano vita a delle scintille. In francese c’è troppa struttura, come nella traduzione italiana e invece, bisogna lasciare che il fuoco possa danzare. Anche con le parole.

Alla fine Christine cede a Joe ma Norman vorrebbe non provare gelosia. Lei crede sia possibile un amore totalmente libero in una coppia?

 L’amore libero, quello degli hippie, esiste davvero e abbiamo sbagliato a prenderlo in giro, a svilirlo, sia perché non è fallito ma soprattutto perché le alternative successive sono state peggiori. Nel west degli USA ci sono ancora hippie e si tratta di una comunità molto più equilibrata di quanto si creda.

Joe è in cerca di un padre ma la voglia di paternità di Norman può tramutarsi in una ossessione?

Naturalmente non ho un’esperienza personale ma ho osservato che molti padri, semplicemente e in modo assai ingeneroso, non vengono riconosciuti dai propri figli. Credo che si tratti di un tipo di sofferenza prettamente moderno che andava analizzata e questa è stata un’altra delle scintille che ha dato vita al romanzo.

Lei scrive che il Vaticano e Las Vegas sono due luoghi illusori…

Las Vegas e il Vaticano vengono entrambe riconosciute nel mondo per qualità che non rispecchiano. Il Vaticano dovrebbe essere la sede del cattolicesimo e invece vi regna il clero con un potere enorme e molte ombre. Allo stesso modo, Las Vegas è la capitale del gioco ma in realtà è il luogo simbolo della magia. Adoro come questi due posti riescano ad illuderci ogni giorno, celando la propria natura al mondo.

Sta scrivendo il suo 75° libro: che rapporto ha con l’ispirazione?

È verissimo, lo sto finendo proprio in questi giorni. Sorprende anche me questa prolificità ma la mattina, quando mi sveglio, mi ritrovo incinta e devo scrivere. Come se anni fa si fosse aperta una ferita e da allora l’ispirazione è continua. Per fortuna.

Francesco Musolino

Fonte: Satisfiction

Peter Cameron: «Scrivere è l’escamotage perfetto per abbracciare il dolore».

cameronPura letteratura, noir o romanzo storico? É sempre un’impresa ardua apporre un’etichetta ad un libro, ma questa semplificazione sembra  impossibile per i libri dello scrittore statunitense Peter Cameron, già autore di best-seller come Quella sera dorata e Un giorno questo dolore ti sarà utile. Cameron, già annoverato dalla critica come uno dei maggiori esponenti della letteratura americana contemporanea, ritorna in libreria con Coral Glynn, lanciato in contemporanea negli States e in Italia, dove è pubblicato da Adelphi (pp. 212, €18, trad. it. di Giuseppina Oneto). Al centro della vicenda troviamo Coral Glynn, un’infermiera a domicilio rimasta sola al mondo e con una visione totalmente disincantata della vita. Eppure sarà proprio il suo arrivo a villa Hart, nella brumosa quiete della campagna inglese degli anni ’50, a sconvolgere il torpore sentimentale del maggiore Clement Hart, spingendolo a dichiararsi alla giovane per timore di sprofondare nella solitudine. Cameron, con una prosa limpida e sempre scorrevole che non presta mai il fianco alla banalità, cercherà di sondare i misteri del cuore e del passato di Coral, un personaggio su cui resterà sempre una misteriosa, quanto affascinante, aura di mistero.

Il vero mistero di questo romanzo sembra essere proprio la vita emotiva di Coral, è d’accordo?

«Certamente uno dei temi principali del libro è quello del difetto di comunicazione e di come questo influenzi le nostre relazioni umane, rivelandoci come sia davvero difficile, forse impossibile, sapere chi siano davvero le persone con cui condividiamo la nostra vita, anche quella più intima».

Coral sembra essere uno dei suoi personaggi più ottimisti, perché riesce a trovare la sua strada, a superare i suoi blocchi…

«Sono d’accordo. Quando ho cominciato a scrivere Coral Glynn volevo che si parlasse di come noi tutti, affrontiamo diversamente le nostre repressioni e la mia protagonista doveva essere capace di affrontare i suoi limiti, per non lasciarsi bloccare dal suo passato. Al contrario Clement è molto più incline a rimuginare. Coral vuole fortemente un futuro, è decisa a sceglierselo, anche a costo di deludere chi la circonda».

Clement era convinto di aver esiliato l’amore ma con Coral cambia tutto. È possibile proteggersi dai sentimenti o ne siamo tutti preda?

«Mi piace pensare che siamo tutti in grado di trascendere noi stessi, di superare i nostri blocchi emotivi, le nostre false convinzioni, evolvendoci dinanzi alla vita. Bisogna riconoscere che non dipende solo dalle interazioni con gli altri, al contrario serve soprattutto grande forza di volontà per rimettersi in gioco. In definitiva credo che il succo stesso della vita sia proprio il continuo cambiamento».

Lei scrive che l’amore è sconcertante proprio perché è assolutamente logico. Sfatiamo uno dei classici luoghi comuni?

«Le emozioni sono sempre sconcertanti perché non temono la logica, anzi la sovvertono. Sono convinto che i sentimenti e le emozioni siano le uniche cose che ci mantengono fedeli a noi stessi, ciò che ci rammenta chi siamo e cosa proviamo davvero».

In Coral Glynn mette su pagina una girandola di sentimenti e passioni non corrisposte. È possibile essere pienamente felici o bisogna sempre trovare un compromesso con il proprio partner?

«Ho sempre concepito i rapporti fra le persone come qualcosa di estremamente fluido, soggetti a continui alti e bassi, del resto le relazioni non possono essere statiche poiché noi stessi non lo siamo. Mi rendo conto che l’impossibilità di avere uno schema su cosa si debba fare per essere felici in amore può essere una vera sciagura, ma per noi romanzieri è certamente una gran fortuna».

Da dove vengono le sue storie e i suoi personaggi? Si trovano nella realtà che la circonda o nel suo inconscio?

«Scrivere un libro è sempre un’esperienza complessa. Delle volte sento di essere un mezzo, un veicolo per un linguaggio che viene da luoghi che non conosco, magari inconsci. Altre volte, invece, scrivere somiglia proprio ad una lotta, del resto io cerco sempre di procedere, di andare avanti ma alla fine, torno sempre indietro su ciò che ho scritto, lavorando su ogni frase, cercando di renderla perfetta. Sinceramente credo che la mia prosa sia un giusto compromesso fra spontaneità e un lavoro di rilettura costante».

Il dolore, inteso in senso lato, è sovente al centro dei suoi romanzi. Per lei la scrittura è anche un’esperienza catartica?

«Non parlerei di catarsi vera e propria però quando leggo un bel libro mi sento sicuramente meno solo e per questo considero la letteratura come un modo per rammentare a me stesso che sono vivo. Credo che scrivere sia un escamotage perfetto per superare, comprendere, e in fin dei conti abbracciare il mio dolore, trasformandolo in un’opera letteraria».

FRANCESCO MUSOLINO®

Fonte: La Gazzetta del Sud

Carlo Martigli si confessa: «La mia scelta eretica? Mollare tutto per la scrittura»

Perché Carlo Martigli è divenuto un autore best-seller? Perché non inganna il lettore, non inventa soltanto ma prende spunto da situazioni storiche realmente accadute, da veri misteri, sviluppando trame dense che avvolgono il lettore. Proprio così accade nel suo nuovo libro, L’Eretico (Longanesi; pp. 504 €17.60) dove Pico della Mirandola, Savonarola e un misterioso testo orientale la fanno da protagonisti e tutto riparte da dove si era concluso 999. L’Ultimo Custode, il romanzo che lo consacrò, appena un anno fa, premiando la sua coraggiosa scommessa: mollare la sua tranquilla vita da bancario per dedicarsi completamente alla scrittura.

Il suo nuovo libro, “L’Eretico”, si riallaccia felicemente al precedente libro di grande successo. Com’è nata questa storia?

Esiste un filo rosso che unisce le due storie anche se si può tranquillamente leggere L’Eretico senza sapere nulla di 999 L’Ultimo Custode. Il fatto è che se in quest’ultimo Pico della Mirandola è il protagonista, ne L’Eretico invece, che è ambientato tre anni dopo la sua morte, è presente il suo spirito. Da lui, dalle sue ricerche e dai contatti avuti con l’oriente, storicamente accertati, nasce proprio il viaggio che spinge i protagonisti ad andare a Roma, pronti a levare il velo a un mistero. Non i soliti inventati, mi permetto di dire, ma un mistero reale, rigorosamente storico, mi piace immaginare e inventare situazioni, ma non ingannare il lettore. 

Pico della Mirandola e Savonarola: perché ha scelto due figure così carismatiche?

Perché sono entrambi gli uomini chiave del Rinascimento. Mirandola rappresenta l’uomo nuovo,la primavera della libertà di pensiero e della libertà di scelta, dopo l’inverno del medioevo. Il più grande genio dell’epoca, molto superiore a leonardo, che era un tecnico eccezionale, ma di se stesso diceva che era homo sanza lettere, giustamente. Savonarola è il critico più feroce dello stato di degrado in cui si trovava la Chiesa cristiana a cavallo tra il 1400 e il 1500. Fu coerente fino in fondo, scegliendo, come Socrate, la morte, anche se poteva fuggire. Un misto tra un idealista e un talebano, in quanto a fanatismo. Si può dire che è anche grazie a lui se, pochi anni dopo, inizierà il processo della Riforma, contro il mercato delle indulgenze e la corruzione dei papi di allora, con Martino Lutero. Una curiosità: lui stesso racconta racconta che, tornato da un viaggio, quando a Roma parlava di anima, la gente lo scherniva e si metteva a ridere.  
L’Eretico: potrebbe spiegare perché, nel tempo, questo termine ha preso un’accezione tanto negativa e sinistra?

L’Eretico deriva da airesis, che in greco significa scelta. Quindi eretico è semplicemente colui che sceglie, e nell’antica Grecia corrispondeva a essere un uomo giusto e ragionevole. In epoca medievale a questa parola venne nel tempo data un’accezione negativa perché chiunque avesse l’ardire di scegliere e non di obbedire supinamente, era considerato pericoloso. Ieri come oggi, l’uomo che sceglie è inviso al potere ottuso, compreso quello politico e religioso. E questo fatto danneggia chi crede e professa una religione, compresa quella cattolica, in libertà di scelta. Danneggia la stessa fede, quasi che questa abbia la necessità di essere imposta dall’alto con forza, come se fosse un peso anziché un dono meraviglioso. 

Senza rovinare la gioia della lettura potrebbe svelarci chi è Nicolaj Notovic?

E’ un uomo dalla vita straordinaria sul quale ho preparato un soggetto cinematografico. Spia, letterato, avventuriero, geografo e storico, ritornò da una missione nel Tibet, forse commissionata dalla Ochrana, la polizia segreta dello zar, con una rivelazione sconvolgente. Aveva appreso dai monaci tibetani una storia che da secoli continua ancora oggi a essere tramandata in quei luoghi come la più normale del mondo e la conoscno tutti. Ovvero che un uomo chiamato Gesù, il nostro, detto Issa, dimorò in quei luoghi. Ha mai pensato che nessun vangelo, nemmeno gli apocrifi, parlano dei suoi anni tra i dodici e i trenta? Non è stano che sappiamo tutto di imperatori cinesi, faraoni egiziani e consoli e imperatori romani, uomini del suo tempo e vissuti prima di lui, mentre di Gesù non sappiamo nulla? Perché questo vuoto? Forse per non farlo apparire come personaggio storico ma come un’invenzione? Ma questo va contro la logica e la fede stessa. Le sembra naturale? Notovic fu perfino contattato dal cardinale Luigi Rotelli vicino a Leone XIII e da altri che tentarono in vari modi di convincerlo a non pubblicare il libro poi uscito con il titolo Gli Anni Perduti di Gesù in Francia e in Germania nel 1894. Poi, guarda caso, Notovic scomparve, e così altri che tentarono di far luce sulla vicenda. Spero di non fare la stessa fine, il mio è solo un romanzo che si legge sotto l’ombrellone o si tiene sul comodino la sera, come quelli di Ken Follett o di Ildefonso Falcones, cui sono stato avvicinato da una certa critica. Forse con un po’ più avventura e di ironia, visto il mio spirito toscano. Certo che se un lettore vuole poi approfondire certi temi tra le righe, troverà di che divertirsi ulteriormente.

Infine vorrei chiederle: è felice d’aver mollato la sua “precedente vita”, rischiando tutto per inseguire la scrittura? 

Assolutamente sì. Quella scelta, molto “eretica”, dato che siamo in argomento, nacque con tanta paura e un pizzico di coraggio. Per me è stata una sorta di necessità interiore, amo immensamente di un’amore quasi passionale, la scrittura, e non a caso dico sempre alla fine delle mie conferenze che se Leggere Rende Liberi (parafrasando l’orribile e tragicamente ironico Arbeit Macht Frei dei campi di concentramento), scrivere rende felici, almeno me. Il mestiere dello scrittore è faticoso e meraviglioso e il sapere che riesco a emozionare con le mie storie i miei lettori mi rende ancora più felice. Non per nulla tra una presentazione e un’altra sto scrivendo il prossimo romanzo.

Fonte: Settimanale Il Futurista – gennaio 2012 (versione estesa)


Baricco ritorna e conquista con il suo “Mr Gwyn”

La lista degli scrittori che hanno discettato sulla propria arte è davvero lunga e composita – spaziando da Oz a King, da Carver a Vargas Llosa – e per tale motivo non è ingiusto avvicinarsi a Mr Gwyn (Feltrinelli; pp. 160; €14), il nuovo romanzo di Alessandro Baricco, con qualche pregiudizio.

Invece Mr Gryn potrebbe, a ragion veduta, essere il miglior romanzo dello scrittore torinese nonché fondatore della Scuola Holden, poiché finalmente la sua prosa barocca si è asciugata e contratta e lì dove si potevano trovare orpelli e descrizioni curate all’infinitesimo dettaglio, qui troviamo un armonioso fluire narrativo che, talvolta, cede persino alla grevità dei bisogni corporali ordinari. Una vera rivoluzione nella scrittura, dunque, un traguardo raggiunto e superato con decisione che probabilmente gli permetterà di conquistare anche una fascia di lettori alienati da una ricerca, talvolta sopra le righe, dell’aulicità. Jasper Gwyn, il protagonista, è uno scrittore che gode di una buona fama che, d’un tratto, si rende conto di non avere più alcuna intenzione di continuare a scrivere e pubblicare libri e per renderlo definitivo, firma una lettera al Guardian dove chiarisce le 52 cose che non farà più, comprese le foto con aria pensosa tanto care alle quarte di copertina. Ciò che lo assorbiva lo stava anche uccidendo ma sacrificando il suo principale talento, la sua vita stessa traballa e dopo un lungo periodo di solitario relax, Jasper Gwyn non sa come riempire le proprie giornate donando loro un senso.

Ma una serie di coincidenze gli permetterà di inforcare una nuova via mediante la quale la scrittura, adesso piegata al suo bisogno, dovrà riemergere con maggiore purezza: Jasper Gwyn farà il copista. Di persone.Trovare un luogo adatto – l’elenco dettagliato dei criteri per il nuovo studio e la ricerca della luce perfetta sono pagine da leggere e rileggere, dimostrando come si possa far tesoro di un dono senza sacrificargli un libro intero – nel quale condurre le persone desiderose di “essere riportate a casa”, spogliandole di tutto, sino a poterne cogliere l’essenza grazie ad una giusta distanza, fra osservatore e attore, fra assenza e presenza, sotto una “luce infantile”.

Un libro ambizioso che centra il bersaglio soprattutto perché affronta temi sempreverdi – ad esempio il senso della vita e la necessità di scegliere fra l’essere condotti dal destino o esploratori – con un tono sempre azzeccato, mai palesemente desideroso di stupire il Lettore. Si può, in definitiva, vivere senza scrivere, rifiutando il proprio dono e cercando di reinventare se stessi? Baricco ci consegna la versione di Jasper Gwyn dimostrando, come recitano tutti i film sui supereroi, che dai grandi poteri derivano grandi responsabilità. Ma non sempre si ha la voglia di affrontare di petto la vita.