Elvira Seminara a Messina: «Lo scrittore è un termovalorizzatore umano»

Grande riscontro anche per il quarto incontro letterario svoltosi giovedì 6 ottobre presso la libreria Circolo Pickwick di Messina. Dopo Francesco Fioretti, Nadia Terranova e Simonetta Agnello Hornby, la scrittrice e giornalista siciliana, Elvira Seminara ha incontrato i suoi lettori messinesi presentando il suo più recente romanzo, Scusate la Polvere (Edizioni Nottetempo) nell’ambito del cartellone di presentazioni mediterranee curate dal giornalista Francesco Musolino.

Un appassionante incontro durato o­ltre un’ora durante la quale la Seminara ha parlato di scrittura, donne, morte, religione e reincarnazione, dimostrando sempre charme e grande ironia. «Lo scrittore –ha affermato la Seminara – è un termovalorizzatore umano, cui spetta il compito di convertire emozioni, delusioni, successi, sconfitte, lacrime, risate, sogni e dolori in parole sulla pagina. E’ una vocazione la scrittura, un modo di leggere la vita stessa». Del resto, questa attenzione e questa cura, la Seminara la investe in tutta la sua vita, non solo nella scrittura: «Le mie amiche mi portano sacchetti con i loro gioielli rotti invece di buttarli via. Ma in generale raccolgo anche le ceramiche rotte, i manici delle borse e molto altro, per poi conservarlo con grande cura. Nascono così nuovi bracciali o creazioni estemporanee con la creta. Non butto via nulla – ha proseguito la Seminara – e allo stesso modo, con la scrittura, riprendo e riutilizzo le parole e talvolta, mi piace cercare nuove possibili combinazioni».

Il tema portante del suo ultimo libro, la morte, l’ha spinta a conversare anche su argomenti più alti con il pubblico messinese: «Sono protestante ma credo che tutto l’Occidente trarrebbe grande beneficio da un approccio buddista all’Io. Dovremmo imparare ad essere più distaccati, meno materiali». E ancora: «Credo fermamente nella reincarnazione, del resto, nei miei scritti ho ucciso e sono stata uccisa e ho vissuto gioie e dolori molto forti in modo così vero che non posso non pensare che in un’altra vista, in un altro corpo, devo aver provato quelle gioie e quelle stesse sofferenze».

Infine Elvira Seminara ha rivelato i suoi progetti futuri: «Un importante editore, visto il successo di questa dark comedy, mi ha offerto di inaugurare una nuova collana con un mio romanzo. Finalmente anche in Italia ci siamo aperti alla commistione di generi, senza l’ansia di porre etichette su tutto».

Fonte

Dan Fante a Tempostretto.it: «Scrivere mi ha salvato la vita»

La sesta edizione del Festival letterario abruzzese “Il Dio di mio padre”, dedicato allo scrittore italo-americano John Fante, è ai nastri di partenza. La kermesse si terrà dal19 al 21 agosto 2011 a Torricella Peligna (Chieti), paese di origine del padre, Nick Fante. Difatti Nick, era un muratore nato a Torricella Peligna che, come molti suoi corregionali, emigrò negli Stati Uniti in cerca di un futuro migliore. Approdò nel 1901 a Ellis Island poco più che ventenne. Si stabilì nel Colorado e poco dopo sposò Maria Capoluogo, un’italoamericana nata a Chicago da genitori lucani. Ebbero quattro figli. John Fante fu il primogenito.

Il Festival è diretto da Giovanna Di Lello, giornalista e filmaker abruzzese, che ha dedicato allo scrittore il primo documentario biografico in Italia, ed è organizzato dal Comune di Torricella Peligna. L’edizione di quest’anno si annuncia ricca di eventi, appuntamenti di rilievo e prestigiose presenze, prima fra tutte quella dei figli dello scrittore, Victoria Cohen Fante e Dan Fante.  Altro ospite eccellente sarà Enrico Rava, il jazzista italiano più conosciuto e apprezzato sulla scena internazionale e grande appassionato di John Fante.

‘Il Dio di mio padre’ ha ospitato numerosi figure d’eccezione tra cui gli scrittori Antonio Scurati, Andrea de Carlo, Melissa P, Wu Ming, Gaetano Cappelli, Marco Vichi, Loriano Macchiavelli, Melania G. Mazzucco, Fabio Geda, il giornalista Giulio Borrelli, i musicisti Vinicio Capossela (reading musicale su Fante), Francesco De Gregori , Marina Rei,  Raiz degli Almamegretta (per reading musicale inedito dal titolo La stanza di Bandini), il regista Paolo Virzì, l’attore Andrea Brambilla detto Zuzzurro, l’artista Tanino Liberatore e quest’anno sono state previsti anche la Lectio Magistralis che terrà il filosofo Gianni Vattimoe l’incontro con il critico letterario Antonio D’Orrico.

Ma il momento fondamentale del Festival sarà, come per le precedenti edizioni, il Premio letterario “John Fante Opera prima”, rivolto a scrittori esordienti.  La giuria del Premio, composta da Giulia Alberico(scrittrice), Masolino d’Amico (docente universitario, giornalista, critico e saggista) e Francesco Durante (giornalista, critico e scrittore) ha scelto i finalisti di questa edizione: “Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra” di Claudia Durastanti (Marsilio), “L’anno delle ceneri” di Giuseppe Schillaci (Nutrimenti) e “Non ci lasceremo mai“ di Federica Tuzi (Lantana Editore).

In tale occasione ho intervistato Dan Fante, dialogando sul ruolo giocato dalla scrittura nella sua vita, l’eredità paterna e il rapporto con Bruno, il proprio alter-ego. Inoltre a conclusione del Festival, Dan Fante anticiperà con una lettura di un brano, l’uscita del suo prossimo libro in America: “A Family’s Legacy of Writing, Drinking and Surviving”.

Il festival di Torricella Peligna dimostra il forte legame che lega l’Italia e suo padre. E lei? Qual è il suo rapporto con ilBelpaese?

Io sento lo stesso legame. Mi sento a casa quando sono in Italia, specialmente a Torricella Peligna. Si può dire che è una questioni di radici, che è per via del mio legame con la terra. E’ la mia discendenza e so che il sangue che corre nelle mie vene è lo stesso della gente di Torricella.

Conosciamo John Fante come un grande scrittore ma che tipo di padre è stato?

Mio padre era un uomo appassionato e lunatico. Un vero artista. Poteva essere davvero amabile e un minuto dopo un gran testone.

Bukowski ha sempre celebrato il lavoro di suo padre e disse chef u felice di poter usare la propria fame per far conoscere le opera di John Fante, sino a quel momento sconosciute. Che tipo di rapporto li univa?

Bukowski considerava John Fante letteralmente come il suo Dio. Mr. Bukowsi aveva un buon gusto.

Anche oggi lei legge i libri di suo padre?

Leggo “nei” suoi libri frequentemente. Come scrittore uso i suoi romanzi come libri di riferimento. Lui mi insegna come scrivere nel modo in cui esprime le sue stesse parole.

Com’è nato Bruno Dante, il suo alter ego?

Bruno è ovviamente me stesso. Le sue attitudine e le sue peculiarità sono uguali alle mie – o ci si avvicinano molto. In definitiva scrivo di ciò che conosco meglio: me stesso.

Bruno Dante e Arturo Bandini: che tipo di relazione li lega?

Ci sono somiglianze ma anche differenze essenziali fra loro due. Bandini è figlio degli anni ’20 mentre Bruno è il prodotto degli anni Settanta e Ottanta. Ovviamente questo lasso di tempo ha prodotto grandi differenze nel modo in cui questi due alter ego vengono portati sulla pagina.

La scoperta della scrittura cosa ha significato per lei? Ha avuto un potere terapeutico forse?

Scrivere mi ha salvato la vita. Ero un ragazzo folle con troppa energia e una mente che non voleva saperne di darsi una calmata. Scrivere ha aiutato la mia mente a riprendere il controllo.

Fonte: www.tempostretto.it del 18 agosto 2011

Romana Petri: «Scrivere vuol dire liberarsi dei mali, spurgarsi. Lo scrittore, di sporcizia si nutre per forza, e se scrivendo se ne libera».

Cominci a leggere “Ti Spiego” (Cavallo di ferro; pp. 210; € 16.50) e pagina dopo pagina rischi di metterlo giù solo dopo averlo terminato. Romana Petri vi ricostruisce mediante un rapporto epistolare a senso unico ovvero facendoci leggere solo le lettere di Cristiana, i quarant’anni di vita condivisi fra lei e l’ex marito Mario, compresi quindici anni di separazione “civile”. Perché un giorno tutto cambia, Mario va via oltre oceano, si risposa, fa un altro figlio ma all’improvviso decide di riprendersi la “perduta giovinezza” e fatalmente, con essa, vorrebbe riprendersi Cristiana e lei risale dall’oblio dei ricordi. Un racconto che colpisce perché ha dentro il senso del ritmo, «sono figlia del bass-baritono Mario Petri, questo libro è concepito come un crescendo, comincia con dei pianissimo e sfocia nella sarabanda» e così, pagina dopo pagina, si passa dalla sorpresa al livore e la sua scrittura si fa “acuminata come una freccia”, rivivendo i ricordi, le delusioni, le false speranze, i pianti notturni e solitari: «il vero significato di una vita non si capisce mai al momento, bisogna voltarsi indietro per farlo». E la boxe, l’arte di tirar pugni tanto cara a scrittori made in U.S.A. diviene metafora del “tutto”: «la relazione di due ex coniugi che non hanno ancora fatto chiarezza sul passato, cos’altro potrebbe essere se non un vero e proprio ring?». Proprio in questi giorni ritorna in libreria “La donna delle Azzorre” (con cui vinse il Grinzane-Cavour nel 2002) ed esce una sua nuova traduzione del folgorante “Il diario di Adamo ed Eva” (Cavallo di ferro; pp.96; € 12.50) di Mark Twain che gli causò non pochi dispiaceri: «alla fine i due dicono che in fondo l’Eden non era poi gran cosa paragonato al loro amore. Insomma, l’amore tra un uomo e una donna, per Twain, era il vero Paradiso». Scrittrice, editrice, insegnante di lettere e traduttrice parlando della scrittura afferma: «Scrivere vuol dire liberarsi dei mali, spurgarsi. Lo scrittore, di sporcizia si nutre per forza, e se scrivendo se ne libera».

 


Ai tempi dei social network un romanzo epistolare può sembrare un’idea folle, invece il meccanismo narrativo si rivela azzeccato sino all’ultima pagina, colpo di scena incluso. “Ti spiego” è nato con l’idea di far parlare solo lei sin da principio o aveva tentato il dialogo epistolare?

«Non avevo mai pensato a un dialogo a due, quello sì che sarebbe stato un classico romanzo epistolare. Le lettere di un’unica persona, invece, il romanzo epistolare lo camuffano in romanzo e basta. In realtà ogni lettera si legge come un normalissimo capitolo, anzi, come una confessione, una seduta dall’analista in cui una voce sola riassume la sua vita passata, qual è poi stato il suo vero significato. Perché il vero significato di una vita non si capisce mai al momento, bisogna voltarsi indietro per farlo. E’ un po’ come scrivere un libro, prima di darlo alle stampe bisogna lasciarlo decantare un po’. Cristiana ha addirittura avuto fortuna, non è stata lei a voler cominciare questa corrispondenza, è stato l’ex marito che, come in un contrappasso dantesco, è ridotto al silenzio. Un silenzio, però, assai eloquente».

Isabella Bossi Fedrigotti sul Corriere della Sera, afferma che la cura con cui ricostruisce i quarant’anni complessivi che Mario e Cristiana hanno condiviso, passando sulla pagina dalla sorpresa al livore, somiglia ad una vera e propria indagine psicologica.  Ritrova il suo libro in questo paragone? E più in generale, è stato difficile “acuminare la scrittura” di Cristiana di lettera in lettera?

«Isabella Bossi Fedrigotti ha detto ciò che io speravo dicesse un critico, e cioè che questo romanzo (io vengo da una famiglia di musicisti, mio padre era il famoso bass-baritono Mario Petri) fosse in realtà un crescendo. Comincia con dei pianissimo e sfocia nella sarabanda. Acuminare la scrittura non è stato un problema, ogni volta che descrivo un personaggio cerco di annullarmi completamente in lui. Prenda ad esempio Mimmo, un personaggio mostro, La Fedrigotti lo chiama l’assassino (ovviamente in senso metaforico), ma per renderlo credibile mi sono dovuta identificare con lui, diventare lui, così come sono stata Elsa la vittima, Marta, la traditrice, Mario l’inconcluso etc. etc.»

Il pugilato è per Cristiana una metafora significativa del rapporto di Cristiana con Marco. E’ una mia impressione o la boxe, con l’inversione dei ruoli fra i protagonisti, finisce per assume un significato quasi “catartico”?

«Non ci sono dubbi, catartico al massimo. Anche se qui, devo ammetterlo, qualcosa di

autobiografico c’è. Io ho fatto davvero pugilato per qualche anno. E’ uno sport faticoso ma bellissimo. Ovviamente non ho mai fatto incontri, ma anche un sacco può essere un avversario e, come dico nel libro, ci si può vedere il volto che si vuole. E poi, la relazione di due ex coniugi che non hanno ancora fatto chiarezza sul passato, cos’altro potrebbe essere se non un vero e proprio ring?»

Grazie al modo in cui descrive il pugilato – dal rituale della fasciatura delle mani all’attenzione agli odori, dalla luce della palestra a fine giornata al suono armonico ed ipnotico del punch ball – entra a pieno diritto in quella schiera di scrittori affascinati dalla boxe capitanati da Hemingway. Qual è il suo personale rapporto con questo sport e secondo lei in cosa consiste, o consisteva, il suo grande fascino?

«Ne sono stata affascinata da bambina. Mio padre, quando aveva 17 anni scappò da Perugia e venne a Roma per studiare canto lirico, per pagarsi le lezioni faceva degli incontri di pugilato, era un peso massimo e vinceva quasi sempre. Naturalmente, anche quando smise la passione restò e riuscì a trasmettermela completamente. Per riassumerla in un’unica parola direi che lì dentro c’è tutta l’epica, per lo meno quella di cui sono sempre andata a caccia io».

Ha curato una nuova traduzione de “Il diario di Adamo ed Eva” (pp. 96; €12) che sta uscendo proprio in questi giorni. Un libro che nasconde una storia ricca di peripezie e delusioni per il “primo vero scrittore americano” come lo definì Faulkner…

«Twain era uno scrittore geniale perché oltre ad essere bravo era anche senza paure. Venne molto tormentato per l’audacia di ciò che aveva scritto. Un libro che con la Chiesa non ha niente a che vedere. Si immagini che alla fine i due dicono che in fondo l’Eden non era poi gran cosa paragonato al loro amore. Insomma, l’amore tra un uomo e una donna, per Twain, era il vero Paradiso. Tradurre questo libro è stato un lavoro appassionante e spassoso».

Un libro/diario sul primo rapporto fra i due sessi che viene inteso come mondo inesplorato. Oltreché divertentissimo ma anche toccante, è un libro ancora attuale?

«Direi attualissimo, anzi, direi che potrebbe essere scritto adesso e nessuno avrebbe nulla da obiettare. L’uomo e la donna sono due universi che hanno ben poco a che vedere l’uno con l’altro, ma sono talmente complementari da non poter fare a meno l’uno dell’altra. Twain è molto generoso con Eva, le attribuisce tutte le qualità, ad Adamo, invece, lo tratta piuttosto maluccio, fa la figura del tonto, però, quando alla fine Eva cerca di capire perché lo ama, l’unica risposta attendibile che può darsi è che lo ama perché è maschio, insomma, diverso, l’altro, ma proprio per questo l’affascinante da scoprire».

Ritorna in libreria “La donna delle Azzorre” (la quinta edizione portoghese uscirà per l’editore Bertrand). Che rapporto ha con i suoi precedenti libri, li rilegge volentieri o, come accade per alcuni, non li sente più suoi come fossero figli divenuti ormai grandi e pronti per procedere con le proprie forze?

«Un certo distacco è fisiologico, altrimenti non si potrebbe nemmeno andare avanti. Però il legame resta, e anche profondo. Intanto, per ridare alle stampe un libro è necessario rileggerlo per vedere se c’è qualcosa da cambiare, ed ecco che a quel punto il “ritorno nel passato” si fa necessario. Sembrerà paradossale, ma a volte rileggendo un suo vecchio libro, uno scrittore può trovare l’idea per un lavoro nuovo. Ma non è tanto paradossale, quello che abbiamo da dire lo abbiamo dentro, viene fuori un po’ volta, certe cose fanno più fatica, altre meno».

E più in generale, lei che riassume in sé molti ruoli come lettrice innanzitutto ma anche scrittrice, editrice, traduttrice ed insegnante, che rapporto ha con la scrittura? Cosa vuol dire per lei “scrivere”?

«Vuol dire liberarsi dei mali, spurgarsi. Insomma essere delle persone privilegiate, perché l’unico modo per ripulirsi un po’ è fare del proprio mestiere un’arte, nel senso di farlo con una passione che al lavoro ti fa aderire totalmente. Fortunato è chi riesce a farlo anche che so… facendo il barista, o qualsiasi altra cosa, perché se fatta bene è sempre un’arte. C’è però una differenza, chi panifica con arte ha più possibilità di ripulirsi completamente rispetto a chi scrive. Lo scrittore, di sporcizia si nutre per forza, e se scrivendo se ne libera, non c’è dubbio che questo passaggio continuo possa essere un po’ nocivo».

«Esiste una certa necessità di realismo nella vecchiaia, niente più illusioni», scrive ne La Donna delle Azzorre e il tema del tempo è centrale in “Ti Spiego” («Eravamo giovani. E’ triste ma è così. A un certo punto non lo si è più. E succede proprio in un momento, sai?»). Secondo lei nella nostra società, fa più paura la vecchiaia o la morte?

«Personalmente non avrei dubbi: la morte. La vecchiaia è una scocciatura, ma dipende molto da come stiamo dentro, organi e cervello compreso. Meno si è legati al passato della propria giovinezza e meno si invecchia tanto dentro quanto fuori. Ci vuole coraggio per vivere, e per averlo bisogna stare qui, né voltati indietro, né troppo inutilmente proiettati nel futuro.  Bisognerebbe abusare dell’oggi per stare meglio, vivere imitando la spina dorsale di un serpente, unita ma sciolta allo stesso tempo, tra un pezzo e l’altro ci passa di certo un benefico filo interdentale».

 

Fonte: Satisfiction del 3 settembre 2010

«Scrivere è una questione di ritmo». Parola di Erri de Luca

Il duello fra un uomo, il Cacciatore, e una bestia nobile, il Re dei Camosci, è al centro de Il peso della Farfalla (Feltrinelli editore; pp.70; €7.50) dello scrittore napoletano Erri De Luca. Sulla pagina si confrontano due diverse concezioni del tempo ma soprattutto, fra ammirazione e rispetto si sfidano due solitudini. Da un lato quella del Re dei camosci, «l’acrobata della montagna» ormai sfiancato dagli anni, dal peso di un ruolo che non può durare in eterno e dall’altro quella del cacciatore. Anch’egli solitario, scala i versanti, apre i sentieri e rispetta ciò che di nobile la natura serba in sé ma prima di ritirarsi vorrebbe confrontarsi con il Re e la sua astuzia che lo tiene lontano dal branco, un’assenza che incombe sui giovani scalpitanti. De Luca in poche ma densissime pagine, narra la poesia di un confronto che appare inevitabile con una prosa musicale, pregna di un’atmosfera quasi fiabesca. Segue il bel “Visita ad un albero”, dove emerge un De Luca ancor più personale racconta uno scorsio del suo rapporto con la Natura.

 

La narrazione si apre con il Re dei camosci. Come mai ha scelto questo animale?

«E’ la bestia più specializzata ad abitare quelle altezze, la più agile, la meglio organizzata. L’animale più bello che c’è lassù, un acrobata».Quando sono nati questi due racconti?«L’estate scorsa, in montagna quando raccolsi notizie su bracconieri e camosci. Li devo alla mia capacità di ascoltare le storie, le esperienze altrui».

La sua prosa, spesso piena di paesaggi con scorcio marino, ha virato verso il bosco e la montagna, due sue passioni dichiarate.

«Verissimo. Io scrivo storie che hanno a che vedere con i paraggi. Paraggi sia storici che geografici».

Molto importante il tema del tempo: per la natura importa solo il presente, per l’uomo il futuro.

«In questa storia incombe il sentimento di un tempo che sta scadendo, un tempo che è arrivato al termine della sua corsa senza sapere di preciso come si interromperà ma a differenza dell’uomo, l’animale sa».Lei scrive che il branco si pone regole ferree, allo stesso modo fa l’uomo che codifica le sue regole, salvo poi infrangerle spesso e volentieri.«Questa è una delle nostre specialità: Avere formato delle grandi comunità di vita associata ma aver introdotto la variante della disobbedienza, dell’esperimento anche individuale e ciò ha permesso alla nostra specie di attecchire molto più profondamente rispetto alle specie animali».

In giovane età il cacciatore faceva il pescatore, ma poi capì che non poteva essere il suo mestiere

«Il pescatore è tenuto ad una vita più sociale, è tenuto a prestare soccorso e ad organizzare in maniera più corale la sua vita lavorativa. Al contrario il cacciatore ma anche l’uomo di montagna sia esso agricoltore o allevatore, riesce a cavarsela da solo, è più solitario».Cos’è la solitudine?«In fin dei conti è una faccenda di temperamento. Semplicemente ci sono persone, come me, che si trovano meglio in quella condizione».

Narrando la giovinezza del cacciatore, lei accenna ad anni rivoluzionari che sovvertirono valori e regole. «Il protagonista, come me, dovrebbe avere circa sessant’anni, dunque per forza di cose è passato dentro la temperatura politica degli anni Settanta e lui come me ha obbedito alla chiamata di quella generazione rivoluzionaria».

“La montagna nasconde, ha vicoli, soffitte, sotterranei, come la città dei suoi anni più violenti, ma più segreti”. I nascondigli delle armi del cacciatore sono un’analogia con le soffitte e i “bassi” della sua Napoli?

«No perché Napoli è una città che sorveglia molto se stessa e i segreti sono molto ben distribuiti fra le persone. Napoli è una città che non permette l’individualismo sfrenato, al massimo un individualismo controllato, permesso dalla comunità che partecipa. I nascondigli di Napoli li sanno tutti quanti».

Lei scrive che un uomo senza donna è un “uomo-senza”. Perché?

«E’ una sua perdita, una sua rinuncia, una sua mancanza ma finchè non si scontra con una presenza non la si può notare, la si dimentica fatalmente. Nel momento in cui c’è una presenza femminile, quando una donna sfiora la vita di quest’uomo che vi ha rinunciato, solo allora emergono queste rinunce».

Come il cacciatore, anche lei crede in un padrone di tutto, in un Creatore?

«Un Creatore, un Capomastro, un Proprietario generale. Ciascuno dà un titolo a questo sentimento religioso».

Molti scrittori dicono di privilegiare l’istintività delle parole al lavoro di cesello. Per lei come funziona?

«Per me è tutta una questione di ritmo. Prendo il ritmo della voce narrante e non ho niente da cesellare».

 

Erri De Luca. Nato da una famiglia della media borghesia napoletana, vive circondato dai libri della biblioteca paterna. Entra a far parte di Lotta Continua e, nel ‘76, le amicizie lo portano in fabbrica e poi in giro per il mondo, da camionista a scaricatore di porto, da fattorino a muratore per circa vent’anni. Ha detto di essere riuscito a sopravvivere perché ogni mattina si svegliava un’ora prima per tradurre pagine della Bibbia dall’ebraico antico. Autore di numerosi libri di successo – è un autore cult in Francia – il suo esordio quasi a quarant’anni con “Non ora, non quì” ha stupito la critica per la sua prosa al confine con la poesia.

 

Fonte: www.tempostretto.it del 17 novembre 2009

 

«La mia vita tra i vulcani». A tu per tu con lo scrittore Erri De Luca

MESSINA. ‹‹LʼEtna è un vulcano simpatico, un vero fuoco dʼartificio, niente a che vedere col Vesuvio››. I ricordi di quellʼanno passato a Sigonella a scaricare aerei riportano Erri De Luca sotto il cratere dellʼEtna ma il centro del suo mondo narrativo è da sempre Napoli, da cui si è estratto a diciottʼanni, ‹‹come fosse un dente dalla mandibola››, quella Napoli fatta di vicoli intricati cui sente di appartenere, che porta dentro di se ancora oggi, ricreandola nel suo cuore come sulla pagina e che troviamo anche nel suo ultimo romanzo “Il giorno prima della felicità” (Feltrinelli Editore – pp.144 – € 13). Erri De Luca risponde alle domande con tono posato, ciascuna parola è pesata, evocativa quasi e sentirlo parlare rammenta la dolcezza, la malinconia provata leggendo le sue pagine: ‹‹Scrivo per ritrovare parte del mio passato, ma non provo alcuna nostalgia, non vorrei tornare in nessuna stazione precedente. Napoli è un luogo in cui non posso tornare, quel luogo da cui io provengo non esiste più››. Continua a leggere “«La mia vita tra i vulcani». A tu per tu con lo scrittore Erri De Luca”