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“Mare mosso”, il noir mediterraneo.

«Una storia avvincente, raccontata magnificamente. Un capolavoro nella tradizione di John Banville e Ian McEwan». 
Glenn Cooper

Mare mosso è la storia di un arduo salvataggio, ispirato a un’impresa realmente accaduta al largo del mar di Sardegna, che l’autore arricchisce con una decisa atmosfera da noir mediterraneo che rende omaggio a Corto Maltese e Jean-Claude Izzo, raccontando di traffici d’armi, stupefacenti, amicizie coraggiose e nemici senza scrupoli.

La notte del 24 dicembre 1981 Radio Cagliari intercetta l’SOS di un cargo turco alla deriva, la Izmir. Nella pancia della nave, in balìa del vento di maestrale forza sette, ci sono seicento tonnellate di pesce surgelato. Potrebbe affondare da un momento all’altro. Quella notte, quando il telefono squilla, Achille Vitale sale a bordo della Renault R4 e chiama a raccolta la sua piccola ciurma, organizzando i soccorsi. Achille ha trent’anni, è un ingegnere navale e dirige per conto del Cavaliere – un facoltoso armatore napoletano – una flotta di rimorchiatori a Cagliari. Il suo mestiere è quello di uscire in mare – di giorno o di notte, con qualsiasi tempo, in soccorso di yacht, motoscafi, navi cargo e petroliere in difficoltà – rischiando la vita senza paura. In quella medesima e fredda notte della vigilia del 1981, ad Atene c’è un uomo molto interessato a recuperare il carico della Izmir. Qualcosa di illegale e di gran valore. Cosa nasconde davvero la pancia d’acciaio della nave cargo? Riuscirà Achille Vitale a condurla in porto, affrontando la potenza feroce del mare in tempesta, i ripetuti guasti allo scafo e le spericolate contromosse attuate da quel misterioso uomo di Atene?

https://www.edizionieo.it/book/9788833575261/mare-mosso

Marcello Fois si racconta: «La letteratura è un atto rivoluzionario»

fois

Marcello Fois

«Gli scrittori hanno la capacità di vedere sotto la superficie delle cose. Un dono e al contempo una maledizione». Esponente della nuova letteratura sarda e co-ideatore del Festival delle Storie di Gavoi, Marcello Fois è innanzitutto, una delle voci più complesse e autorevoli del panorama letterario italiano. Scrittore prolifico (già vincitore del Premio Italo Calvino e del Premio Dessì), nonché sceneggiatore e commediografo, con il suo nuovo romanzo “Luce perfetta” (Einaudi, pp.314 €20) ha concluso dopo un decennio di lavoro, la sua imponente trilogia (iniziata con “Stirpe” e proseguita con “Nel tempo di mezzo”) narrando la saga familiare dei Chironi lungo tutto il Novecento e con essa, la storia d’Italia e delle sue tante trasformazioni, centrando l’attenzione sul tema identitario, sulle radici dell’azione. Fermo sostenitore della necessaria tutela della lingua sarda, Fois non ha abbandonato l’utopica speranza che un giorno la Sardegna, spogliata di ogni sentimento nostalgico, possa essere indipendente, pur ammettendo che «la strada da compiere è ancora lunga». Leggi il resto di questa voce

«L’indipendenza della Sardegna è una necessità storica». Michela Murgia si racconta

Dopo il grande successo ottenuto con “Accabadora” – che le valse la vittoria del premio Campiello 2010 – la scrittrice sarda Michela Murgia torna in libreria con “L’Incontro”, edito da Einaudi (pp. 112 euro 10). Ancora protagonista il tema della comunità ma stavolta, grazie alla voce narrante di Maurizio – un bimbo di dieci anni in vacanza a Crabas dai nonni – la Murgia si concentra sui limiti e sulle barriere che possono allontanarci persino dagli amici di infanzia, complice la decisione di un prete di fondare una seconda parrocchia, fratturando in due la comunità stessa. In questo nuovo libro la Murgia, la quale esordì con un libro sul mondo del precariato (“Il mondo deve sapere”) e in seguito evidenziò il ruolo della donna nella religione cattolica (“Ave Mary”), ci riporta nella sua terra natìa per la cui indipendenza si batte attivamente…

Ne L’Incontro ritorna l’ambientazione della comunità che aveva già usato per “Accabbadora” ma stavolta la prospettiva è mutata.

«Più che i limiti ho posto l’accento sulle contraddizioni insite nella vita comunitaria. Si tende a credere che la comunità sia infrangibile ma è una credenza assai lontana dalla realtà dei fatti. Se volessimo traslare il discorso al mondo della politica potremmo prendere come punto di riferimento il concetto di comunità nell’accezione leghista, dove l’estraneo in senso lato non ha cittadinanza, non può esserne incluso nemmeno da un punto di vista antropologico. L’Incontro è nato dall’idea di raccontare una storia dove la grammatica dell’estraneità fosse invertita, nella quale l’elemento destabilizzante non è rappresentato da un nemico sconosciuto ma dal proprio vicino di casa».

Perché ha scelto il punto di vista narrativo di un bambino? Quali sfumature le ha permesso di cogliere e cristallizzare sulla pagina?

«C’è certamente un lato autobiografico in questo libro poiché la scintilla iniziale è riferita ad un fatto realmente accaduto che io ho vissuto in tenera età. Per tale motivo affidarsi al punto di vista di un ragazzino è stata una scelta legata tanto all’istinto che alla memoria. La voce narrante del libro è cresciuta con un’unica idea di comunità ma ad un certo punto, questa unicità entra in crisi quando il suo compagno di giochi si troverà a far parte di un’alterità escludente».

Ne L’Incontro è centrale anche il tema di un’idea di infanzia smarrita nel tempo visto che oggi l’unica avventura possibile sembra quella concessa dalla televisione…

«Oggi i bambini sembrano poter incontrare l’avventura solo per caso, senza alcuna programmazione possibile, invece io e mio fratello ogni pomeriggio uscivamo da casa e sapevamo che potevamo concederci un certo margine di rischio senza la vigilanza costante di un adulto. L’infanzia è uno dei momenti topici per eccellenza, è il periodo in cui si formano i criteri che utilizzeremo per leggere la realtà futura, in modo conscio o inconscio. L’idea di analizzare la nascita di un’amicizia o la fine di una comunità dal punto di vista di un bambino mi sembrava davvero allettante poiché la loro realtà è fatta soltanto di certezze assolute refrattarie a qualsivoglia flessibilità».

Anche il ruolo degli anziani è mutato nella comunità, prima erano saggi e oggi sono diventati dei reietti. Cos’è accaduto?

«La società del passato preferiva il concetto di appartenenza a quello di efficienza, tanto in voga nei giorni nostri. L’appartenenza non esclude nessuno, nemmeno quando non è più utile al sistema produttivo, invece oggi gli anziani e i bambini ma anche le donne, quando decidono di fare le mamme, sono considerati cittadini di serie b poiché la percezione della loro utilità alla produzione diretta viene a mancare».

È noto il suo impegno per il movimento indipendentista sardo.

«È la principale causa per cui impegno il mio tempo, la mia scrittura e le mie risorse. Capisco che dopo aver fatto una critica sull’idea leghista della sclerotizzazione dell’idea comunitaria, possa sembrare un controsenso ma ciò non fa altro che dimostrare come i leghisti siano stati bravi a raccontare le cose sino ad impossessarsi dell’unico paradigma di indipendentismo. Non è così. Esistono percorsi di autodeterminazione che non sono di matrice nazionalista e che non riconoscono l’Altro come un pericolo o una negazione di sé. Questo è certamente il caso della Sardegna che mai potrà essere accusata di razzismo o xenofobia».

Marcello Fois e Salvatore Niffoi sottolineano l’importanza della tutela della lingua sarda. Cosa ne pensa?

«La lingua sarda deve trovare i suoi primi difensori in Sardegna. Recentemente il governo Monti ha stabilito che il sardo non è una lingua, negando qualsiasi aiuto economico per il suo insegnamento, i sardi si sono indignati ma lo hanno fatto in italiano perché la maggior parte di loro ha rinunciato volontariamente alla lingua natìa, relegandola al mondo intimo e familiare. Per quanto mi riguarda io parlo e scrivo in sardo ma non è questo il punto. Piuttosto credo che non sia più il tempo di parlare di una lingua-una nazione: si tratta di un concetto con un retrogusto fascista».

Quando vinse il Campiello disse che sognava una Sardegna indipendente. Conferma tutto?

«La Sardegna è già autonoma alla massima potenza e ha esigenze molto diverse dall’Italia. Credo che l’indipendenza non sia una prospettiva per l’isola, ma una necessità storica».

Francesco Musolino®

Marcello Fois: «lo strazio è la maledizione e la benedizione delle isole»

marcello-foisNel lontano 1943, Vincenzo Chironi mise per la prima volta piede in Sardegna, finalmente abbastanza risoluto per andare alla scoperta della propria identità. Il protagonista di “Nel tempo di mezzo” (Einaudi, pp.363, euro 20), il nuovo romanzo di Marcello Fois – apprezzato scrittore di lingua madre sarda – è un uomo che ha deciso di abbracciare le proprie radici, finendo catapultato in un macrocosmo, un’isola sconosciuta, “una zattera in mezzo al Mediterraneo”. Dopo il successo di “Stirpe”, Fois riprende a narrare l’epopea della famiglia Chironi, conducendoci dal ‘43 sino agli anni di piombo del ’78, da cui ripartirà il terzo ed ultimo capitolo. Fois – già finalista del premio Campiello – fa parte della rosa dei magnifici cinque che si contenderanno il premio Strega: “Questa edizione dello Strega è davvero ricca di ottimi scrittori. L’appoggio della casa editrice è stato determinante, poiché mi ha testimoniato quanto credessero nel mio libro, frutto di anni di lavoro”.

Il tema fondante del suo libro è il viaggio intrapreso alla ricerca dell’identità. Perché la memoria, soprattutto il suo riscatto, è uno dei cardini della letteratura?

«Perché offre una visuale a metà tra la propria esperienza personale e quella di tutti. La memoria diventa letteratura solo a patto che abbia la possibilità di essere condivisa anche da chi non l’ha vissuta allo stesso modo. Direi che il cardine di questo processo è la parola condivisione: una storia deve passare dall’autore al lettore senza che quest’ultimo si senta un ospite o, peggio, un intruso. Quanto all’identità, a me personalmente quella parola non piace, preferisco “appartenenza” che sfugge alla casualità anagrafica e rappresenta una scelta: Vincenzo, il mio protagonista, sceglie di diventare sardo, la sua è una scelta di appartenenza, la sua identità anagrafica sarebbe altrove».

Vincenzo seppe molti anni prima quali erano le sue origini paterne. Perché scelse di andarle a scoprire solo in età matura?

«Proprio perché un’appartenenza si sceglie e quindi ci vuole la maturità, l’attrezzatura, la competenza, il coraggio per affrontarla. Non è semplicemente quanto sta scritto su un documento ufficiale. Non per caso si chiama “carta d’identità”».

Lei è di madrelingua sarda. Qual è il suo personale rapporto con l’italiano?

«É importante parlare più lingue possibile. La lingua madre ha un surplus affettivo e sentimentale che la rende insostituibile, inavvicinabile, ma non può e non deve mai essere confusa con un condimento folk, detesto il pittoresco. Su fatti linguistici cerco di non farmi tirare per la giacca: la mia lingua non si tocca».

Scrive che “lo strazio è la maledizione e la benedizione delle isole”. Perché proprio lo strazio?

«Per quel senso di depressione particolarissimo che caratterizza il fatto di dover abbandonare la propria terra ogni volta che ci si sposta, sette ore di mare non sono poche. Quando si cresce con l’idea che si abita in un luogo che rappresenta tutto lo spazio percorribile, ogni viaggio diventa uno sradicamento. Ho passato la mia infanzia all’interno della Sardegna ogni distanza sembrava infinita e un viaggio anche solo fino a Cagliari sembrava l’estremo dei viaggi, perché oltre non c’era nulla, solo mare… Quella particolare malinconia è quanto io definisco strazio».

A cosa si riferisce quando parla di “tempi esigui”?

«Sono i tempi in cui abbiamo deciso di abbandonare la Memoria e la Sobrietà; quando abbiamo spezzato il contratto col nostro delicatissimo e prezioso territorio in nome del “tutto e subito”; quando anche l’azione politica è diventata un’attività cash, pronto cassa; quando abbiamo deciso che nel paese dell’arte “di cultura non si mangia”… Più esigui di così… Io ho cercato di raccontare quel tempo di mezzo in cui siamo passati dalla coscienza della povertà all’illusione della ricchezza; quando abbiamo cessato di diventare cittadini e siamo diventati solo consumatori; quando da emigranti siamo diventati coloro che rimandano i profughi in mare…»

Come mai ha scelto questo preciso lasso temporale che va dal ’43 al ’78?

«Non cito mai il terrorismo, ma il ’78 è l’anno della morte di Aldo Moro e il ’43 il proverbiale anno della fame. Tra questi due numeri sussiste l’arco della nostra trasformazione genetica come italiani… Dalla rinascita dopo la lotta partigiana alla nuova lotta armata, due fasi sanguinose e intestine. Il resto è stata un’elaborazione ostinata di quell’escalation come i corni di un arco che di volta in volta si avvicinano o si allontanano a seconda delle tensioni. Seguirono gli anni ottanta e poi i deprimenti anni novanta all’insegna della parola senza sostanza, fino ad oggi: anni decisamente esigui».

Vuole anticiparci qualcosa del capitolo finale della trilogia?

«Sarà la saga di Cristian, si intitolerà “La Parola Profonda”, sarà pronto fra un paio d’anni… Ci vuole tempo per provare a scrivere bene».

 Francesco Musolino®