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Marcello Fois si racconta: «La letteratura è un atto rivoluzionario»
«Gli scrittori hanno la capacità di vedere sotto la superficie delle cose. Un dono e al contempo una maledizione». Esponente della nuova letteratura sarda e co-ideatore del Festival delle Storie di Gavoi, Marcello Fois è innanzitutto, una delle voci più complesse e autorevoli del panorama letterario italiano. Scrittore prolifico (già vincitore del Premio Italo Calvino e del Premio Dessì), nonché sceneggiatore e commediografo, con il suo nuovo romanzo “Luce perfetta” (Einaudi, pp.314 €20) ha concluso dopo un decennio di lavoro, la sua imponente trilogia (iniziata con “Stirpe” e proseguita con “Nel tempo di mezzo”) narrando la saga familiare dei Chironi lungo tutto il Novecento e con essa, la storia d’Italia e delle sue tante trasformazioni, centrando l’attenzione sul tema identitario, sulle radici dell’azione. Fermo sostenitore della necessaria tutela della lingua sarda, Fois non ha abbandonato l’utopica speranza che un giorno la Sardegna, spogliata di ogni sentimento nostalgico, possa essere indipendente, pur ammettendo che «la strada da compiere è ancora lunga». Leggi il resto di questa voce
«L’indipendenza della Sardegna è una necessità storica». Michela Murgia si racconta
Dopo il grande successo ottenuto con “Accabadora” – che le valse la vittoria del premio Campiello 2010 – la scrittrice sarda Michela Murgia torna in libreria con “L’Incontro”, edito da Einaudi (pp. 112 euro 10). Ancora protagonista il tema della comunità ma stavolta, grazie alla voce narrante di Maurizio – un bimbo di dieci anni in vacanza a Crabas dai nonni – la Murgia si concentra sui limiti e sulle barriere che possono allontanarci persino dagli amici di infanzia, complice la decisione di un prete di fondare una seconda parrocchia, fratturando in due la comunità stessa. In questo nuovo libro la Murgia, la quale esordì con un libro sul mondo del precariato (“Il mondo deve sapere”) e in seguito evidenziò il ruolo della donna nella religione cattolica (“Ave Mary”), ci riporta nella sua terra natìa per la cui indipendenza si batte attivamente…
Ne L’Incontro ritorna l’ambientazione della comunità che aveva già usato per “Accabbadora” ma stavolta la prospettiva è mutata.
«Più che i limiti ho posto l’accento sulle contraddizioni insite nella vita comunitaria. Si tende a credere che la comunità sia infrangibile ma è una credenza assai lontana dalla realtà dei fatti. Se volessimo traslare il discorso al mondo della politica potremmo prendere come punto di riferimento il concetto di comunità nell’accezione leghista, dove l’estraneo in senso lato non ha cittadinanza, non può esserne incluso nemmeno da un punto di vista antropologico. L’Incontro è nato dall’idea di raccontare una storia dove la grammatica dell’estraneità fosse invertita, nella quale l’elemento destabilizzante non è rappresentato da un nemico sconosciuto ma dal proprio vicino di casa».
Perché ha scelto il punto di vista narrativo di un bambino? Quali sfumature le ha permesso di cogliere e cristallizzare sulla pagina?
«C’è certamente un lato autobiografico in questo libro poiché la scintilla iniziale è riferita ad un fatto realmente accaduto che io ho vissuto in tenera età. Per tale motivo affidarsi al punto di vista di un ragazzino è stata una scelta legata tanto all’istinto che alla memoria. La voce narrante del libro è cresciuta con un’unica idea di comunità ma ad un certo punto, questa unicità entra in crisi quando il suo compagno di giochi si troverà a far parte di un’alterità escludente».
Ne L’Incontro è centrale anche il tema di un’idea di infanzia smarrita nel tempo visto che oggi l’unica avventura possibile sembra quella concessa dalla televisione…
«Oggi i bambini sembrano poter incontrare l’avventura solo per caso, senza alcuna programmazione possibile, invece io e mio fratello ogni pomeriggio uscivamo da casa e sapevamo che potevamo concederci un certo margine di rischio senza la vigilanza costante di un adulto. L’infanzia è uno dei momenti topici per eccellenza, è il periodo in cui si formano i criteri che utilizzeremo per leggere la realtà futura, in modo conscio o inconscio. L’idea di analizzare la nascita di un’amicizia o la fine di una comunità dal punto di vista di un bambino mi sembrava davvero allettante poiché la loro realtà è fatta soltanto di certezze assolute refrattarie a qualsivoglia flessibilità».
Anche il ruolo degli anziani è mutato nella comunità, prima erano saggi e oggi sono diventati dei reietti. Cos’è accaduto?
«La società del passato preferiva il concetto di appartenenza a quello di efficienza, tanto in voga nei giorni nostri. L’appartenenza non esclude nessuno, nemmeno quando non è più utile al sistema produttivo, invece oggi gli anziani e i bambini ma anche le donne, quando decidono di fare le mamme, sono considerati cittadini di serie b poiché la percezione della loro utilità alla produzione diretta viene a mancare».
È noto il suo impegno per il movimento indipendentista sardo.
«È la principale causa per cui impegno il mio tempo, la mia scrittura e le mie risorse. Capisco che dopo aver fatto una critica sull’idea leghista della sclerotizzazione dell’idea comunitaria, possa sembrare un controsenso ma ciò non fa altro che dimostrare come i leghisti siano stati bravi a raccontare le cose sino ad impossessarsi dell’unico paradigma di indipendentismo. Non è così. Esistono percorsi di autodeterminazione che non sono di matrice nazionalista e che non riconoscono l’Altro come un pericolo o una negazione di sé. Questo è certamente il caso della Sardegna che mai potrà essere accusata di razzismo o xenofobia».
Marcello Fois e Salvatore Niffoi sottolineano l’importanza della tutela della lingua sarda. Cosa ne pensa?
«La lingua sarda deve trovare i suoi primi difensori in Sardegna. Recentemente il governo Monti ha stabilito che il sardo non è una lingua, negando qualsiasi aiuto economico per il suo insegnamento, i sardi si sono indignati ma lo hanno fatto in italiano perché la maggior parte di loro ha rinunciato volontariamente alla lingua natìa, relegandola al mondo intimo e familiare. Per quanto mi riguarda io parlo e scrivo in sardo ma non è questo il punto. Piuttosto credo che non sia più il tempo di parlare di una lingua-una nazione: si tratta di un concetto con un retrogusto fascista».
Quando vinse il Campiello disse che sognava una Sardegna indipendente. Conferma tutto?
«La Sardegna è già autonoma alla massima potenza e ha esigenze molto diverse dall’Italia. Credo che l’indipendenza non sia una prospettiva per l’isola, ma una necessità storica».
Francesco Musolino®
Carmine Abate: «Mi piace la competizione»
Alla finalissima della 50esima edizione del Premio Campiello che si terrà stasera, sabato 1° settembre, a Venezia (presso il Teatro La Fenice), lo scrittore calabrese Carmine Abate si presenta con il favore dei pronostici ma dovrà vedersela con agguerriti avversari su cui spiccano Marcello Fois e Francesca Melandri (senza tralasciare Marco Missiroli e Giovanni Montanaro), tutti in attesa del verdetto dei trecento lettori della Giuria. Originario di Carfizzi (Crotone), Abate è emigrato giovanissimo in Germania con la propria famiglia e oggi vive in Trentino per cui non sorprende che il ricordo e la difesa della propria terra natìa siano i temi cardine dei suoi scritti che ritroviamo anche nel suo ultimo romanzo, La collina del vento (Mondadori, pagine 250 euro 17,50) con il quale Abate cerca la definitiva consacrazione. La famiglia Arcuri e la sua tenace resistenza ad ogni sorta di soprusi è al centro della narrazione che prende avvio nel 1902 e si concluderà solo un secolo dopo ma il personaggio principale sarà il celebre archeologo Paolo Orsi che condurrà il lettore sulle orme della Magna Grecia…
Alla finale del Premio Campiello lei si presenta da favorito, anche se al Campiello sembrano godere di più fortuna gli autori settentrionali. Sente di “giocarsela in trasferta”?
«Da ragazzo correvo i cento metri a livello agonistico, so cosa vuol dire gareggiare e cosa significa sportività. Perciò me la gioco tranquillamente in trasferta, come dice lei, consapevole che ciò che conta in un premio trasparente come il Campiello non è la provenienza geografica di un autore ma la forza delle storie che narra».
Quale dei suoi avversari teme maggiormente o ha letto con maggiore interesse?
«Li ho letti tutti con molto interesse e curiosità per la stima che nutro nei confronti di ognuno di loro. Siamo stati assieme in dieci incontri, tra di noi sono nate delle amicizie, non li vedo come avversari ma come colleghi che hanno avuto come me la fortuna di essere stati scelti da una giuria molto competente come i cinque vincitori del premio selezione Campiello. Ora aspetto, sereno, il verdetto della giuria popolare».
La collina del vento narra l’epopea della famiglia Arcuri nell’arco di un secolo. Perché ha scelto di narrarla?
«Questa storia nasce da un’immagine reale, quella di una collina dell’Alto Crotonese che si affaccia sullo Ionio, e da una promessa che ho fatto a mio padre l’ultimo anno della sua vita: avrei raccontato le storie che lui mi raccontava, anche le più segrete e scomode, prima che morissero con lui. Da questa promessa è scaturita l’urgenza, la necessità che è alla base di ogni mio libro. Il resto è venuto da sé».
Sia la collina del Rossarco, cui accenna il titolo, che la stessa Calabria, atavica e arida, possono essere intese in senso allegorico, quasi come fossero veri e propri personaggi?
«Nel rileggere la prima stesura del romanzo, anch’io mi sono accorto del fatto che la collina diventava il simbolo di una terra ferita e bellissima. Confesso che all’inizio non era voluto. È questa la forza della letteratura: che un microcosmo possa diventare un grande personaggio con un’anima e degli occhi, e soprattutto che possa contenere i grandi temi della vita – l’amore, la morte, il mistero, l’identità, ecc. -, divenire universale, insomma, riguardando tutti i lettori e non solo quelli che la popolano».
Nel suo modo di narrare la Calabria prevale maggiormente la malinconia o la voglia di riscatto?
«Sicuramente la voglia di riscatto. Non a caso, attraverso la famiglia Arcuri, racconto di gente che resiste ai soprusi di ogni tipo nell’arco di un secolo: del latifondista locale, poi podestà, delle intimidazioni mafiose e, ai giorni nostri, dei cosiddetti signori del vento che stanno riempiendo la Calabria di pale eoliche e vorrebbero costruirne due sulla collina del Rossarco. Spero che le famiglie come quella degli Arcuri diventino più numerose in tutto il Sud. Perché senza di loro il riscatto non sarà possibile. E senza riscatto non ci sarà futuro».
Perché ha scelto di portare sulla pagina il celebre archeologo Paolo Orsi impegnato nella ricerca di Krimisa? Le piace l’idea di aver velato di mistero il suo romanzo?
«La prima volta che mi sono imbattuto in Paolo Orsi è stato quando agli inizi degli anni Ottanta ho fatto la prima supplenza a Rovereto, nella scuola media a lui intitolata. Allora non sapevo nulla di questo straordinario personaggio. Poi ho scoperto che aveva scavato nel 1924 a pochi chilometri dal mio paese, alla ricerca dei resti del tempio di Apollo Aleo e dell’antica cittadina magno-greca di Krimisa. Non sono stato io a velare di mistero la mia storia: è misteriosa la ricerca di questa città, e ancora di più è misteriosa la collina che nelle sue viscere nasconde tanti segreti».
Da giovane si è dato alla scrittura, dalla prosa alla poesia. Ma cosa significa per lei scrivere?
«Per collegarmi alla domanda precedente, scrivere vuol dire scavare nella propria vita, nella memoria collettiva. Aggiungerei, parafrasando Elias Canetti che se ne intendeva: scrivere vuol dire custodire la metamorfosi, cioè la memoria che si trasforma fino a diventare presente».
Francesco Musolino
da La Gazzetta del Sud
Marcello Fois: «lo strazio è la maledizione e la benedizione delle isole»
Nel lontano 1943, Vincenzo Chironi mise per la prima volta piede in Sardegna, finalmente abbastanza risoluto per andare alla scoperta della propria identità. Il protagonista di “Nel tempo di mezzo” (Einaudi, pp.363, euro 20), il nuovo romanzo di Marcello Fois – apprezzato scrittore di lingua madre sarda – è un uomo che ha deciso di abbracciare le proprie radici, finendo catapultato in un macrocosmo, un’isola sconosciuta, “una zattera in mezzo al Mediterraneo”. Dopo il successo di “Stirpe”, Fois riprende a narrare l’epopea della famiglia Chironi, conducendoci dal ‘43 sino agli anni di piombo del ’78, da cui ripartirà il terzo ed ultimo capitolo. Fois – già finalista del premio Campiello – fa parte della rosa dei magnifici cinque che si contenderanno il premio Strega: “Questa edizione dello Strega è davvero ricca di ottimi scrittori. L’appoggio della casa editrice è stato determinante, poiché mi ha testimoniato quanto credessero nel mio libro, frutto di anni di lavoro”.
Il tema fondante del suo libro è il viaggio intrapreso alla ricerca dell’identità. Perché la memoria, soprattutto il suo riscatto, è uno dei cardini della letteratura?
«Perché offre una visuale a metà tra la propria esperienza personale e quella di tutti. La memoria diventa letteratura solo a patto che abbia la possibilità di essere condivisa anche da chi non l’ha vissuta allo stesso modo. Direi che il cardine di questo processo è la parola condivisione: una storia deve passare dall’autore al lettore senza che quest’ultimo si senta un ospite o, peggio, un intruso. Quanto all’identità, a me personalmente quella parola non piace, preferisco “appartenenza” che sfugge alla casualità anagrafica e rappresenta una scelta: Vincenzo, il mio protagonista, sceglie di diventare sardo, la sua è una scelta di appartenenza, la sua identità anagrafica sarebbe altrove».
Vincenzo seppe molti anni prima quali erano le sue origini paterne. Perché scelse di andarle a scoprire solo in età matura?
«Proprio perché un’appartenenza si sceglie e quindi ci vuole la maturità, l’attrezzatura, la competenza, il coraggio per affrontarla. Non è semplicemente quanto sta scritto su un documento ufficiale. Non per caso si chiama “carta d’identità”».
Lei è di madrelingua sarda. Qual è il suo personale rapporto con l’italiano?
«É importante parlare più lingue possibile. La lingua madre ha un surplus affettivo e sentimentale che la rende insostituibile, inavvicinabile, ma non può e non deve mai essere confusa con un condimento folk, detesto il pittoresco. Su fatti linguistici cerco di non farmi tirare per la giacca: la mia lingua non si tocca».
Scrive che “lo strazio è la maledizione e la benedizione delle isole”. Perché proprio lo strazio?
«Per quel senso di depressione particolarissimo che caratterizza il fatto di dover abbandonare la propria terra ogni volta che ci si sposta, sette ore di mare non sono poche. Quando si cresce con l’idea che si abita in un luogo che rappresenta tutto lo spazio percorribile, ogni viaggio diventa uno sradicamento. Ho passato la mia infanzia all’interno della Sardegna ogni distanza sembrava infinita e un viaggio anche solo fino a Cagliari sembrava l’estremo dei viaggi, perché oltre non c’era nulla, solo mare… Quella particolare malinconia è quanto io definisco strazio».
A cosa si riferisce quando parla di “tempi esigui”?
«Sono i tempi in cui abbiamo deciso di abbandonare la Memoria e la Sobrietà; quando abbiamo spezzato il contratto col nostro delicatissimo e prezioso territorio in nome del “tutto e subito”; quando anche l’azione politica è diventata un’attività cash, pronto cassa; quando abbiamo deciso che nel paese dell’arte “di cultura non si mangia”… Più esigui di così… Io ho cercato di raccontare quel tempo di mezzo in cui siamo passati dalla coscienza della povertà all’illusione della ricchezza; quando abbiamo cessato di diventare cittadini e siamo diventati solo consumatori; quando da emigranti siamo diventati coloro che rimandano i profughi in mare…»
Come mai ha scelto questo preciso lasso temporale che va dal ’43 al ’78?
«Non cito mai il terrorismo, ma il ’78 è l’anno della morte di Aldo Moro e il ’43 il proverbiale anno della fame. Tra questi due numeri sussiste l’arco della nostra trasformazione genetica come italiani… Dalla rinascita dopo la lotta partigiana alla nuova lotta armata, due fasi sanguinose e intestine. Il resto è stata un’elaborazione ostinata di quell’escalation come i corni di un arco che di volta in volta si avvicinano o si allontanano a seconda delle tensioni. Seguirono gli anni ottanta e poi i deprimenti anni novanta all’insegna della parola senza sostanza, fino ad oggi: anni decisamente esigui».
Vuole anticiparci qualcosa del capitolo finale della trilogia?
«Sarà la saga di Cristian, si intitolerà “La Parola Profonda”, sarà pronto fra un paio d’anni… Ci vuole tempo per provare a scrivere bene».
Francesco Musolino®