Karl Ove Knausgård: «Vi racconto la mia lotta»

Karl Ove Knausgård
Karl Ove Knausgård

Per il cuore la vita è semplice: batte finche può, poi si ferma≫. E questo l’incipit semplice ma incisivo del primo volume de La mia lotta (I) (Ponte alle Grazie; pp.489; €18,60) nel quale lo scrittore norvegese Karl Ove Knausgård ha voluto raccontare la propria vita, senza risparmiare i dissapori, le delusioni, i fallimenti ma nemmeno le gioie e la banalità quotidiana che ne sono parte. Knausgård rappresenta il fenomeno letterario più rilevante del Nord Europa e l’editore ha già pubblicato quattro dei sei volumi che compongono il progetto. Ma perché tanto successo? Il merito più grande e di aver saputo coniugare ad uno spunto semplice, persino banale, una prosa sempre fluida che trascina, riuscendo a ridare vita ai propri ricordi, rivivendoli come fosse la prima volta. Va da sé che il paragone con la Recherche proustiana sarebbe d’obbligo tanto più che lo stesso autore dichiara d’averla divorata in giovane età, ma gli stili di scrittura e le immagini evocate sono talmente dissimili che si finirebbe fuori strada e si farebbe torto ad entrambi gli autori. Il primo volume, da poco edito in Italia, si incentra sul rapporto ai limiti della schizofrenia che il mondo occidentale riserva alla morte: le salme vengono subito coperte, nascoste alla vista degli occhi, scomparendo nei sotterranei degli obitori prima di finire sottoterra. Inoltre Knausgård nel primo volume rivive il controverso rapporto con il padre, dall’infanzia sino alla sua morte, cercando di elaborare il suo lutto nell’arco delle pagine. E proprio il padre, dichiara l’autore, e l’unica persona di cui ha scritto davvero male. A parte se stesso ovviamente.

la-mia-lotta_copertina_h_partbPerché ha deciso di narrare la sua vita? È uno spunto semplice eppure senza dubbio molto impegnativo con cui confrontarsi.

In realtà non avevo alcun tipo di idea iniziale. La mia lotta e una storia che si e sviluppata in modo quasi autonomo all’inizio ma la chiave di volta e stata l’aver sviluppato un linguaggio particolare e alla fine mi sono trovato in mano oltre tremila pagine. Al contrario di quanto si potrebbe pensare, a me non piace scrivere di me stesso. Fra l’altro ci sono alcuni periodi della mia vita che ricordo con grande disprezzo. E’ stata una vera e propria sfida restare cosi a lungo da solo con me stesso, non è stato affatto facile, ma ci sono riuscito perché ritengo di non aver raccontato la mia storia, quanto quella di un essere umano che ha vissuto in quegli stessi luoghi e nel mio medesimo arco temporale.

Lei ha scelto di sezionare e analizzare ogni istante della sua vita, partendo dall’infanzia. Come ha raccolto tanto materiale in maniera così accurata?

Quando ho cominciato a dedicarmi a questo progetto ho scelto di non documentarmi in alcun modo, di non fare alcuna intervista ai miei parenti o ai miei amici. Volevo concentrarmi solo su ciò che io stesso ricordavo. Il passo successivo e stato quello di prendere ciascun ricordo, qualcosa di per se statico e rarefatto nel tempo, espandendolo e rendendolo di nuovo vivo. Inoltre, essendo dotato di una forte memoria visiva, mi sono re-immaginato nelle sensazioni che narravo, cercando di riviverle daccapo. Credo che il processo di scrittura sia certamente un processo di memoria.

Aver ricreato ciascuna situazione della sua vita implica anche aver rivissuto il rapporto con suo padre?

Sicuramente si. Ho avuto la possibilità di rivivere quel rapporto dopo tanto tempo ma soprattutto ho potuto farlo tramite il linguaggio narrativo, un linguaggio analitico che parla al cuore e non alla razionalità. Tutto ciò mi ha permesso di comprendere più a fondo me stesso, mio padre e il nostro travagliato rapporto.

Karl Ove Knausgård
Karl Ove Knausgård

Per incipit ha scelto un concetto molto interessante riguardo la necessaria negazione della morte nella nostra società: perché ha fatto questa scelta?

Quando ho scritto questo incipit non ci ho pensato consciamente ma dopo mi sono reso conto che avevo scritto un saggio sulla morte che rappresenta una sorta di metafora per tutto il mio progetto, ovvero la differenza sottile che passa fra come le cose vengono percepite nel privato e in ambito sociale. Ciò significa che numerosi argomenti, fra cui la morte, vengono affrontati in famiglia ma difficilmente se ne parla in pubblico. L’unica morte visibile e quella che i mass media quotidianamente ci portano sin dentro casa, tramite i film o i fatti di cronaca, eppure, a ben vedere, queste non sono morti reali ma in un certo senso commerciali, figlie del mondo fatto di immagini che ci circonda.

Lei scrive così: «L’unica cosa che ho imparato dalla vita è resistere». E successivamente: «Ciò che mi ha spinto ad andare avanti è stata l’ambizione di scrivere qualcosa di unico». Dunque dalla sua personale lotta lei è uscito vincitore?

Direi proprio di no perché quest’opera non rappresenta il mio libro per eccellenza, il mio capolavoro, anzi, penso che il successo che sta riscontrando sia una sorta di incidente di percorso. Nutro ancora l’ambizione di scrivere qualcosa di bello, di importante e probabilmente ce l’avrò per tutta la vita perché non e certamente un obiettivo facile da raggiungere. Forse non ho ancora l’abilità narrativa a cui ambisco. Certo la tranquillità economica derivante da questo successo mi da fiducia.

Sappiamo che nel quinto volume lei ha scritto della sua relazione extraconiugale. I suoi amici come l’hanno presa?

E stato certamente doloroso scrivere del tradimento. Mia moglie ovviamente sapeva che l’avrei fatto ed é stata d’accordo perché ne parlo come un evento che fa parte della mia vita e che e entrato naturalmente nel flusso del racconto, chiarendo ulteriormente il particolare periodo che stavamo vivendo. Se l’avessi omesso non sarebbe stata la stessa cosa. Per quanto riguarda il resto, prima di pubblicare il libro ho inviato a tutti il manoscritto e ciascuno poteva dare o meno il proprio assenso.

Impossibile non domandarle quanta finzione e quanta vita realmente vissuta ci siano percentualmente in questo libro.

Tutti i fatti e gli eventi nudi e crudi sono assolutamente veri, ma quando si scrive un romanzo e necessario rielaborare il tutto. Direi che la fiction interviene sia nella rielaborazione, nella ricostruzione totale dei fatti che nel posizionamento delle scene sulla pagina.

Perché fermarsi a sei volumi? Come si decide di chiudere la propria autobiografia?

So sicuramente che finirà col sesto volume perché ho in mente da tempo l’ultima frase che lo concluderà e non vedo l’ora di scriverla. Sono sei volumi anche per una questione di simmetria perché l’editore ha voluto che uscissero tre in autunno e tre in

primavera. Pensate che inizialmente l’editore aveva proposto dodici libri, uno per ogni mese ma poi si é deciso per sei volumi. Sicuramente non mi dedicherò mai più all’autobiografia.

Perché? Ne è rimasto traumatizzato o ha detto tutto ciò voleva?

Volevo svuotarmi di tutto ciò che avevo dentro e adesso che l’ho fatto posso ripartire da un foglio bianco e affrontare un nuovo progetto.

Francesco Musolino®

Fonte: Stilos, dicembre 2010

 

La Vita Oscena di Aldo Nove

Per vent’anni lo scrittore Aldo Nove (al secolo Antonello Satta Centanin) ha convissuto con i suoi fantasmi. Rimasto orfano bambino dopo la morte di entrambi i genitori, è piombato dalla prima adolescenza nella dipendenza da alcol e psicofarmaci, decidendo di intraprendere, volontariamente, una discesa verso l’Abisso: «Compivo diciassette anni e il mio unico desiderio era quello di morire il più presto possibile». Amante della poesia – Aldo Nove è anche un poeta apprezzato oltre che tra gli storici redattori del mensile “Poesia” – giunto a Milano ha scelto la cocaina come vettore di morte, proprio come George Trakl, il grandissimo poeta tedesco che scelse di suicidarsi proprio con un’overdose di cocaina.

 

La Vita Oscena (Einaudi, pp. 111, €15,50) segna per Aldo Nove un momento fondamentale perché dà prova di saper padroneggiare una scrittura fatta di attimi sezionati con una prosa che sconcerta e trascina il lettore in un lungo cammino verso la ricerca di un limite umano che si trova sempre un gradino più in basso. I temi fondanti sono l’oscenità e la pornografia – sempre imperanti ma mutate oggi in modo (im)mediato-  il senso di colpa e la ricerca della morte con l’ausilio di una “coscienza anestetizzata” che diventa metafora attualissima di una società più cannibalizzata che cannibale.

Ha impiegato vent’anni per scrivere questo libro e poi lo ho terminato in un mese e mezzo. Perché adesso?

«L’ho fatto appena ho avuto l’impressione di aver raggiunto gli strumenti linguistici sufficienti per potermi muovere con della materia piuttosto incandescente. Quando mi sono reso conto che potevo rielaborare con la giusta serenità il materiale di cui volevo parlare, mi sono messo al lavoro»

Dopo aver involontariamente provocato l’esplosione di casa sua, lei viene ricoverato con gravi ustioni. Decide, metaforicamente, di indossare una maschera: “Io non ero più di me”, ripete più volte sulla pagina.

«Quando c’è una grande alterazione dello stato d’animo, il dolore, finisce per alienarci, ci allontana da noi stessi. Talvolta ciò scatena conseguenze assai pericolose come nel caso degli attentatori o dei kamikaze, che magari reagiscono a grandi sofferenze intese anche in chiave sociale. Il dolore ci trasforma. Il dolore trasforma anche il nostro modo di presentarci agli altri, talvolta anche in modo pericoloso».

L’oscenità è un concetto fondante nel suo libro. Gli altarini con le riviste hard nelle edicole hanno lasciato il posto ad una pornografia accessibile, a portata di mouse. Oggi cos’è osceno? Quali sono i tabù delle nuove generazioni?

«Ogni tanto si sente dire “io non sono moralista” oppure “non voglio fare della morale”. Queste frasi sembrano indicare che, nel periodo in cui tutti i valori sono stati capovolti, oggi la morale stessa sia divenuta un tabù, per cui l’osceno potrebbe essere rappresentato dalla semplice normalità».

In casa vostra nessuno pronunciò mai la parola “cancro”. Ancora oggi si esorcizza la malattia col linguaggio. Serve a qualcosa?

«No, fa male. E’ un errore profondamente umano, magari una forma di delicatezza ma non serve a nulla, anzi, ci allontana dalla realtà».

Che rapporto ha con la religione? Il senso di colpa è dominante in lei?

«E’ un discorso molto complesso. Fin quando il senso di colpa viene inteso come la semplice consapevolezza che ad ogni comportamento consegue un effetto, va bene. Ma l’errore del cattolicesimo, a mio avviso, sta nella sessuofobia, legando in modo indiscriminato la colpa alla sessualità, finendo per stravolgere l’intero senso della nostra esistenza. Quello che è più assurdo è che gli stessi preti si inculano i ragazzini…»

Lei scrive che “il dolore è l’unico maestro” e che “al massimo dolore corrisponde il massimo piacere”. Dobbiamo temerlo o no, il dolore?

«E’ impossibile non temere il dolore, nessuno può farlo. Credo che esista soprattutto un piacere derivante dalla sottrazione del dolore, come per un mal di denti che passa o per una sovreccitazione sessuale finalmente sfogata, ma non credo esista un piacere totalmente svincolato dal dolore».

Lei “doveva provare tutto”. Ma dopo averlo fatto cosa accade?

«Magari ci si annoia. Leggendo le biografie dei grandi santi, ad esempio San Francesco, scopriamo che lui aveva provato tutto e alla fine, aveva cambiato radicalmente vita. Magari facesse così anche Berlusconi. Ci mancherebbe altro che si mettesse a fare il santo…»

Sua madre si augurava che in futuro il mondo sarebbe migliorato, sarebbe diventato un bel posto in cui vivere. Mi sembra che siamo lontani.

«Non solo siamo lontani, siamo infinitamente lontani. La situazione è molto peggiore rispetto al passato. Voglio fare un esempio e restringo il campo alla politica italiana: se vent’anni fa avessi pensato che oggi Gianfranco Fini sia la chiave per migliorare la situazione politica italiana, sarei impazzito. Ma oggi accade questo ».

Comprendere che tutti non fanno altro che andare avanti giorno dopo giorno è intimamente connesso alla mercificazione dominante nella nostra società?

«Sottolineo che quella folgorazione giunge in un momento molto particolare per il protagonista del romanzo. Oggi mi rendo conto che questa è una forte tendenza negativa ma per fortuna non vale per tutta l’umanità».

La discesa verso l’abisso l’avrebbe dovuta condurre verso l’Oltre che desiderava. Invece cosa avvenne?

«”Abissum abissus invocat” come dicevano gli antichi, ad un abisso ne segue un altro. Ad un certo punto o subentra il limite naturale della morte oppure avviene una naturale presa di coscienza, la volontà di sopravvivere».

Per tornare al tema della moralità, è servito del coraggio per portare sulla pagina ciò che le è accaduto?

«Fortunatamente lo scrittore ha un filtro ovvero la letteratura, è cosa ben diversa dall’andare a “La Vita in diretta” a raccontare le proprie catastrofi. La finalità dello scrittore non deve semplicemente creare scandalo ma fare della letteratura e ciò gli permette di muoversi su registri più complessi».

Ritornando all’attualità italiana, fra scandali, escort e corruzione il popolo è vicino al limite di sopportazione secondo lei?

«La questione è proprio capire dove sia questo limite. Sicuramente si percepisce un disagio fortissimo e tutte le rivoluzioni, in fondo, sono partite dalla pancia piuttosto che dalla riflessione. In Italia si tira avanti ma il malessere interiore, sommato ai problemi derivanti dalla crisi economica, inevitabilmente comporterà delle conseguenze e francamente non credo che passerà ancora molto tempo».

Antonello Satta Centanin è rinato come Aldo Nove?

«Sicuramente. Aldo Nove è un laboratorio linguistico di quell’altro».

 

 

Fonte: Satisfiction del 30/11/2011

Il precariato esistenziale di Facebook è protagonista nei “Diciotto secondi prima dell’alba” di Giorgio Scianna

Diciotto secondi prima dell’alba, il romanzo di Giorgio Scianna (Einaudi, pp.210, €17) è un insieme di cose. Un gioco di suspense, un tributo alla musica, una denuncia contro la vanità dei social networke un inno, inconscio, alla precarietà: «Edo e i suoi amici non sono precari perché la società o il reddito insufficiente gli impediscano di fare scelte definitive, di diventare adulti, il precariato è lo stato di esistenza in cui stanno meglio». Edoardo fa parte della Milano “bene”: il padre è socio d’uno studio d’avvocati in pieno centro, accanto a se ha Marta, una fidanzata quasi perfetta e una ristretta ma forte cerchia di amici come guscio di protezione. La musica, ColdplaySigur Ros, è la sua unica forma di evasione dichiarata, ostentata dal colore bianco delle cuffiette dell’iPod: «Per lui la musica è molto più di uno svago: è la colonna sonora della sua vita. Certo riempie i suoi vuoti, ma è anche un mezzo per capire il mondo che lo circonda». In questo equilibrio stabile ma delicatissimo che è il mondo di Edo, fa il suo ingresso Ksenja, una bellissima ragazza del’Est della quale lui riesce a carpire poco o nulla. Un mistero che lo affascina e lo trascina in una zona dove non c’è controllo. Lei diventa la sua ossessione e alla fine, ovviamente, ci sarà un prezzo da pagare.

Una volta terminato il libro – nella quarta parte e ultima parte, il tempo non è più l’elemento dominante, cedendo il posto al corpo e alle sensazioni tattili – è evidente come Giorgio Scianna abbia saputo dominare appieno la suspense dosando con cura le informazioni e facendoci cadere preda degli stereotipi.

Scianna perché ha voluto questo titolo? Cosa accade “diciotto secondi prima dell’alba”?

«Diciotto secondi prima dell’alba è un momento di sospensione: non è più notte e non è ancora giorno. In un momento così accade l’evento drammatico che segna la svolta nella vita di Edo. Ma il tema della sospensione percorre in maniera sotterranea tutto il romanzo. La vita del protagonista è sospesa in quella zona di confine che c’è prima della maturità piena, prima delle scelte professionali e sentimentali definitive. “Diciotto secondi prima dell’alba” è tutto questo, eppure è semplicemente il titolo di una canzone dei Sigur Ros, il gruppo islandese. Una traccia di diciotto secondi di silenzio tra un pezzo e l’altro».

Ksenja è protagonista diretta solo di una piccola parte del libro ma la sua figura aleggia sull’intero libro. Una presenza di questo tipo, fatta di allusioni, ricordi propri e altrui, è difficile da costruire narrativamente?

«La cosa difficile è lavorare sul non detto senza essere evanescenti. Anche la suspense ha bisogno di accadimenti precisi e, allo stesso tempo, di zone d’ombra. Quanto a Ksenja, esce di scena quando di lei sappiamo ancora poco e rimane la voglia di conoscerla di più. Ma per poterla capire è necessario mettere insieme i pezzi della sua vita, ricostruire i suoi incontri, bisogna seguire le sue tracce ovunque queste portino. La suspense non è privilegio che hanno solo le storie poliziesche. E’ una tecnica per catturare l’attenzione e fare in modo che non cada mai. “Diciotto secondi prima dell’alba” è una storia in cui ci sono dentro un evento traumatico, un’indagine e un mistero da svelare. Sono situazioni che finiscono per richiamare l’atmosfera noir».

Edoardo confessa che Marta l’aveva già tradita ma Ksenja è un’altra cosa. In un certo senso proprio la sua diversità la rende quasi un ossessione…

«Ksenja è bellissima, affascinante ed enigmatica. Una violoncellista in abito da sera. Sono queste cose a catturare Edo, ma è solo la sua scomparsa a legarlo così forte a lei. Edo è ossessionato dal capire i segreti che si nascondono dietro quella donna, ma forse c’è in gioco anche un mistero più grande, quotidiano, che riguarda la sua stessa vita».

Nel romanzo affronta  di petto la vanità e l’egocentrismo del mondo di Facebook. Molti scrittori costruiscono il proprio pubblico proprio su questo social network, curando la propria pagina in modo (quasi) ossessivo: uno strumento di comunicazione può tramutarsi in una vetrina per se stessi?

«E’ così. Facebook ha sdoganato l’intimità dei sentimenti e degli stati d’animo. Non solo perché in rete si raccontano i fatti propri, ma perché capita di vivere gli eventi chiedendosi come raccontarli più tardi su Facebook. Prima ancora di domandarsi cosa si prova, ci si interroga su come rappresentare se stessi. E’ un reality continuo con le telecamere puntate. Non è tanto questione di esibizionismo, quello ognuno se lo gestisce come vuole, temo che sia diventata una sorta di condanna: se vuoi comunicare ed essere socialmente vivo, quella è l’unica via».

La musica assume un ruolo importante a livello narrativo sin dalla prima pagina, quasi come fosse un personaggio e le cuffie dell’ipod aiutano Edoardo ad isolarsi dal mondo. La scelta della musica ricalca i suoi gusti o sono affini a quelli del suo personaggio?

«Vado molto d’accordo con Edo e abbiamo gusti simili. Per lui la musica è molto più di uno svago: è la colonna sonora della sua vita. Certo riempie i suoi vuoti, ma è anche un mezzo per capire il mondo che lo circonda. Per Ksenja è quasi il contrario, la musica è quello che le dà da vivere, ma non le procura nessun piacere. L’intimità continua con il violoncello ormai è solo un fastidio, e, per assurdo, di musica non ne ascolta mai. Per Edo è inconcepibile, le canzoni dei Sigur Ros e dei Coldplay sono sempre nella sua testa. La musica per Edo. E’ sempre accesa, sempre “on”. Da sfondo finisce per riempire i suoi pensieri, quando rimane solo è l’unica compagnia che entra nel suo letto. Ma mi piace sottolineare l’ambivalenza musicale di Edo perché Coldplay e Sigur Ros sono due mondi lontanissimi. Edo ha una personalità più complessa di quanto possa sembrare al primo incontro. Cerca conferme e gli piace sperimentare. E’ incuriosito dalla ricerca musicale dei Sigur Ros, e alla fine quei brani che “non esplodono mai” diventano la colonna sonora del libro».

Quando Edoardo si rende conto di non aver organizzato le vacanze estive comincia a ricevere inviti sempre più insistenti. Perché nessuno sembra accettare pacificamente l’altrui voglia di solitudine? E’ ancora possibile essere un’isola?

«La solitudine spaventa perché è un momento che costringe a fare i conti con se stessi. L’idea che un trentenne scelga di passare l’estate a Milano da solo è uno scandalo, una cosa che non si fa se non si è dichiaratamente depressi. Si confonde la solitudine con lo star soli. Nella lingua inglese la differenza è chiara: la loneliness (solitudine) è molto diversa dalla solitude (la situazione in cui si è semplicemente, magari felicemente, soli con se stessi). In italiano i concetti si confondono. Ma la confusione è anche un’altra: si finisce per credere che la comunicazione ossessiva e il social network continuo ci impediscano di sentirci soli. Invece, anche in un mondo dove siamo sempre connessi, possiamo essere isola più che mai».

La quarta di copertina dice: affresco di una generazione che prima o poi sarà costretta a crescere…

«Il precariato non è solo una drammatica realtà sociale, temo che in qualche caso sia un alibi, un segno distintivo di questa generazione. Edo e i suoi amici non sono precari perché la società o il reddito insufficiente gli impediscano di fare scelte definitive, di diventare adulti, il precariato è lo stato di esistenza in cui stanno meglio».

 

Fonte: Satisfiction del 11 novembre 2010

 

Giulia Valsecchi: «Nella valigia del viaggiatore perfetto non c’è spazio per gli stereotipi»

Wi16ae950008-01«Il destino di una città può formare il carattere di una persona». Partiamo da questa frase per parlare di Istanbul. Dalla finestra di Pamuk (edizioni Unicopli; pp. 179; €12), allo stesso tempo una guida letteraria e un diario di viaggio che l’autrice, la bergamasca Giulia Valsecchi, ha dedicato ad una città troppo spesso schiava del pregiudizio occidentale: «mi piace sempre dire che Istanbul è un luogo difficile da scansare, un rombo che può scatenare solo reazioni forti. Ecco perché ritengo che certi cosiddetti rischi di ossessione islamica siano da commisurare alla sua varietà di luogo dolente e sublime».

Laureata in Lettere Moderne (e in seguito diplomata presso la Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi di Milano), la Valsecchi ha speso parecchi mesi per ricercare fonti letterarie su Istanbul, costruendo un percorso a più voci lungo l’arco di due secoli. Il risultato è un diario di viaggio ma anche un omaggio ai Maestri della letteratura, da Brecht a Pamuk. Un libro da tenere sul comodino per viaggiare con l’immaginazione come Salgari o da mettere in valigia, con fiducia. Marta Ottaviani nella Presentazione, scrive che “non tutte le città meritano d’essere raccontate, è un privilegio che spetta a poche”.

Perché hai scelto di raccontare Istanbul?

Istanbul nasce dall’incontro felice con un editore fiducioso e attento, Unicopli, e una collana, Le città letterarie, che continua a mettere radici nel legame tra i luoghi e le finestre letterarie che li raccontano o li hanno raccontati mediando tra ricordi e immaginazione. La scelta si è poi mossa tra suggestioni e umori avvertiti da tempo, sfociati a più riprese nella lettura dei romanzi di Pamuk e nella visione, ormai qualche anno fa, del Bagno turco di Ferzan Ozpetek. E, in più, le stratificazioni di questa città tra due sponde da sempre hanno attratto la mia scrittura, oltre che il mio interesse verso i rapporti altrettanto oscillanti e contaminati tra le derive filo-islamiche e la questione femminile che però qui ho solo sfiorato.

Hai scelto di raccontare questa città mediante «tradizioni ed esperienze» sia proprie che altrui. Al vertice, sin dal titolo, si trova Pamuk e proprio “La valigia di mio padre” sembra aver giocato un ruolo particolare per la nascita di questo libro, vero?

Certamente, La valigia di mio padre è stato ed è tuttora per me un libriccino fondamentale come altro luogo d’origine. Mi spiego meglio: in quel breve saggio, Pamuk svela anzitutto una dichiarazione d’intenti rispetto al valore della parola in grado di penetrare nelle “fessure o crepe” meglio di ogni altra proposta rivoluzionaria o linguaggio. Descrive un’eredità cospicua da parte del padre e così la fatica dello scrittore, il suo attaccamento spasmodico alla solitudine creatrice. Per queste stesse ragioni, proporre una guida letteraria affacciandosi con la massima modestia alle finestre di uno più autori ha significato per me non solo un esordio attraverso Istanbul, ma una seconda valigia da lasciare in eredità al lettore proprio come fece il padre di Pamuk. Spero che questa volontà passi in ogni pagina ma, lo ripeto, da intendersi come tentativo, sforzo, scommessa dell’anima.

Il tuo libro è ricco di citazioni che arricchiscono, impreziosiscono il tuo resoconto personale. Come hai costruito questo racconto a più voci?

La prima parte del mio lavoro si è svolta per mesi alla ricerca dei materiali letterari, delle testimonianze da estrapolare e romanzi da scomporre per individuare una linea continua, anzitutto tra alcuni autori a cavallo degli ultimi due secoli. Se dunque Pamuk è stato l’albero maestro, le altre voci si sono insinuate o hanno preso il sopravvento per ribadire assonanze perlopiù percettive, fatte di immagini che volevo risultassero vivide al lettore. Mi piace non a caso paragonare questo viaggio a una traversata per mare: la consegna impervia che prevedeva di inserire già dai titoli dei percorsi chiave, mi ha aiutata a non disperdermi. E, in un secondo momento, è stato vitale mettere piede a Istanbul anche solo per pochi giorni. Meta e rapporto essenziale con la “terra” per riempire la prima pagina.

Mi incuriosisce molto l’epigrafe scelta per il tuo libro e del resto, il termine “Maestro” ritorna diverse volte nel testo…

Sì, è vero. E, dal momento che credo fortemente che nulla avvenga per caso, posso dare almeno due motivazioni della ricorrenza di questo termine. Una di carattere più strettamente autobiografico tocca appunto la dedica del libro e riguarda una figura centrale nella mia formazione e purtroppo venuta a mancare solo un anno fa. L’altra, di natura più universale, legata invece a come si possa interpretare un Maestro nel senso di una guida d’osservazione. Ho citato Brecht, ma per me Maestro è chiunque combatta per quelle fessure troppo deboli se lasciate sole a definire il mondo per inerzia. Provare a delineare la polifonia di una città richiede sempre delle braccia più forti cui affidarsi…

Nel 2010 Istanbul è stata la capitale europea della Cultura. Ma che città è oggi Istanbul? A tuo avviso che influenza avrà sul suo sviluppo la lotta fra il mondo laico e quello religioso?

«Credo che la presenza di Istanbul come Capitale europea della Cultura sia stato il prologo a un’accettazione necessaria delle contraddizioni che questa città immensa incarna e che, in misura minore, riflettono quelle mondiali. Sia l’onestà di veder dialogare senza indiscrezioni donne velate e giovani più sfrontate o, ai nostri occhi europei, semplicemente libere. Il privilegio di irrompere come doppia riva e storia molteplice da secoli è un monito perenne a non sottovalutare la sua ricchezza. A questo proposito, mi piace sempre dire che Istanbul è un luogo difficile da scansare, un rombo che può scatenare solo reazioni forti. Ecco perché ritengo che certi cosiddetti rischi di ossessione islamica siano da commisurare alla sua varietà di luogo dolente e sublime. Se sapessimo varcare anzitutto i nostri “terrori”nazionali, potremmo ammirare le dorature ed eviteremmo di farci pungolare tanto facilmente dagli stereotipi.

Francesco Musolino®

Fonte: www.tempostretto.it del 5 novembre 2010

David Foenkinos: «A volte credo che tutto sia già scritto… tranne il mio prossimo libro!»

David Foenkinos
David Foenkinos

David Foenkinos, parigino, classe ’74, al suo ottavo romanzo, La delicatezza (Edizioni E/O; tr. it. Alberto Bracci Testasecca, pp. 176; €17) sbarca finalmente nelle librerie italiane. L’autore dichiara di non credere affatto nel caso, eppure se avesse trovato un bassista probabilmente avrebbe seguito una carriera musicale. E invece con il primo romanzo, “Inversion de l’idiotie, de l’influence de deux Polonais” (Gallimard), ottiene il Premio François-Mauriac dell’Académie Française. Seguiranno diversi riconoscimenti, un adattamento cinematografico e una pièce teatrale.

Eclettico, d’una scrittura dalla dolcezza eterea ma ricca d’una comicità surreale e mai volgare, Foenkinos narra le vicende di Nathalie, costretta suo malgrado a ritornare alla quotidianità dopo la perdita dell’amato François: e così nella sua vita entrano Charles e lo strambo Markus, diversi ma entrambi decisi a contendersi il suo cuore.

L’autore gioca con il lettore sin dalla prima pagina: dissemina note, digressioni, anticipa gli sviluppi futuri, intromettendosi volutamente nella storia e prendendo continuamente di mira gli svedesi e i loro caratteristici frollini Krisprolls.

Stilos lo ha intervistato IN ESCLUSIVA. Continua a leggere “David Foenkinos: «A volte credo che tutto sia già scritto… tranne il mio prossimo libro!»”