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Giuseppe Marchetti Tricamo: «L’Italia non deve perdere l’amor proprio, la dignità e la capacità di reagire».
Un libro per celebrare il 150° anniversario dell’Italia unita e con essa, gli italiani fieri d’esserlo, coloro che ogni giorno sentono nel proprio cuore l’orgoglio per la patria e mai si sognerebbero di parlare a cuor leggero di devoluzione. Il professore Giuseppe Marchetti Tricamo, firma con Tarquinio Maiorino e Andrea Zagami una nuova edizione riveduta e ampliata de L’Italia s’è desta (Cairo Editore; pp. 320; €16). A dieci anni dalla prima edizione, Marchetti Tricamo dichiara a Tempostretto.it: «Ci hanno portato via la nostra opulenza e negli ultimi anni la grande industria si è liquefatta. Ma abbiamo ritrovato, noi italiani, un sentimento che si era spento: l’orgoglio per l’Unità nazionale». “L’Italia s’è desta” è un libro davvero ricco, pregno di ricostruzioni storiche avvincenti con le quali i tre autori ricostruiscono con dovizia di particolari ma senza alcuna prosopopea, prima l’esegesi del “Canto degli Italiani” di Goffredo Mameli per poi narrare la vita avventurosa dello stesso Mameli e quella di numerosi patrioti che hanno sacrificato la propria vita per l’Italia e il Tricolore, proprio come “i Camiciotti”, «che si batterono come leoni contro “Re Bomba” (Ferdinando II di Borbone) e che piuttosto di arrendersi si gettarono a capofitto nel pozzo di Santa Maria Maddalena a Messina per non abbandonare il loro tricolore». Ne “L’Italia s’è desta” viene narrata anche la nascita del Tricolore come oggi lo conosciamo tornando indietro nel tempo sino al fatidico 7 gennaio 1797.
Un libro che vuole scuotere coloro che ancora non hanno preso coscienza di cosa sia stato davvero il Risorgimento e allo stesso tempo un grande atto di fiducia nei giovani: «dai propri giovani il Paese ci si può attendere le cose migliori».
L’intento del vostro libro è chiaro, voler celebrare i 150 anni dell’Unità d’Italia e con essi gli italiani stessi. Ma oggi che paese le sembra la nostra Italia?
È passato un po’ di tempo da quando con Tarquinio Maiorino e Andrea Zagami abbiamo pubblicato insieme il primo libro sull’identità nazionale. Dieci anni, nei quali ciascuno di noi ha perso qualcosa e tutti insieme molto: nell’economia, nella politica, nel patrimonio culturale, nella vivibilità, e nella fruizione delle nostre città, nei rapporti sociali, nell’etica. Ci hanno portato via la nostra opulenza e negli ultimi anni la grande industria si è liquefatta. Ma abbiamo ritrovato, noi italiani, un sentimento che si era spento: l’orgoglio per l’Unità nazionale, con tanta voglia di valori antichi mai caduti in prescrizione. Questo anno 2011 è un’occasione importante per riflettere sul nostro passato, sul nostro presente e sul nostro futuro. L’Italia non deve perdere l’amor proprio, la dignità e la capacità di reagire.
Scrivete che rifiuterete e combatterete ogni tentativo di devoluzione, tutelando la memoria e il sangue versato dai patrioti. Eppure se da una parte si inneggia alla Padania, al Sud si comincia a parlare di autonomia. Cosa ci aspetta dunque? Dovremo scendere in piazza per difendere l’Unità d’Italia?
Il 90 per cento degli italiani considera positivamente l’Unità nazionale, un’eredità che è arrivata a noi dal Risorgimento e da 150 anni di storia e che ci è stata consegnata dai “padri della Patria”. Un patrimonio importante, quindi, da custodire con cura e che non andrà mai disperso. Gli strappi e le provocazioni di coloro che inneggiano alla Padania (e dei neoborbonici) non hanno fatto altro che rafforzare il sentimento unitario. C’è un’Italia di persone dalla schiena dritta, che ama il proprio Paese e che (ce lo dicono i sondaggi) è più numerosa di quello che appare.
Ricostruite l’intera vicenda che ha portato alla nascita dell’inno d’Italia ma, le chiedo, secondo lei perché non si canta la sua versione estesa, preferendogli quella breve?
Perché dell’inno si conosce soltanto la prima strofa. E così sfugge il merito più grande di Mameli che fu la visione unitaria che ebbe del Risorgimento e che si manifesta nella strofa chiave che dice: «Dall’Alpe a Sicilia, dovunque è Legnano; ogn’uom di Ferruccio ha il core, ha la mano; i bimbi d’Italia si chiaman Balilla; il suon d’ogni squilla i Vespri suonò». In non più di otto versi, Mameli riuscì a concentrarvi un “campione” di momenti libertari in punti diversi d’Italia: poco conta che non fossero contemporanei, e che ognuno abbia avuto propri connotati. Nel libro (L’Italia s’è desta) c’è l’intero inno e l’esigesi di ciascun verso.
Non le sembra assurdo che l’inno di Mameli sia ancora provvisorio e che periodicamente venga messo in discussione?
Sì, mi sembra assurdo. E quando ho l’opportunità di incontrare un parlamentare glielo rammento. L’ultima volta l’ho fatto a Cortina d’Ampezzo, al Miramonti, in occasione della presentazione del libro. Nell’occasione il mio interlocutore era Giancarlo Mazzuca, anche lui, come me, attento alla storia dell’Italia. Precedentemente l’avevo fatto con Enzo Bianco. L’inno di Mameli ha molti sostenitori, anche tra i musicisti famosi come Riccardo Muti che ha recentemente dichiarato: “Trovo assurdi certi appelli alla sua sostituzione. Teniamoci l’inno di Mameli e che Dio ce lo conservi”.
Mameli lo si potrebbe immaginare anche come un letterato pacifico e bonario e invece con la storia del “poeta con la sciabola” rivelate la sua vera storia. Cosa l’ha maggiormente colpito della sua figura?
Mi ha colpito la determinazione e la tenacia del giovane Mameli, che era motivato, dall’amor di patria, a porsi un obiettivo e a raggiungerlo a qualunque costo. Dopo averci regalato il “Canto degli italiani”, ha dato la propria vita, sul colle del Gianicolo, in difesa della Repubblica Romana. Il sacrificio di Mameli; il martirio dei giovani Luigi Zamboni e Giovanni Battista De Rolandis che (a Bologna) per primi hanno indossato una coccarda tricolore durante il tentativo di insurrezione contro lo Stato pontificio; l’eroismo degli studenti “i Camiciotti”, che si batterono come leoni contro “Re Bomba” (Ferdinando II di Borbone) e che piuttosto di arrendersi si gettarono a capofitto nel pozzo di Santa Maria Maddalena a Messina per non abbandonare il loro tricolore: tutto questo ci dice che dai propri giovani il Paese ci si può attendere le cose migliori. Queste e molte altre storie le raccontiamo nel libro L’Italia s’è desta.
Il 7 gennaio 1797 nasce la bandiera italiana e Giuseppe Compagnoni avrà un ruolo fondamentale. Chi era questo letterato patriota e come si è giunti al tricolore come lo conosciamo?
La storia del Tricolore è lunga e ricca di avvenimenti. Tutto comincia, come lei ha ricordato, a Reggio Emilia durante l’assemblea costituente della Repubblica Cispadana, quando Giuseppe Compagnoni (deputato di Lugo, certamente patriota e certamente letterato con alti e bassi) propose l’adozione della bandiera verde, bianca e rossa e la sua proposta fu accolta con scrosci di applausi. Quella prima bandiera italiana ebbe caratteristiche diverse rispetto al Tricolore che conosciamo attualmente: differiva nella disposizione dei colori, le bande erano orizzontali, nella parte bianca spiccava una faretra con quattro frecce e le lettere “RC”. Ma l’11 maggio 1798 la Repubblica Cisalpina introdusse una versione a bande verticali. E quel verde, quel bianco e quel rosso divennero da subito i colori della fede politica e della speranza in un futuro migliore.
Professor Marchetti Tricamo perché sono stati scritti tanti libri per denigrare l’Italia, il Risorgimento e persino l’Unità?
È incredibile! Noi italiani passiamo con estrosa facilità dall’autoesaltazione all’autodenigrazione e viceversa del Paese. Idee un bel po’ confuse? Opportunismo? Chissà? Purtroppo, così si contribuisce ad alimentare l’atavico antagonismo tra Nord e Sud. È realtà che il nostro sia un paese a due velocità. La fonte del divario è lontana: si può attribuire, per quanto riguarda il Sud, alla politica dei governi borbonici ma anche alle mancate (nella politica successiva al 1860) strategie e capacità per riequilibrare il Paese. Il recupero del divario, tra Nord e Sud, dovrebbe costituire la priorità per ogni Governo che voglia rimettere in moto l’Italia intera. Ma il Governo, oggi, ha tante “gatte da pelare”! Emerge, comunque, una certezza. Noi italiani vogliamo che nel nostro cielo sventoli una sola bandiera, il tricolore, e vogliamo continuare a cantare l’inno di Mameli.
Giuseppe Marchetti Tricamo è docente presso la facoltà di Scienze politiche, Sociologia, Comunicazione nell’Università La Sapienza di Roma. Dirige Leggere:tutti, rivista del libro e della lettura. È stato direttore di Rai-Eri. Ha pubblicato La fabbrica delle emozioni. Così si fa l’editore in Italia (2005).
Alessandro Bergonzoni in esclusiva su Satisfiction: «Ma intanto, il problema è che intanto…»
Vorrei introdurre l’intervista ad Alessandro Bergonzoni senza usare le definizioni clichè quali “funambolo della parola”, “artista del monologo”, “creatore di cortocirtuiti cerebrali”. Preferisco definirlo con le sue stesse parole: «un comico surreale che ad un certo punto si è dovuto forzare per non voltare più lo sguardo altrove e ha cominciato a dire cose “politiche” sia per risvegliare le coscienze (a partire dagli asili) che per cercare – lui stesso – di capire». Difficile fare una sintesi di questa lunga intervista che mi ha concesso in esclusiva per “Satisfiction” perché ha toccato il tema del degrado morale imperante, il parallelo con Beppe Grillo, l’assenza di vergogna che si ritrova nell’”embè” di cui parla Antonio Padellaro e tanti altri temi attuali ma anche eterei come l’anima e quell’Oltre cui accennava già Terzani… Bergonzoni attacca duramente sia la tv e quei 6 milioni che guardano l’Isola e il Grande Fratello («violenza culturale») sia tutti quelli che si proclamano innocenti perché non guardano la tv, perché scrivono libri e fanno teatro. «Ma intanto, il problema è che intanto…»
Cominciamo dal video messaggio “Viva l’Italia, desta o assopita”. Qual è il miglior modo per commemorare l’Unità d’Italia secondo lei?
«C’è un sistema. Sicuramente cominciando a pensare che la nazione siamo noi e non l’Italia. Se facciamo sempre della geografia e delle categorie non arriviamo mai a considerare che noi abbiamo un governo, un parlamento e una Costituzione senza le quali è impossibile pensare ad un’unità d’Italia, senza le quali è impossibile pensare a nazioni o nozioni di libertà. Noi continuiamo a demandare, a delegare, noi votiamo ed eleggiamo qualcosa o qualcuno tutti i giorni quasi come se ci liberassimo d’un peso. Se non partiamo da qui arriveremo poco lontano».
Padellaro diceva che oggi prevale l’”embè”, non ci si stupisce più di nulla. Oggi c’è ancora il concetto di vergogna?
«Non esiste più perché i mezzi di distrazione di massa hanno fatto sì che tramite lo sport, la finta satira e sottolineo finta (ne esite una anche vera), tramite gli imitatori e il varietà siamo stati messi sotto. Siamo stratificati, ad un ultimo livello. Dobbiamo far saltare le alte cariche dello strato che ci copre. I Maya erano più avanti di noi, ma non perché erano superiori quanto perché noi siamo diventati inferiori coprendo tutti i sensi sociali e antropologici. L’”embè”, il “non mi interessa”, il “non mi tocca” è potenziato grazie a determinata televisione che non è innocua, grazie a determinati artisti che non artisti ma sono semplicemente passanti passeggeri, a determinati sportivi che non ci fanno passare il tempo ma ce lo distruggono. E allora Padellaro ha ragione dicendo che siamo forse dinnanzi alla mancanza di vergogna ma non è un tema solo etico o sociale o politico quanto antropologico, antroposofico, legato all’anima ma non nel senso delle religioni ma della spiritualità. Qui il problema è dell’Oltre, come dicevano già Terzani, Kandinskij e Leonardo Da Vinci ma la gente quando sente questi nomi dice “embè”?».
Lei afferma che chi guarda la tv è connivente delle “metastasi culturali”.
«Al 100%. Noi siamo preoccupati del buco dell’ozono, del fumo passivo, dei gas di scarico e dello slow-food ma i piatti culturali, i piatti di coscienza dai quali mangiamo ogni giorno sono pieni di parrucche. Siamo diventati sportatori di brodo, spostiamo il brodo dentro questi piatti dicendo “io mangio da questa parte” ma intanto la parrucca è dentro. Abbiamo piste di atterraggio cortissime dove i concetti di vita, morte, dignità e arte non possono atterrare perché chi detiene il potere, dunque il controllo, non lo permette. Dobbiamo capire che non c’entra la politica ma c’entra l’anima di un uomo, di una nazione, di un popolo, di un governo che ti taglia la potenza e ti fa dimenticare di reagire, di essere re dell’agire. La parte negativa politica della nostra nazione e di tante altre, è dovuta al non-studio del perché siamo giunti a questo punto. La devastazione dell’anima ci ha spinto ad interessarci solo del bisogno, della necessità, del controllo, del potere, dell’economia. Quando dimenticheremo queste tendenze negative forse ci sveglieremo e capiremo che possiamo arrivare ad un’altra politica ma non dobbiamo fare appello solo alle leggi e alla Costituzione perché sarà già tardi, le norme non bastano. Noi abbiamo una costituzione interiore cui dobbiamo far appello per capire cosa devasta un uomo sino a mettere un bambino nell’acido. La Mafia non è una questione solo politica o sociale ma tratta di anime, anime. La Chiesa che potrebbe spiegare questi fenomeni, è invischiata nel potere . Ho parlato di trascendenza e spiritualità perché l’arte può essere un mezzo per pulire, non punire, quello che spesso abbiamo schifosamente riempito con scorie».
Molti vanno a teatro per spensierarsi invece lei afferma che bisogna andare a teatro per pensare…
«Le Isole, i Grandi Fratello, i vari Darwin, le Pupe e i Secchioni sono atti di violenza come chi ti aspetta sotto casa per rubarti la borsa o ti ruba la pensione. E’ delinquenza culturale. Dicono “danni non ne fa” ma eticamente, umanamente, antropologicamente c’è un danno violentissimo. Pensare che il presentatore di “Ciao Darwin” sia andato al Salone del Libro di Torino per fare una lezione agli studenti sul concetto di memoria…è questo il progetto signori, noi ci scherziamo sopra ma questa è droga, è violenza che uccide culturalmente, uccide la trascendenza e l’energia degli esseri. C’è qualche pazzo che afferma che l’Italia reale è quella di chi guarda queste trasmissioni per cui a questo punto dobbiamo decidere perché se davvero questa è l’Italia reale allora dobbiamo fare la rivoluzione ma che sia violenta. Ma dato che non lo penso, mettiamo da parte la violenza e puntiamo al risveglio delle coscienze. Se ci fossero 6 milioni di delinquenti che guardano trasmissioni su furti e stupri ci saremmo già messi in moto ma dato che questi 6 milioni guardano quelle trasmissioni con corpi, seni, schiene e gambe cacciate in grande tritacarne pensiamo di salvarci dicendo “no io non li guardo”, “io scrivo libri”, “io faccio concerti”, “io vado solo al teatro”. Ma intanto. Il problema è “intanto”! Anch’io posso essere un montanaro che sta a 3000 metri di altezza e posso disinteressarmi dell’inquinamento cittadino. Ma intanto c’è chi inquina e fra 4 giorni, 4 anni, 4 secoli la mia montagna magari non ci sarà più. E’ una forza di distruzione culturale che sta nell’aria e alla fine arriva e fa danni. Calciatori che perdono ore per difendere gli ultrà, allenatori che parlano di sfide, coraggio, pianto e dolore…questa è droga! Sono stupri ai concetti e alle idee, siamo alla follia ormai. C’è un problema di danno antropologico, io credo che certi presentatori, sportivi e politici abbiano un problema clinico ancor prima che politico. C’è una devastazione di anime che continuo a raccontare ma faccio fatica perché la gente o la prende a ridere o ne fa una bandiera ma non lo analizza, non ci riflette su. La televisione dice in modo chiaro “mi raccomando non pensare, fai quello che dico io”. Se non pensi diventi uno strumento, questo sì che è un problema politico».
Anche tacere è connivenza…
«Non so chi, visto che sono un ignorante, ma qualcuno ha detto “il peccato non è fare del male ma non fare del bene”. Fare teatro, libri, concerti, spettacoli disinteressandosi del resto è omissione di soccorso. C’è qualcuno, qualcosa che muore ma spesso si è indifferenti. Il tema politico è solo la punta dell’iceberg, mi interessa occuparmi di cultura e ai politici di sinistra, purtroppo, la cultura interessa molto poco».
Flaiano diceva «la situazione è grave ma non seria». Dicono che se si arriverà all’elezione diretta del Capo dello Stato alla francese, l’unico candidato possibile contro Berlusconi dovrebbe essere Prodi. Non cambia nulla insomma?
«Qui il problema è diverso. Flaiano era un grande, lavorava sulla parola. Io dico che non ci arriveremo nemmeno a quel punto, è necessario che in questi anni si risolva questa situazione, non si può più procrastinare, non c’è più tempo per rimandare. Non è questione di pessimismo, dobbiamo cambiare necessariamente altrimenti fra dieci anni saremmo già sepolti a livello antropologico, umano».
Le piace se faccio un parallelo fra la sua maturazione artistica e quella di Grillo? Siete due comici quotati che hanno cominciato a dire cose “serie”.
«Grillo ha smesso di fare il comico, ora fa il comunicatore con grande bravura e pur se non condivido tutto, non esiterò a tornare in piazza con lui se servirà. Io non mollo, perché secondo me l’arte ha a che fare con la comunicazione, con la coscienza, con la comicità, con la filosofia, con la salute, con il dolore, con la creazione. Indubbiamente all’inizio ho dovuto forzarmi perché non mi consideravano “politico”, ero un comico surreale o metafisico. Credo di esserlo ancora ma adesso non me la sento più di voltarmi dall’altra parte, non posso più omettere il soccorso. Da tempo vado a parlare negli asili e lì dico sempre che non c’è solo un governo, una medicina, una legge, una religione, un’arte, una verità. Bisogna aprire gli occhi perché molta gente è paralizzata dalle tempie in sù. Molta gente, pur stando bene, ha intenzione di essere minorata nella coscienza e questo mi ha spinto a dire anche cose “politiche”. La mia strada e quella di Grillo si sono affiancate per questi motivi: io voglio cercare di capire e scuotere le coscienze, Grillo invece punta sulla denuncia per mettere fine alle cricche. Grillo non è un capo popolo come vorrebbero farci credere, lui è un sollecitatore, l’uomo per le “mine pro-uomo”».
E’ preoccupato dal paventato bavaglio all’informazione?
«Chi è che può permettersi di non preoccuparsi? Se non mi preoccupassi sarei un uomo dell’”embè”. Alcune persone hanno paura e per questo motivo vogliono mettere un bavaglio all’informazione. Ma se si riesce a trasmettere la paura si ottiene uno strumento forte per comandare, per dominare, per toglierci la libertà di pensare e la forza necessaria per agire».
http://www.alessandrobergonzoni.it/
Consigli d’autore da Marsala
Oltre sessanta “big” dell’informazione – da Marco Travaglio a Peter Gomez, da Luca Telese a Carlo Lucarelli, da Massimo Carlotto ad Antonio Pascale – e noti personaggi del mondo dello spettacolo e della musica – come Lella Costa, Serena Dandini e Paolo Fresu – sono stati protagonisti della tre giorni del 2° festival del giornalismo d’inchiesta “A Chiarelettere”, svoltosi a Marsala (organizzato dall’agenzia Communico, Mismaonda e la casa editrice Chiarelettere con il patrocinio del Comune di Marsala e la fondamentale partecipazione a titolo gratuito di tanti ragazzi marsalesi). Il tema centrale della kermesse era Viva Italia, biografia di un paese da inventare, spunto per una riflessione sul nostro paese, ormai prossimo al suo 150° anniversario, e su alcuni temi sempre caldi come immigrazione, lavoro, precariato, corruzione, speculazioni edilizie e “la cricca”. Ma al contrario di ciò che si potrebbe pensare non si è dato adito ai facili pessimisti, anzi, è stato proprio Marco Travaglio ad affermare: «questo non è certo un momento allegro eppure è sicuramente interessante perché prossimo a grandi cambiamenti che non potranno non riguardare tutta la collettività».
Ecco i consigli di lettura d’autore Satisfiction.
Luca Telese: Per chi è appassionato dei misteri italiani consiglio “Piazza Fontana, noi sapevamo” diAndrea Sceresini, Nicola Palma e Maria Elena Scandaliato. E’ l’appassionato lavoro di tre ragazzi che hanno dato una lezione di giornalismo a tutti andando sino in Sudafrica senza alcuna certezza né rimborso spese, per intervistare il generale – dichiarato latitante – Gian Adelio Maletti. Un’inchiesta bellissima che racconta molti misteri italiani, godibile anche per chi non sa nulla per gli anni di piombo. Una vera lezione di giornalismo fatta da tre ragazzi giovanissimi di cui dovremmo far tesoro.
Carlo Lucarelli: Non è mai facile consigliare un libro ma io suggerisco l’ultimo che ho letto, “A long, long way” di Sebastian Bailey. E’ la storia di un ragazzo irlandese che diventa grande durante la prima guerra mondiale facendo il soldato. Sento parlare spesso di rabbia, delusione e questo libro di guerra in trincea mi è sembra un perfetto specchio di questi tempi.
Serena Dandini: Senz’altro “Hanno tutti ragione” di Paolo Sorrentino. Un romanzo assolutamente fuori dagli schemi con uno stile contenuto che coinvolge il lettore sino a fargli sentire davvero vicino il protagonista, Tony Pagoda. Sorrentino ha una capacità narrativa straordinaria che gli permette di parlare con ironia ma anche con profondità, dell’Italia degli anni ’60 guardando ai giorni nostri.
Lella Costa: “Boy A” di Jonathan Trigell (premiato con l’”Edoardo Kilhgren Opera Prima”), un libro davvero sorprendente che porta sulla pagina una vicenda che ha sconvolto l’Inghilterra molti anni fa ovvero l’uccisione di un adolescente per mano di suoi coetanei. Trigell immagina la vita di uno dei protagonisti ed io sono rimasta affascinata dalla forza della sua scrittura.
Paolo Fresu: Suggerisco “Conversazioni con Glenn Gould” di Jonathan Cott. Un libro illuminante perché lo possono leggere gli appassionati di musica ma anche coloro che non la conoscono affatto. Gould riesce a raccontare il mondo della musica con metafore suggestive e con un linguaggio sorprendente che riesce a trasportare altrove il lettore.
Antonio Pascale: Consiglio “Pane e Bugie” di Dario Bressanini non solo perché sfata i luoghi comuni legati all’alimentazione ma per la metodologia critica che utilizza. Bressanini svela con chiarezza il processo mentale che sta dietro la formazione delle stesse opinioni nel “sentire comune” e ciò differenzia nettamente questo libro dagli altri che affrontano lo stesso tema.
Francesco Piccolo: Ho amato moltissimo il libro di Edoardo Nesi, “Storia della mia gente”. E’ prezioso perché nella nostra narrativa i racconti dell’alta borghesia, del mondo industriale, sono molto pochi e Nesi racconta il decadimento dell’industria tessile di Prato con lucidità ma, visto che lo fa in prima persona, anche con grande dolore ed empatia. Inoltre mi piace sottolineare il contributo che un romanziere può dare al mondo dell’inchiesta proprio perché può usare una scrittura fatta di esperienza vissuta che può risultare davvero molto potente.
Giorgio Vasta: Ho trovato caldo ed incandescente nelle sue percezioni l’ultimo libro di Carlo De Amicis, “La battuta perfetta”. Vi si descrive il percorso di uomo, Canio Spinato, dominato dal desiderio di piacere che prenderà nettamente le distanze dal proprio padre, funzionario RAI legato ad un’idea pedagogica della tv. La scalata del protagonista alle reti commerciali, la sua completa adesione “ai consigli per gli acquisti”, lo porterà a divenire consulente personale di Silvio Berlusconi per tutto ciò che riguarda le sue battute e la volontà di piacere agli altri. Credo De Amicis riesca ad individuare cos’è accaduto da un punto di vista antropologico alla nostra società e come sia cambiato il concetto stesso di vergogna.
Ferruccio Sansa (giornalista de Il Fatto Quotidiano): Consiglierei “Due” di Irène Némirovski, un libro che indaga i rapporti fra uomo e donna. L’autrice, che morì nei lager nazisti, descrive una lucida analisi della passione che lega i due protagonisti ma analizza anche i singoli componenti che fanno parte di un legame amoroso, influenzando inevitabilmente l’andamento del rapporto stesso.
Lorenzo Fazio (direttore editoriale Chiarelettere): Vorrei consigliare “Questo è il paese che non amo” di Antonio Pascale perché è un libro che ci aiuta molto a ragionare sulla mancanza di stile, cultura e bellezza degli ultimi anni di questa nostra Italia martoriata. In Pascale troviamo una denuncia sacrosanta che però ci aiuta anche a riflettere sui nostri giorni, dandoci lo stimolo per ricominciare ad impegnarci in prima persona. Pascale, inoltre, ci fornisce i mezzi per ripensare alla nostra società, portando avanti una cultura di tipo più scientifico che non tenga conto solo dell’emotività ma anche della ragione.
Massimo Carlotto: Consiglio “Tre secondi” di Roslund Anders e Hellström Börge perché sconvolge completamente la nostra immagine del romanzo nordico, raccontando per la prima volta l’infiltrazione della mafia polacca in Svezia e di come questo paese, così democratico e civile, reagisca. Un libro dal taglio mediteranno che va assolutamente letto.