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«Vi svelo la morte kantiana dello scarafaggio». Renato Polizzi e il suo bestiario moderno
Ma come muoiono gli animali? Tristi, solitarie, maestose o semplicemente bizzarre sono le sorti delle bestie che ci circondano. Eppure, pur avendone studiato la sessualità e i flussi migratori, sappiamo ben poco di come vanno incontro alla Fine. In “morti favolose di animali comuni” (Caracò editore, €10), un bestiario moderno, pungente, ironico e cialtrone, lo scrittore siciliano Renato Polizzi ci regala una curiosa e accattivante panoramica, che spazia dal piccione all’airone, dall’elefante allo scoiattolo. Senza dimenticare di raccontarci la sua stessa fine, alleggerita da un angolo culinario davvero particolare, mitologico. Renato Polizzi è uno degli attori più interessanti sulla scena culturale della Sicilia occidentale, grazie all’agenzia di comunicazione Communico (con il socio Vincenzo Figlioli), Radio Itaca 98.4 e del freepress, Marsala C’è. Pur avendo alle spalle parecchi nobili obiettivi raggiunti, Polizzi non ha perso l’entusiasmo. Anzi, sembra pronto a raccogliere nuove sfide, condividendo l’entusiasmo di tanti giovani marsalesi con cui collabora da anni, donando linfa quotidiana alla vita culturale. Leggi il resto di questa voce
Gianni Riotta: «Il web ci renderà liberi se saremo capaci d’esserlo»
Si fa un gran parlare di internet e new-media ma i nuovi linguaggi e le infinite possibilità concesse dalla rete globale, non significano automaticamente la conquista della libertà automatica e per tutti. Anzi, a ben vedere, sono proprio i regimi e i governi più autoritari a vantare le maggiori capacità di utilizzo dei nuovi linguaggi, depistando e controllando le fonti considerate scomode. Dal suo studio newyorkese, il noto giornalista Gianni Riotta, editorialista per Il Corriere della Sera e visiting professor presso la Princeton University – ha discusso con noi di giornalismo, new media e del suo nuovo libro “Il web ci rende liberi? – Politica e vita quotidiana nel mondo digitale” , edito da Einaudi (pp.160; Euro 18). A Marsala, dove è stato recentemente ospite del 3° festival del giornalismo di inchiesta, Riotta ha avuto modo anche di ripercorrere anche i luoghi della sua infanzia siciliana e svela: «mio nonno era un architetto che serviva nell’esercito e partecipò al coordinamento dei soccorsi dopo il catastrofico terremoto del 1908. Ci raccontò che le truppe sabaude e i terremotati non si capivano e per questo troppi civili vennero fucilati, considerati sciacalli. E invece erano soltanto in cerca dei loro pochi averi…».
Il presidente della Camera, Laura Boldrini, ha chiesto più attenzione al linguaggio di internet e sui social media. Sul web esiste un giusto confine fra la necessaria tutela della privacy e la libertà d’espressione?
«Il presidente della Camera, Laura Boldrini, pone un problema giusto. L’anonimato online, i ricatti e le violenze verbali sono temi che vanno affrontati ma non si possono risolvere con una legge che regoli il web. Semplicemente perché internet è un sistema globale e aperto, per cui una legge italiana potrebbe essere facilmente aggirabile spostando i server, ad esempio, a San Marino. Ovviamente bisogna perseguire a termini di legge chi compie reati online ma bisogna anche capire come funziona le rete».
L’anchorman Enrico Mentana, stanco del flusso di insulti giornalieri derivante da parte dei suoi followers, ha deciso di chiudere il suo account Twitter. Crede sia una scelta giusta?
«Sul Corriere della Sera aprii uno dei primi blog italiani, Pensieri e Parole, ma decisi di chiuderlo perché il web mi appariva pieno di populismo e intolleranza. Tuttavia compresi d’aver sbagliato. Da trent’anni Mentana è l’anchorman italiano più noto e con maggiore visibilità mediatica ma ciò si traduce anche, purtroppo, in una esposizione al linguaggio violento e incontrollato sul web».
Come possiamo venirne fuori?
«Purtroppo non c’è una soluzione semplice. Noi abbiamo un detto: Never feed the troll (nel gergo del web si definisce così una persona che interagisce con gli altri utenti tramite messaggi provocatori o irritanti nascondendosi nell’anonimato, ndr). Quando un troll ti insulta, o taci o replichi ma devi essere consapevole che il troll nasconde una frustrazione perché altrimenti quell’utente avrebbe un nome e un cognome e non si nasconderebbe dietro una falsa identità».
La blogger cubana, Yoani Sànchez, ha ribadito dalle nostre pagine l’importanza di un’educazione digitale per saper usare al meglio i social media. Che ne pensa?
«Senza i new media Yoani Sànchez sarebbe in galera e questo esile filo cui appendersi la differenzia dai grandi dissidenti d’un tempo, come Solženicyn, che non avevano simili mezzi per far sentire la propria voce. Naturalmente ciò non significa che il web ci renda liberi apriori, perché, ad esempio, i ribelli siriani e libici restano in galera e l’artista cinese Ai Weiwei, pur essendo noto a livello globale, rimane sempre sotto il controllo del governo».
Dunque riprendendo il tuo titolo, il web ci rende liberi?
«Dipende tutto da noi, da come lo usiamo. Il web ci renderà liberi se saremo capaci d’esserlo, altrimenti no».
Nel libro analizza il MoVimento 5 Stelle e la novità del linguaggio politico. Il concetto di democrazia orizzontale è possibile?
«Se penso alla democrazia orizzontale mi viene in mente il Permaflex. La democrazia dovrebbe essere tridimensionale ma credo che non ci sia movimento più verticale di quello dei 5 Stelle dove basta non fare ciò che dice Grillo per essere sbattuti fuori. Sono abbastanza grande per ricordare l’espulsione del gruppo de Il Manifesto dal PCI. Fu un errore fatale. Non perché il Manifesto avesse ragione ma se vi fosse stato un vero dibattito, il PCI si sarebbe aperto alla democrazia già nel 1969 piuttosto che nel 1989, quando finalmente cambiò anche nome. Mi piacerebbe che sorgesse un dibattito in seno al MoVimento 5Stelle e che qualcuno potesse contestare ciò che dice Grillo senza il timore di venire aggredito verbalmente ed espulso, per diretta volontà del capo. Però non mi stupisco perché il populismo funziona così: uno urla e tutti gli altri son pronti a dire “Jawohl”».
Francesco Musolino®
Fonte: La Gazzetta del Sud
Vinicio Capossela: «Parlare della Grecia significa parlare dell’umanità intera»
L’innamoramento con la Grecia è frutto degli anni. Come in una danza rituale, in un corteggiamento dall’esito già scritto, il cantautore d’origini irpine Vinicio Capossela si è fatalmente avvicinato al mondo ellenico. Prima abbracciando le sue sonorità con l’album “Rebetiko Gymnastas” del 2012 e adesso, in seconda battuta ha affrontato la gente, la disillusione e la voglia di lanciare lo yogurt delle loro capre in faccia ai politici che ormai disprezzano. In occasione del 3° Festival del Giornalismo di Inchiesta appena conclusosi a Marsala, Capossela ha mandato in visibilio il pubblico presente alla tappa speciale del suo tour “Mar Sala” ma con un fuori programma straordinario ha anche presentato “Tefteri – Il libro dei conti in sospeso”, il suo nuovo libro in uscita il 16 maggio per Il Saggiatore. Bastano le primissime pagine, in cui affronta l’etimologia della parola crisi (derivante da krìno: separare, dividere), per avere la certezza che non si tratta del classico libro che il personaggio mediatico scrive per battere cassa; Tefteri è un vero e proprio romanzo civile, capace di guardare in faccia la crisi dei valori odierna da un punto di vista umano. Le pagine di Capossela tratteggiano il suo peregrinare fra taverne e vicoli, a contatto con diversi personaggi di cui diventa biografo occulto ma consapevole, rivelando un destino comune che parte dal mondo ellenico ma si rivolge a noi tutti. Perché siamo tutti figli della Grecia anche se talvolta preferiamo dimenticarlo. Sono tante le domande che Capossela ascolta, mentre, pensieroso si passa la mano destra sulla barba scura, folta e ricciuta. E poi comincia a parlare con quel tono di voce tutto suo, melodioso e roco insieme.
«Il Tefteri non è un semplice taccuino. Piuttosto è il libro dei conti in sospeso e quando non hai più soldi in tasca il barista comincia a segnare…».
Il suo legame con la musica dell’Est è forte più che mai oggi…
«Sono sonorità che mi hanno sempre affascinato ma il Rebetiko lo conobbi a Salonicco nel ’98, in una taverna dove suonavano questo blues greco. E’ una musica che si suona per farsi coraggio, musica della pena, musica dell’assenza. Il Rebetiko lo si ascolta insieme ma il mangas (colui che doveva elaborare un lutto o un dolore, ndr) lo ballava da solo, infilando solo una manica della giacca. Così se qualcuno lo disturbava, se si intrometteva nella sua elaborazione del dolore, faceva prima a tirar fuori il coltello. Il Rebetiko è profondamente legato al dolore, del resto è nato dopo il massacro di Smirne nel ’22 durante la guerra greco-turca, quando improvvisamente i greci divennero stranieri in patria e furono preda di quella bile nera, la dalkàs, che rende nera anche la tua anima».
Ma a cosa servono queste canzoni?
«A non essere soli. Anzi (riprende dopo una pausa, come se avesse riletto mentalmente le sue parole carezzandosi la barba) ad esserlo ma con il conforto dell’abbraccio di chi ti è simile».
Italiani e Greci: una faccia, una razza?
«Sì, ma io aggiungo anche “una disgrazia”. Parlare della Grecia è come parlare dell’umanità stessa, di noi tutti. La Grecia è da sempre l’inizio di tutto e la situazione in quel paese può facilmente contagiare l’Europa. Proprio come un virus. Tutti noi restiamo a guardare per capire cosa succederà».
In questo suo viaggio lei parla di tante cose e descrive l’impatto della crisi nel modo di vivere d’un popolo, ora cedendo spazio alla rassegnazione ora alla rabbia. Ha capito come ne usciremo dalla crisi?
«Chi siamo quando perdiamo tutto? Questa, credo, sia la vera domanda. Il sistema economico ha cambiato, stravolto, il nostro modo di vivere. Sì mi piacerebbe che questa crisi segnasse anche un nuovo modo di vivere ma in realtà credo che finirà per peggiorare le cose. Del resto il sistema capitalistico, pur essendo imperfetto, ha dimostrato d’avere anticorpi necessari per rinnovarsi e superare gli ostacoli. Crisi significa dover scegliere. Scegliere quali bisogni, quali necessità soddisfare e quali sacrificare. La già ampia forbice fra chi ha tanto e chi ha nulla, aumenterà ancora e in Grecia ma anche altrove, ci saranno sempre più guerre fra poveri e contro i più deboli. E intanto i movimenti estremisti e neofascisti, come Alba Dorata in Grecia, guadagnano consensi…».
La crisi economica è dunque crisi di valori a tutto tondo?
«I nostri nonni hanno avuto certamente una vita più dura ma avevano anche dei valori che fungevano da bussola, da radicamento. Erano il linguaggio, il gergo persino il modo di portare il cappello. Oggi tutto è delegato alla tv ma se non si hanno nemmeno i soldi per pagare la bolletta elettrica, cosa succederà?»
Crede nell’Unione Europea?
«Quando nacque mi sembrava una splendida idea ma adesso mi domando come una moneta possa unire sensibilità tanto diverse come quella greca e quella tedesca… Del resto persino l’Unità d’Italia è stata realizzata a discapito di molti, per cui forse avremmo fatto bene ad imparare questa lezione prima di accostarci all’Europa».
E se alla fine l’Europa facesse a meno della Grecia?
«Europa è una parola greca. Sarebbe un bel controsenso».
Francesco Musolino®
Fonte: La Gazzetta del Sud
I ricordi di Giuseppe Culicchia: «La mia favola Sicilia»
«Il primo viaggio verso la Sicilia fu molto emozionante, al punto che ancora oggi ogni volta che scendo in Sicilia, mi rivedo bambino, sul “ferribotte”. Avevo sette anni, era il 1972. Mia madre, piemontese, preparò da mangiare come se dovessimo partire per lʼAustralia». In Sicilia, o cara (Feltrinelli editore, pp. 134, €13) lo scrittore piemontese Giuseppe Culicchia rivela al lettore la sua infanzia e la rivive in pagine dense di luci, voci ed odori prendendo spunto dai racconti paterni e da ricordi agrodolci. «Della Sicilia mi mancano molte cose. Innanzitutto la luce, e poi il vento, e poi le mille declinazioni del blu del mare. Per quanto mi riguarda non credo esista terra più sensuale della Sicilia. Ma arrivato a 45 anni di età devo dire che mi mancano soprattutto certe persone, che oggi non ci sono più».
Perché ha voluto intraprendere questo viaggio nella memoria?
«Ho scritto “Sicilia, o cara” per più di una ragione. Innanzitutto perché pur essendo nato e cresciuto in Piemonte sono molto legato alla Sicilia e a Marsala: mio padre Francesco lasciò lʼisola appena ventenne nel 1946 e salì a Torino con quella che dopo la guerra e i lutti e le distruzioni era la sua sola ricchezza, ovvero le sue mani di barbiere, e a noi figli amava raccontare della sua giovinezza e delle persone e dei posti che aveva lasciato. Da parte mia volevo fissare sulla carta i suoi e i miei ricordi, anche perché nel frattempo mio padre è morto e io sono diventato papà, e volevo che mio figlio potesse leggere un giorno la storia di suo nonno. Poi, mentre scrivevo, mi sono reso conto che la storia di mio padre era simile a quella di tanti altri siciliani e non che per un motivo o per lʼaltro un giorno hanno dovuto lasciare la loro terra dʼorigine. Il Treno del Sole, che presi per la prima volta da bambino con la mia famiglia, era pieno di siciliani che tornavano nellʼisola quando le grandi fabbriche del Nord chiudevano per le ferie estive. Per tutti loro si trattava di un ritorno a lungo atteso, carico di emozioni. E per noi figli che conoscevamo la Sicilia solo attraverso i racconti dei nostri genitori, si trattava di un viaggio pieno di aspettative».
Ci racconta il suo primo viaggio in Sicilia e le preparazioni per intraprenderlo? Come si immaginava “quei posti sconosciuti”?
«Il primo viaggio fu molto emozionante. Ancora oggi ogni volta che scendo in Sicilia mi rivedo bambino, sul “ferribotte”. Avevo sette anni, era il 1972, e non stavo nella pelle quando finalmente mio padre decise che ero abbastanza grande da affrontare quel viaggio in treno lungo una notte e un giorno. Per me che allora leggevo Salgari e Stevenson, fu un poʼ come partire per i Mari del Sud. La Sicilia era la mia isola del tesoro. E così in effetti era».
Il suo libro prende spunto dai racconti paterni, talvolta lievi e talvolta terrificanti…
«Favole, sì: perché ai miei occhi di bambino tali erano i racconti che vedevano come protagonisti il nonno, che nelle foto scampate alla guerra aveva un gran paio di baffi e lo sguardo severo, e la nonna, con i capelli raccolti e lʼaria mite; e poi il resto dei componenti di questa grande famiglia, perché mio nonno e mia nonna si sposarono entrambi già vedovi e dunque con figli nati dai precedenti matrimoni. E poi cʼera Nuzzo, il compare di mio padre, che in quanto compare era come un fratello: i due, inseparabili, finirono sepolti vivi nei sotterranei di una chiesa sotto le bombe degli angloamericani, e se si salvarono con tanti altri marsalesi fu grazie a due soldati dellʼAfrikakorps, che scavando tutta la notte con le loro baionette riuscirono a creare un cunicolo dal quale la mattina dopo il bombardamento fecero uscire prima le donne e i bambini e poi tutti gli altri. Non fosse stato per quei due soldati, nemmeno io sarei venuto al mondo 22 anni dopo».
Come molti giovani lei ha preferito scoprire e viaggiare per lʼEuropa ma, dopo 25 anni, racconta di essere tornato in Sicilia per presentare il suo primo romanzo. Comʼè stato questo secondo “incontro”?
«Eʼ come se avessi ritrovato una parte di me che non sapevo di avere, e in un certo senso mi ha fatto anche ritrovare mio padre, anche se in realtà non lʼavevo mai perduto. Marsala naturalmente era cambiata dagli anni Settanta, ma per fortuna aveva anche saputo conservare molte cose. Non solo i colori e i profumi e i sapori, ma anche lʼimmensità delle sue contrade…».
Ci si può innamorare della Sicilia anche senza esserci mai stai?
«Devo dire che questo libro mi ha confermato come in realtà la Sicilia sia molto amata, a Torino, a Milano, a Como: ho trovato tante persone che venivano alle presentazioni del libro proprio perché innamorate dellʼisola. Ma la cosa che mi ha fatto più piacere è stato sentirmi dire, a Palermo, da una signora siciliana, che per lei leggere il mio libro era stato come tornare a sentire il profumo di casa sua perché ormai ne aveva perso il ricordo nellʼassuefazione. Sentirmi dire una cosa del genere a Palermo è stato meglio che vincere un premio»
Fonte: Centonove del 1 ottobre 2010
Consigli d’autore da Marsala
Oltre sessanta “big” dell’informazione – da Marco Travaglio a Peter Gomez, da Luca Telese a Carlo Lucarelli, da Massimo Carlotto ad Antonio Pascale – e noti personaggi del mondo dello spettacolo e della musica – come Lella Costa, Serena Dandini e Paolo Fresu – sono stati protagonisti della tre giorni del 2° festival del giornalismo d’inchiesta “A Chiarelettere”, svoltosi a Marsala (organizzato dall’agenzia Communico, Mismaonda e la casa editrice Chiarelettere con il patrocinio del Comune di Marsala e la fondamentale partecipazione a titolo gratuito di tanti ragazzi marsalesi). Il tema centrale della kermesse era Viva Italia, biografia di un paese da inventare, spunto per una riflessione sul nostro paese, ormai prossimo al suo 150° anniversario, e su alcuni temi sempre caldi come immigrazione, lavoro, precariato, corruzione, speculazioni edilizie e “la cricca”. Ma al contrario di ciò che si potrebbe pensare non si è dato adito ai facili pessimisti, anzi, è stato proprio Marco Travaglio ad affermare: «questo non è certo un momento allegro eppure è sicuramente interessante perché prossimo a grandi cambiamenti che non potranno non riguardare tutta la collettività».
Ecco i consigli di lettura d’autore Satisfiction.
Luca Telese: Per chi è appassionato dei misteri italiani consiglio “Piazza Fontana, noi sapevamo” diAndrea Sceresini, Nicola Palma e Maria Elena Scandaliato. E’ l’appassionato lavoro di tre ragazzi che hanno dato una lezione di giornalismo a tutti andando sino in Sudafrica senza alcuna certezza né rimborso spese, per intervistare il generale – dichiarato latitante – Gian Adelio Maletti. Un’inchiesta bellissima che racconta molti misteri italiani, godibile anche per chi non sa nulla per gli anni di piombo. Una vera lezione di giornalismo fatta da tre ragazzi giovanissimi di cui dovremmo far tesoro.
Carlo Lucarelli: Non è mai facile consigliare un libro ma io suggerisco l’ultimo che ho letto, “A long, long way” di Sebastian Bailey. E’ la storia di un ragazzo irlandese che diventa grande durante la prima guerra mondiale facendo il soldato. Sento parlare spesso di rabbia, delusione e questo libro di guerra in trincea mi è sembra un perfetto specchio di questi tempi.
Serena Dandini: Senz’altro “Hanno tutti ragione” di Paolo Sorrentino. Un romanzo assolutamente fuori dagli schemi con uno stile contenuto che coinvolge il lettore sino a fargli sentire davvero vicino il protagonista, Tony Pagoda. Sorrentino ha una capacità narrativa straordinaria che gli permette di parlare con ironia ma anche con profondità, dell’Italia degli anni ’60 guardando ai giorni nostri.
Lella Costa: “Boy A” di Jonathan Trigell (premiato con l’”Edoardo Kilhgren Opera Prima”), un libro davvero sorprendente che porta sulla pagina una vicenda che ha sconvolto l’Inghilterra molti anni fa ovvero l’uccisione di un adolescente per mano di suoi coetanei. Trigell immagina la vita di uno dei protagonisti ed io sono rimasta affascinata dalla forza della sua scrittura.
Paolo Fresu: Suggerisco “Conversazioni con Glenn Gould” di Jonathan Cott. Un libro illuminante perché lo possono leggere gli appassionati di musica ma anche coloro che non la conoscono affatto. Gould riesce a raccontare il mondo della musica con metafore suggestive e con un linguaggio sorprendente che riesce a trasportare altrove il lettore.
Antonio Pascale: Consiglio “Pane e Bugie” di Dario Bressanini non solo perché sfata i luoghi comuni legati all’alimentazione ma per la metodologia critica che utilizza. Bressanini svela con chiarezza il processo mentale che sta dietro la formazione delle stesse opinioni nel “sentire comune” e ciò differenzia nettamente questo libro dagli altri che affrontano lo stesso tema.
Francesco Piccolo: Ho amato moltissimo il libro di Edoardo Nesi, “Storia della mia gente”. E’ prezioso perché nella nostra narrativa i racconti dell’alta borghesia, del mondo industriale, sono molto pochi e Nesi racconta il decadimento dell’industria tessile di Prato con lucidità ma, visto che lo fa in prima persona, anche con grande dolore ed empatia. Inoltre mi piace sottolineare il contributo che un romanziere può dare al mondo dell’inchiesta proprio perché può usare una scrittura fatta di esperienza vissuta che può risultare davvero molto potente.
Giorgio Vasta: Ho trovato caldo ed incandescente nelle sue percezioni l’ultimo libro di Carlo De Amicis, “La battuta perfetta”. Vi si descrive il percorso di uomo, Canio Spinato, dominato dal desiderio di piacere che prenderà nettamente le distanze dal proprio padre, funzionario RAI legato ad un’idea pedagogica della tv. La scalata del protagonista alle reti commerciali, la sua completa adesione “ai consigli per gli acquisti”, lo porterà a divenire consulente personale di Silvio Berlusconi per tutto ciò che riguarda le sue battute e la volontà di piacere agli altri. Credo De Amicis riesca ad individuare cos’è accaduto da un punto di vista antropologico alla nostra società e come sia cambiato il concetto stesso di vergogna.
Ferruccio Sansa (giornalista de Il Fatto Quotidiano): Consiglierei “Due” di Irène Némirovski, un libro che indaga i rapporti fra uomo e donna. L’autrice, che morì nei lager nazisti, descrive una lucida analisi della passione che lega i due protagonisti ma analizza anche i singoli componenti che fanno parte di un legame amoroso, influenzando inevitabilmente l’andamento del rapporto stesso.
Lorenzo Fazio (direttore editoriale Chiarelettere): Vorrei consigliare “Questo è il paese che non amo” di Antonio Pascale perché è un libro che ci aiuta molto a ragionare sulla mancanza di stile, cultura e bellezza degli ultimi anni di questa nostra Italia martoriata. In Pascale troviamo una denuncia sacrosanta che però ci aiuta anche a riflettere sui nostri giorni, dandoci lo stimolo per ricominciare ad impegnarci in prima persona. Pascale, inoltre, ci fornisce i mezzi per ripensare alla nostra società, portando avanti una cultura di tipo più scientifico che non tenga conto solo dell’emotività ma anche della ragione.
Massimo Carlotto: Consiglio “Tre secondi” di Roslund Anders e Hellström Börge perché sconvolge completamente la nostra immagine del romanzo nordico, raccontando per la prima volta l’infiltrazione della mafia polacca in Svezia e di come questo paese, così democratico e civile, reagisca. Un libro dal taglio mediteranno che va assolutamente letto.
Marco Travaglio attacca: «Più fanno leggi ad personam, più dimostrano la loro debolezza»
Era l’ospite più atteso al festival del giornalismo d’inchiesta. E non ha deluso il suo pubblico.
Torinese classe ’64,editorialista e co-fondatore de Il Fatto Quotidiano. Fra i tanti nomi eccellenti presenti 2° festival del giornalismo d’inchiesta “A Chiarelettere”, Marco Travaglio era certamente il più atteso e difatti il suo incontro/spettacolo, Povera Patria, era davvero gremito, colmando ogni tipo di posto disponibile nel cortile del Complesso San Pietro che l’ospitava. Leggi il resto di questa voce