Giulio Minghini: «Sono fuggito dall’Italia e non ho nessuna intenzione di farvi ritorno»

Febbre (edito da Piemme) è il libro d’esordio (con tanto di paragone eccellente: Michel Houellebecq) di Giulio Minghini, giovane e traduttore stimato per Adelphi, che ha scosso la critica francese con un romanzo sul gioco degli specchi virtuali della rete, dove feticismo e timidezza si mescolano pericolosamente fra la ricerca di sesso appagante e quello dell’anima gemella, spesso con risultati sorprendenti, attraverso Pointcommuns, un sito di ricerca dell’anima gemella tramite le affinità elettive. Minghini tramite Delacero – il suo alter ego virtuale – va diretto al bersaglio, aggressivo sui temi soci-politici e scevro della morale da canonica ormai consueta nei giovani romanzieri che vorrebbero provocare senza scioccare, non lesina giudizi ma non nasconde la mano.

Pubblicato in Francia da Editions Allia riscuotendo gran successo, Febbre esce finalmente in Italia.

Perché ha scritto il suo romanzo in francese?

Devo molto alla Francia, paese in cui ho vissuto metà della mia vita e che mi ha insegnato parecchi trucchi. Volevo sdebitarmi scrivendo un libro sulla mia Parigi, nella lingua che mi ha adottato – il francese appunto.

All’esordio la paragonano nientemeno che ad Houellebecq. É un paragone che la lusinga o la infastidisce?

Houellebecq è uno scrittore che ha saputo descrivere la società francese e occidentale degli ultimi trenta, quarant’anni come nessun altro.

Il suo bersaglio preferito sono i bobò e i loro profili imbottiti di “citazioni intellettualoidi”: secondo lei perché ci si rifugia nel web?

La parola senza volto, gli scambi virtuali, le chat notturne rappresentano il coro inudibile e segreto delle nostre fantasie più nascoste. Un mondo parallelo, sconfinato, eccitante e angoscioso, libero e liberatorio.

Il rapporto del suo protagonista con i suoi alter ego è controverso. Nasce come una provocazione contro il bigottismo dei moderatori ma poi la situazione gli sfugge di mano…

Sempre più preso dal gioco degli incontri, il protagonista finisce per sprofondare in una potente allucinazione che lo porta a moltiplicarsi attraverso false identità (fake), autentici personaggi di una commedia mentale il cui copione, a mano a mano che il libro avanza, si fa sempre più accecante, illeggibile e pericoloso.

“Un paese governato dal peggi­o. L’Avanguardia stessa del peggio”. I suoi giudizi sull’Italia e sulla classe politica attuale non lasciano dubbi. Che futuro vede per il Belpaese?

Per l’Italia vedo un eterno presente fatto di indecenti risate, rassegnazione, impotenza, corruzione generalizzata, ignoranza crescente, barbarie.

Il peso del Vaticano lo avverte ancor di più guardando l’Italia da Oltralpe?­

Da quando avevo sei o sette anni, mi sono sempre chiesto perché non ci sia ancora decisi a mettere a fuoco e fiamme il Vaticano, luogo perniciosissimo per i grandi e spaventevole per i piccini.

Secondo lei oggi urterebbe ancora la morale affermare che il suo Delacero sul web cerca “soltanto” il piacere, la perdizione e l’estasi sessuale?

Non avendo una nozione precisa di morale, non so rispondere a questa domanda.

Come mai non ha tradotto lei stesso il suo romanzo?

L’editore francese e quello italiano me lo hanno sconsigliato. Sbagliando.

Ma quanto c’è di autobiografico in Febbre?

Febbre nasce evidentemente dalle mie esperienze, che sono in parte esposte nella loro stravagante nudità e in parte deformate. Esistono poi, nel libro, episodi del tutto inventati, pure divagazioni romanzesche, congetture visionarie.

Giulio lei tornerebbe in Italia domani?

In Italia forse no, ma a Portomaggiore, il paese dei matti dove sono nato e dal quale sono scappato certamente sì. Qualche giorno almeno, all’epoca delle dense nebbie, in novembre ad esempio. Per girare un documentario sul vuoto atroce e grottesco della provincia italiana.

Giulio Minghini è nato in Italia, si è trasferito giovanissimo a Parigi. Lettore e traduttore dal francese e dallo spagnolo, collabora con diverse case editrici, tra cui Adelphi, che gli ha affidato autori del calibro di Georges Simenon.

Simonetta Agnello Hornby non dimenticherà mai le sue origini: «La Sicilia mi scalda il cuore»

Nel lontano 1972 la palermitana Simonetta Agnello Hornby, scrittrice e autrice di diversi best-seller (fra cui “La Mennulara”), lascia la Sicilia per volare oltremanica. Oggi lʼInghilterra la sua casa e qui esercita la sua professione forense a favore delle comunità immigrate e musulmane. Ma la Hornby torna puntualmente nella sua Sicilia per trascorrere i mesi estivi nella sua casa di famiglia di Mosè, nellʼagrigentino.

Proprio alla memoria materna, agli anni dellʼinfanzia trascorsi nella casa di campagna e alla tradizione gastronomica della propria famiglia ha dedicato la sua ultima fatica letteraria, “Un filo dʼolio”, edito da Sellerio: «Ogni volta che giungo in Sicilia mi acchiappa lʼansia».

Ovvero?

«Mi succede sin da quando tornai in Sicilia quarantʼanni fa e seppi che mio padre era in ospedale. Mia madre, per affetto e per non farmi preoccupare, non mi aveva voluto dire nulla sin quando non fossi stata sullʼisola. Da allora appena metto piede a terra penso “mamma mia che è successo?”».

E dopo?

«Subito dopo sento unʼondata di conforto e di felicità pura per essere nella mia Sicilia».

In Inghilterra che immagine viene fuori dellʼItalia e della Sicilia?

«Al momento lʼimmagine allʼestero dellʼItalia è molto brutta. Non soltanto per via del nostro primo ministro Silvio Berlusconi, ma anche per tutto il quadro politico e morale dellʼItalia. Pensano che siamo un popolo di qualunquisti, un popolo fatto di individui che mettono i propri interessi davanti a quello dello Stato, un popolo profondamente corrotto, purtroppo».

Nel mondo politico italiano si discute mondo sulla mercificazione del corpo femminile. Che ne pensa?

«Credo che quando ci si lamenta della mercificazione del corpo femminile, si deve avere il coraggio di dare alle donne le proprie responsabilità. Non possiamo sempre dire “siamo costrette a farlo” perché delle volte si . pienamente consapevoli, purtoppo. Allora sarebbe meglio dire che a volte “piace” essere un bel corpo prima di una bella mente. Pensate che in Inghilterra, le bambine, sin dai tredici anni chiedono in regalo la chirurgia plastica, sia esterna che interna. Eʼ una società paurosa, in pieno degrado e delle volte, come detto, anche le donne hanno grosse responsabilità, non sono solo ignare vittime come piace pensare. Sempre in Inghilterra le stesse opinioniste che accusano duramente dalla tv e dai giornali sul degrado morale giovanile hanno i petti rifatti, le ciglia finte e le labbra gonfie. Le osservo e penso: ”chi volete fregare?”».

Questʼanno ricorre il 150° anniversario dellʼUnit. dʼItalia. Che ne pensa di chi rimette in discussione il Risorgimento?

«Oramai siamo parte dellʼEuropa e noi siciliani siamo parte dellʼItalia, qualcosa di più grande. Non c’è dubbio che lʼUnità, per com’è stata fatta, è stato un vero disastro per la Sicilia. Ormai tutti sanno che il 1860 ci ha dato calci ovunque e la mafia è fiorita proprio grazie a questo. Ma oggi siamo parte dellʼEuropa e sarebbe assurdo pensare altrimenti. Pensare ad una scissione ha dellʼincredibile perchè non ci sarebbe alcun futuro per un mondo occidentale diviso».

Fonte: Settimanale “Centonove” – 30 settembre 2011

Quanto ci manca…Giuseppe Mazzini. Intervista a Giancarlo De Cataldo

Dopo il successo di vendite ottenuto con Giudici e In Giustizia, il magistrato tarantino Giancarlo De Cataldo pubblica Il maestro, il terrorista, il terrone (Laterza), sincero e avvincente tributo per tre eroi risorgimentali dimenticati: Giuseppe Mazzini – di cui scopriamo tratti caratteriali poco noti – Felice Orsini e Carlo Pisacane. I tre vengono celebrati per le loro gesta ardite e per il sacrificio in nome della causa unitaria con un ritratti ricchi di aneddoti perfettamente contestualizzati grazie ad un severo lavoro bibliografico.

Persino l’India celebra la grandezza di Mazzini ma gli italiani lo conoscono poco e spesso lo immaginano come “un vecchio tetro, mezzo prete e mezzo esaltato”…

E invece il suo insegnamento conserva ancora elementi di potente attualità, specialmente sul piano della “missione” che lui riteneva fosse affidata all’Italia – di rappresentare il faro della cultura nel mondo che ci si augurava di costruire anche grazie alle Nazioni – e per quanto riguarda il modello sociale laico e progressista (ma non laicista, dunque non antireligioso) ipotizzato con l’avanzatissima Costituzione della Repubblica Romana del 1849. L’unità era, per Mazzini, il momento necessario verso mète più ambiziose e complesse, l’unità dei popoli, prima fra tutte. L’Italia doveva avere un suo posto nel mondo, e per averlo doveva essere una nazione grande, laica, colta, civile, compassionevole. Tutto il contrario di quella gretta e meschina estensione del Piemonte che si realizzò nel periodo immediatamente postunitario.

Perché Felice Orsini, il terrorista, merita di sedere a buon diritto accanto ai grandi eroi del Risorgimento?

Orsini piuttosto fu un particolare tipo di regicida: colui che, per colpire il tiranno, accetta il rischio di provocare vittime innocenti. Ciò detto, è innegabile che fra le cause che determinarono Napoleone III a scendere finalmente in campo a favore dell’unificazione vi fu la pluralità di attentati che subì da parte dei regicidi italiani e Orsini andò più vicino al bersaglio. Naturalmente, giocarono molte e complesse cause nella determinazione napoleonica, ma il “paradosso” del “mio” racconto su Orsini sta nella domanda finale: possiamo escludere che la paura indotta dall’ennesimo attentato abbia giocato un ruolo? Io penso di no!

Ma Mazzini, Orsini e Pisacane, a suo avviso, cosa penserebbero oggi della nostra Italia?

Credo che Mazzini e Pisacane continuerebbero a lottare per trasformare il Paese in un Paese più ricco di cultura e di giustizia sociale che di beni materiali. Sarebbero “contro”, in altri termini. Su Orsini sospendo il giudizio: ragazzi agitati e inclini alla violenza come lui possono finire guerriglieri nel terzo mondo, narcos in Sudamerica, o, magari, deputati neo-con.

Fonte: Il Futurista, n°25 del 24 novembre 2011

Elisabetta Migliavada:«Scovare nuovi autori e farli apprezzare è la cosa più bella del mio lavoro»

Ha 33 anni e da 10 lavora nel campo dell’editoria. Dopo 4 anni intensi e proficui a Piemme è approdata a Garzanti dove dirige – a febbraio saranno 6 anni – il settore narrativa straniera. In un’Italia sempre più gerontocratica, il suo è un lampante esempio che una via diversa è davvero possibile, anche nel combattuto mondo dell’editoria. I risultati ottenuti la dicono lunga su lei, del resto basta leggere le top 5 degli ultimi mesi per trovarvi – ancora oggi – diversi fra le autrici che ha scovato come Vanessa Diffenbaugh, Clara Sànchez, Ruta E. Sepetys e Kim Edwards, con cui decollò l’intero e redditizio progetto della letteratura femminile UpMarket.

Il suo nome è Elisabetta Migliavada,  dirige il settore narrativa straniera di Garzanti e racconta le future strategie commerciali, passando dal blog sino ai fiori…

Il profumo delle foglie di limone e Il linguaggio segreto dei fiorisono ancora nella top 5 dopo molti mesi. Come avete scoperto questi libri e qual è il segreto del loro successo, a tuo avviso?

Sono due storie molto diverse. Il libro della Sànchez era in classifica in Spagna e ci siamo subito interessati perché racconta una storia sul nazismo ma con una chiave molto moderna. E’ una come me, una trentenne che si trova dinnanzi a due vecchietti apparentemente buoni e carini ma che in realtà, incarnano il male assoluto. Il libro della Diffenbaugh è un molto diverso perché la protagonista è una donna molto sofferta che riesce a comunicare solo tramite i fiori. L’acquisizione di questo libro è di per sé una storia intensa visto che stavo tornando da Londra a Milano in macchina, per via del vulcano islandese che aveva bloccato il traffico aereo e questo libro mi ha stregato tanto che in un’ora avevo già letto 150 pagine. Sono libri e storie agli antipodi ma in comune hanno uno stile originale, capace di catturare subito l’attenzione del lettore, tenendolo inchiodato alla pagina sino alla fine.

Su quali titoli punterete in questo autunno e soprattutto per Natale?

E’ già uscito un libro importante per noi, si tratta di “Avevano spento anche la luna” di Ruta E. Sepetys. E’ già in classifica e noi siamo davvero contenti. Questo titolo l’abbiamo acquisito perché è molto potente ma soprattutto perché narra le tragiche deportazioni nei gulag stalinisti che subirono le popolazioni dell’Est. La voce narrante della ragazzina raggiunge il grande pubblico e strappa quel velo di silenzio che coprì questa drammatica vicenda per molti, troppi anni. Inoltre è uscito il nuovo libro di Kim Edwards, “Un giorno vi troverò” ed è un ritorno davvero molto atteso dopo l’enorme successo di “Figlia del silenzio”. Lei ci portò molta fortuna e inaugurò l’intero filone narrativo UpMarket femminile che ci condusse alla Sànchez e alla stessa Sepetys. Una piccola curiosità, ancora relativa alla narrativa straniera: a novembre uscirà un prezioso libretto regalo ovvero “I messaggi segreti dei fiori”, scritto a quattro mani da Vanessa Diffenbaugh e Mandy Kirby, esperta di fiori. Sarà una sorta di dizionario che svelerà non solo i fiori legati alle emozioni ma anche un modo perfetto per comunicare, un perfetto regalo insomma.

Garzanti, in linea con l’editoria americana ma fra i primi in Italia, ha un forte legame con gruppi di lettura “atipici”, come i blog. Come mai avete puntato tanto sul web?

Nei blog e in rete, spesso lavorano persone molto attive e ricettive con le quali stabiliamo subito un ottimo rapporto. La competizione fra i blog e i gruppi tradizionali di lettura non ci interessa né la vogliamo stimolare ma spesso queste giovani menti sono molto ricettive soprattutto per le iniziative più innovative. Credo che oggi sia necessario promuovere la lettura fra le persone giovani e i blog e i gruppi di lettura sono la piattaforma più adatta e versatile per entrare in contatto con gli adolescenti. A mio avviso dovrebbe essere una strategia adottata da tutti.

Qual è la cosa più bella del tuo lavoro?

Senza dubbio è quella di trovare nuovi autori. Scovarli. E ovviamente riuscire ad imporli sul mercato, facendo in modo che la gente se ne appassioni.

Credo sia significativo che Garzanti ti abbia affidato la direzione di settore così importante. A tuo favore parlano i grandi risultati ottenuti ma in un’Italia che Travaglio giudica gerontocratica, può essere un momento di cambiamento?

In generale contano i risultati ma ho la fortuna di lavorare in un bel gruppo, dove c’è un team giovane e affiatato e soprattutto i meriti vengono riconosciuti. Credo che sia tempo di cambiare nel nostro paese e per questo serve una grande forza di volontà perché sarà un processo lungo. La gavetta è inevitabile e necessaria ma è importantissimo trovare un ambito lavorativo nel quale impegnarsi a fondo e dal quale ricevere le giuste gratificazioni.

Fonte: www.tempostretto.it del 29 settembre 2011

Giuseppe Marchetti Tricamo: «L’Italia non deve perdere l’amor proprio, la dignità e la capacità di reagire».

Un libro per celebrare il 150° anniversario dell’Italia unita e con essa, gli italiani fieri d’esserlo, coloro che ogni giorno sentono nel proprio cuore l’orgoglio per la patria e mai si sognerebbero di parlare a cuor leggero di devoluzione. Il professore Giuseppe Marchetti Tricamo, firma con Tarquinio Maiorino e Andrea Zagami una nuova edizione riveduta e ampliata de L’Italia s’è desta (Cairo Editore; pp. 320; €16). A dieci anni dalla prima edizione, Marchetti Tricamo dichiara a Tempostretto.it: «Ci hanno portato via la nostra opulenza e negli ultimi anni la grande industria si è liquefatta. Ma abbiamo ritrovato, noi italiani, un sentimento che si era spento: l’orgoglio per l’Unità nazionale». “L’Italia s’è desta” è un libro davvero ricco, pregno di ricostruzioni storiche avvincenti con le quali i tre autori ricostruiscono con dovizia di particolari ma senza alcuna prosopopea, prima l’esegesi del “Canto degli Italiani” di Goffredo Mameli per poi narrare la vita avventurosa dello stesso Mameli e quella di numerosi patrioti che hanno sacrificato la propria vita per l’Italia e il Tricolore, proprio come “i Camiciotti”, «che si batterono come leoni contro “Re Bomba” (Ferdinando II di Borbone) e che piuttosto di arrendersi si gettarono a capofitto nel pozzo di Santa Maria Maddalena a Messina per non abbandonare il loro tricolore». Ne “L’Italia s’è desta” viene narrata anche la nascita del Tricolore come oggi lo conosciamo tornando indietro nel tempo sino al fatidico 7 gennaio 1797.

Un libro che vuole scuotere coloro che ancora non hanno preso coscienza di cosa sia stato davvero il Risorgimento e allo stesso tempo un grande atto di fiducia nei giovani: «dai propri giovani il Paese ci si può attendere le cose migliori».

L’intento del vostro libro è chiaro, voler celebrare i 150 anni dell’Unità d’Italia e con essi gli italiani stessi. Ma oggi che paese le sembra la nostra Italia?

È passato un po’ di tempo da quando con Tarquinio Maiorino e Andrea Zagami abbiamo pubblicato insieme il primo libro sull’identità nazionale. Dieci anni, nei quali ciascuno di noi ha perso qualcosa e tutti insieme molto: nell’economia, nella politica, nel patrimonio culturale, nella vivibilità,  e nella fruizione delle nostre città, nei rapporti sociali, nell’etica. Ci hanno portato via la nostra opulenza e negli ultimi anni la grande industria si è liquefatta. Ma abbiamo ritrovato, noi italiani, un sentimento che si era spento: l’orgoglio per l’Unità nazionale, con tanta voglia di valori antichi mai caduti in prescrizione. Questo anno 2011 è un’occasione importante per riflettere sul nostro passato, sul nostro presente e sul nostro futuro. L’Italia non deve perdere l’amor proprio, la dignità e la capacità di reagire.

Scrivete che rifiuterete e combatterete ogni tentativo di devoluzione, tutelando la memoria e il sangue versato dai patrioti. Eppure se da una parte si inneggia alla Padania, al Sud si comincia a parlare di autonomia. Cosa ci aspetta dunque? Dovremo scendere in piazza per difendere l’Unità d’Italia?

Il 90 per cento degli italiani considera positivamente l’Unità nazionale, un’eredità che è arrivata a noi dal Risorgimento e da 150 anni di storia e che ci è stata consegnata dai “padri della Patria”. Un patrimonio importante, quindi, da custodire con cura e che non andrà mai disperso. Gli strappi e le provocazioni di coloro che inneggiano alla Padania (e dei neoborbonici) non hanno fatto altro che rafforzare il sentimento unitario. C’è un’Italia di persone dalla schiena dritta, che ama il proprio Paese e che (ce lo dicono i sondaggi) è più numerosa di quello che appare.

Ricostruite l’intera vicenda che ha portato alla nascita dell’inno d’Italia ma, le chiedo, secondo lei perché non si canta la sua versione estesa, preferendogli quella breve?

Perché dell’inno si conosce soltanto la prima strofa. E così sfugge il merito più grande di Mameli che fu la visione unitaria che ebbe del Risorgimento e che si manifesta nella strofa chiave che dice: «Dall’Alpe a Sicilia, dovunque è Legnano; ogn’uom di Ferruccio ha il core, ha la mano; i bimbi d’Italia si chiaman Balilla; il suon d’ogni squilla i Vespri suonò». In non più di otto versi, Mameli riuscì  a concentrarvi un “campione” di momenti libertari in punti diversi d’Italia: poco conta che non fossero contemporanei, e che ognuno abbia avuto propri connotati. Nel libro (L’Italia s’è desta) c’è l’intero inno e l’esigesi di ciascun verso.

Non le sembra assurdo che l’inno di Mameli sia ancora provvisorio e che periodicamente venga messo in discussione?

Sì, mi sembra assurdo. E quando ho l’opportunità di incontrare un parlamentare glielo rammento. L’ultima volta l’ho fatto a Cortina d’Ampezzo, al Miramonti, in occasione della presentazione del libro. Nell’occasione il mio interlocutore era Giancarlo Mazzuca, anche lui, come me, attento alla storia dell’Italia. Precedentemente l’avevo fatto con Enzo Bianco. L’inno di Mameli ha molti sostenitori, anche tra i musicisti famosi come Riccardo Muti che ha recentemente dichiarato: “Trovo assurdi certi appelli alla sua sostituzione. Teniamoci l’inno di Mameli e che Dio ce lo conservi”.

Mameli lo si potrebbe immaginare anche come un letterato pacifico e bonario e invece con la storia del “poeta con la sciabola” rivelate la sua vera storia. Cosa l’ha maggiormente colpito della sua figura?

Mi ha colpito la determinazione e la tenacia del giovane Mameli, che era motivato,  dall’amor di patria, a porsi un obiettivo e a raggiungerlo a qualunque costo. Dopo averci regalato il “Canto degli italiani”, ha dato la propria vita, sul colle del Gianicolo, in difesa della Repubblica Romana. Il sacrificio di Mameli; il martirio dei giovani Luigi Zamboni e Giovanni Battista De Rolandis che (a Bologna) per primi hanno indossato una coccarda tricolore durante il tentativo di insurrezione contro lo Stato pontificio;  l’eroismo degli  studenti “i Camiciotti”, che si batterono come leoni contro “Re Bomba” (Ferdinando II di Borbone) e che piuttosto di arrendersi si gettarono a capofitto nel pozzo di Santa Maria Maddalena a Messina per non abbandonare il loro tricolore: tutto questo ci dice che dai propri giovani il Paese ci si può attendere le cose migliori. Queste e molte altre storie le raccontiamo nel libro L’Italia s’è desta.

Il 7 gennaio 1797 nasce la bandiera italiana e Giuseppe Compagnoni avrà un ruolo fondamentale. Chi era questo letterato patriota e come si è giunti al tricolore come lo conosciamo?

La storia del Tricolore è lunga e ricca di avvenimenti. Tutto comincia, come lei ha ricordato, a Reggio Emilia durante l’assemblea costituente della Repubblica Cispadana, quando Giuseppe Compagnoni (deputato di Lugo, certamente patriota e certamente letterato con alti e bassi) propose l’adozione della bandiera verde, bianca e rossa e la sua proposta fu accolta con scrosci di applausi. Quella prima bandiera italiana ebbe caratteristiche diverse rispetto al Tricolore che conosciamo attualmente: differiva nella disposizione dei colori, le bande erano orizzontali, nella parte bianca spiccava una faretra con quattro frecce e le lettere “RC”. Ma l’11 maggio 1798 la Repubblica Cisalpina introdusse una versione a bande verticali. E quel verde, quel bianco e quel rosso divennero da subito i colori della fede politica e della speranza in un futuro migliore.

Professor Marchetti Tricamo perché sono stati scritti tanti libri per denigrare l’Italia, il Risorgimento e persino l’Unità?

È incredibile! Noi italiani passiamo con estrosa facilità dall’autoesaltazione all’autodenigrazione e viceversa del Paese. Idee un bel po’ confuse? Opportunismo? Chissà? Purtroppo, così si contribuisce ad alimentare l’atavico antagonismo tra Nord e Sud. È realtà che il nostro sia un paese a due velocità. La fonte del divario è lontana: si può attribuire, per quanto riguarda il Sud, alla politica dei governi borbonici ma anche alle mancate (nella politica successiva al 1860) strategie e capacità per riequilibrare il Paese. Il recupero del divario, tra Nord e Sud, dovrebbe costituire la priorità per ogni Governo che voglia rimettere in moto l’Italia intera. Ma il Governo, oggi, ha tante “gatte da pelare”! Emerge, comunque, una certezza. Noi italiani vogliamo che nel nostro cielo sventoli una sola bandiera, il tricolore, e vogliamo continuare a cantare l’inno di Mameli.

Giuseppe Marchetti Tricamo è docente presso la facoltà di Scienze politiche, Sociologia, Comunicazione nell’Università La Sapienza di Roma. Dirige Leggere:tutti, rivista del libro e della lettura. È stato direttore di Rai-Eri. Ha pubblicato La fabbrica delle emozioni. Così si fa l’editore in Italia (2005).

Fonte: www.tempostretto.it del 31 agosto 2011