La sfida di Tony Laudadio, «scrivere per tradurre il dolore in qualcosa di vitale».

 

Tony Laudadio
Tony Laudadio

Mescolare la vita reale alla finzione, per riflettere sul significato stesso del dolore e ovviamente sulla nostra, inevitabile, fine terrena. Nel suo nuovo libro, “L’uomo che non riusciva a morire” (NNeditore pp.160 €13) Tony Laudadio – scrittore, attore e regista d’origini casertane – ha dichiarato d’aver voluto «tradurre il dolore in qualcosa di vitale, riuscendo a trarre energia positiva dall’ambientazione scelta ovvero l’ospedale, il luogo della morte». Proprio in corsia si svolge per larghi tratti questo racconto, in cui si narra la lunga trafila del suo protagonista con un punto di vista in prima persona; un tunnel di malattia e sofferenza fisica in cui piomba sin dall’incipit. Una non-morte narrata con umanità, fra diagnosi errate e l’incontro-scontro con vari medici, senza lesinare un pizzico di cinica ironia, una sorta di distacco anticipato dalla carne.  Del resto, Laudadio non è nuovo ai paradossi narrativi, segni distintivi dei suoi due precedenti noir – “Esco” (2013) e “Come un chiodo nel muro” (2014) – che corteggiano una visione della vita non ortodossa, disseminati di personaggi che hanno qualcosa del loro autore pur senza fotografarlo mai a figura laudadiointera. Ne “L’uomo che non riusciva a morire” la percezione del dolore è fuor di dubbio una delle chiavi di lettura più interessanti. «Patire – ha dichiarato l’autore – è un’esperienza universale eppure il dolore finisce per renderci tutti egoisti, del resto pochi hanno il coraggio di dire a voce alta che chi soffre può anche essere capace di mettere in croce i propri familiari e questa è una grande ingiustizia. Paradossalmente sarebbe bello che proprio il malato, il moribondo, trovandosi vicino al confine, si prendesse lui stesso cura di chi lo veglia al capezzale, sollevandolo da ogni peso morale». Tale rivelazione accade al protagonista di questo romanzo, più volte dato per spacciato e condannato a permanere in una sorta di stato contiguo alla morte. Una prospettiva scomoda ma rivelatrice delle bassezza altrui, capace infine di sollevarlo dalla propria stessa grettezza d’animo. Sin dallo spunto iniziale, emerge una vena catartica, da cui deriva una scrittura istintiva, a tratti farsesca nel voler affrontare la morte a viso aperto.

FRANCESCO MUSOLINO®

 

Giuliana Altamura si racconta: «La paura è condizione necessaria della crescita»

Giuliana Altamura
Giuliana Altamura

Corpi di Gloria (Marsilio, pp.176 €16) è il romanzo d’esordio della scrittrice Giuliana Altamura già vincitore del Premio Rapallo Carige Opera Prima 2014. Al centro della narrazione, fluida e molto visiva nelle sue descrizioni, c’è il racconto dell’estate di un gruppo di giovani figli della provincia pugliese. Il disturbo alimentare di Gloria, il difficile confronto con l’immobilismo del sud italiano del fratello Andrea, l’inevitabile ingerenza della droga, il valore del sesso e quello dei soldi entrano in pagina in modo diretto ma non subdolo, con una scrittura chiara e scorrevole mai povera o scontata. In un villaggio di Riva Marina dove tutte le case sono uguali e il tempo scorre lento come se i minuti fossero intrisi di colla, va in scena una rappresentazione della generazione dei ventenni odierni che sfugge a tanti cliché: ecco perché il libro d’esordio di Giuliana Altamura, Corpi di Gloria, dovrebbe essere una lettura d’obbligo nei licei italiani.

Hai dichiarato: “Il mio Sud è una metafora dell’adolescenza, di un tempo sospeso, un limbo dentro un’estate che volge al termine”. Qual è stata la scintilla di Corpi di Gloria?

Tornando in Puglia ogni estate e osservando il cielo del Sud, terso e luminosissimo, mi sono resa conto di quanto la sua bellezza fosse atroce, splendida e allo stesso tempo paralizzante, capace di immobilizzare ogni cosa. Ho collegato questo sentimento di sospensione, terribile e affascinante insieme, al limbo dell’adolescenza – un’estate che sembra eterna, ma che dovrà presto finire, esattamente come quella vissuta dai miei personaggi, destinati come tutti all’ineluttabilità della crescita. Continua a leggere “Giuliana Altamura si racconta: «La paura è condizione necessaria della crescita»”

Pierre Lemaitre, premio Goncourt 2013: «il dramma della disoccupazione ci sottrae la nostra dignità»

Il futuro del mondo lavorativo sarà sempre più cinico e il management aziendale, trovandosi dinnanzi ad una forza lavoro proporzionalmente sempre più numerosa e disperata, potrebbe arrivare, un giorno non lontano, ad arrogarsi persino il diritto di vita o di morte, in cambio del miraggio di un impiego remunerato. Questa considerazione amarissima è uno dei concetti chiave del nuovo libro di Pierre Lemaitre, “Lavoro a mano armata”, edito da Fazi editore (pp. 449 euro 16,50 trad. it. Giacomo Cuva) e vincitore in patria del Prix Le Point du polar européen come miglior romanzo noir. Il romanziere transalpino, già apprezzato autore di “Alex” e “L’abito da sposo”, è un grande appassionato di Hitchcock e anche in questo libro riesce a portare in pagina una prosa spiazzante per durezza e una tensione assai reale (speriamo di ritrovarla anche nel film che ne verrà tratto, con Sandrine Bonnaire nel cast). Protagonista del romanzo è Alain Delaimbre, un manager cinquantasettenne, un quadro disoccupato. Disposto a tutto pur di non perdere del tutto la dignità, Alain si arrangia con lavoretti degradanti per guadagnare poche centinaia di euro, dando fondo ai risparmi per mantenere almeno le apparenze. Nonostante l’appoggio della moglie Nicole, la voce narrante di Alain, ci racconta una vera e propria odissea emotiva. Aver perso il proprio lavoro non lo priva soltanto della sicurezza ma del ruolo di capofamiglia, persino della propria virilità agli occhi della società, delle figlie stesse. E poi all’improvviso “si libera” una posizione di alto profilo che sembra ritagliata sulle sue qualifiche professionali e nonostante sia di gran lunga il più anziano dei candidati, viene ammesso alla selezione; ma tutto ciò nasconde un gioco di ruolo assai crudele ovvero la creazione di un finto commando per la messa in scena di finto rapimento, al fine di testare la fedeltà dei dirigenti dell’azienda. Ma quando il tranello esce allo scoperto Alain si troverà solo, senza alcun freno inibitore a far da rete di protezione…

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Andrea Bajani: «Il lutto è il tentativo di abitare il vuoto di qualcuno che si è perso».

Tre diversi omaggi celebrano l’anniversario della scomparsa di Antonio Tabucchi, lo scrittore d’origini toscane che morì il 25 marzo dell’anno passato nella sua amata Lisbona. Feltrinelli – che pubblicò quasi tutte le sue opere – lo celebra con “Di tutto resta un poco. Letteratura e cinema” (pp. 304, euro 20), una bella raccolta di scritti tematici cui lavorò sino agli ultimi giorni; Sellerio, pubblica “Racconti e romanzi” (pp.288, euro 16) una preziosa raccolta di scritti – “Donna di Porto Pim-Notturno indiano-I volatili del Beato Angelico-Sogni di sogni” – ed infine Emons:Audiolibri ha dato la voce dell’attore e regista Sergio Rubini al suo capolavoro, “Sostiene Pereira” (4h23’, euro 16,90). Ma l’omaggio più bello, in questa triste ricorrenza, prende vita da un aneddoto, difatti, a poche ore dalla sua scomparsa, Antonio Tabucchi non poté ne volle sottrarsi all’atto della scrittura. Quel racconto tutt’ora inedito, fu la scintilla che condusse il suo giovane e caro amico, l’affermato scrittore romano Andrea Bajani, a voler consegnare i suoi ricordi alle pagine di “Mi Riconosci” (Feltrinelli, pp.144, euro 12), un testo  dolce e profondo, capace di non scivolare mai nel declivio della morbosità. Qui l’amico scomparso, diviene personaggio letterario, realizzando la finzione letteraria per eccellenza. Bajani, raggiunto telefonicamente in un hotel parigino, risponde alle domande della Gazzetta del Sud, discutendo di Rilke, dell’amicizia e del potere della scrittura.

Perché questo libro? Il tono usato, oscilla fra riso e lacrime, dando l’idea di una dolorosa necessità.

«Nasce da un evento straordinario ovvero dal fatto che due giorni prima di morire, Antonio Tabucchi scrisse un racconto, dettandolo al figlio in un camera d’ospedale di Lisbona. Non fu una morte improvvisa. Progressivamente si stava spegnendo, eppure questo accadimento privato nascondeva una cosa più grande, la vera origine delle storie. Queste nascono soprattutto per affrontare l’ignoto e mi ha colpito che lui abbia sentito il bisogno di scrivere anche mentre si avvicinava la morte, riuscendo a far ricorso all’ironia, proseguendo questa sorta di danza scaramantica contro ciò che non conosciamo. Quando ho letto quel racconto ho subito pensato che dovevo narrarla, dovevo narrare la scomparsa di uno scrittore e la storia di un’amicizia».

Uno dei due amici che, scomparendo, diventa un personaggio d’un libro. Un’idea molto tabucchiana…

«Esatto. La letteratura ha fatto sempre i conti con i fantasmi e del resto lo scrittore ha a che fare, per giornate intere, con persone che esistono solo nella sua testa. Antonio Tabucchi ha sempre avuto un buon rapporto con i fantasmi perché intese la sua letteratura all’insegna del gioco del rovescio; come personaggio di finzione, fra le pagine d’un libro, ha potuto portarlo all’estremo, rovesciando la morte e la vita, immerso in una storia.

Vi siete conosciuti a Parigi, a casa di un amico comune, tanti anni fa. Tabucchi le aveva scritto una lettera pronta per essere spedita…

«Nel libro tutto è reale e tutto è finto ma la lettera c’era davvero e lui l’aveva già affrancata. Me la consegnò ma per anni non la trovai più. Ma appena terminai di scrivere questo libro, venni preso dal desiderio di sistemare i libri in casa mia e di colpo, riapparve, nascosta fra le pagine di un volume. Era la lettera di un grande scrittore che mi trasferiva l’emozione resagli dall’aver letto il mio libro, “Se consideri le colpe”. Quando uscì questo libro più persone mi chiesero di poter pubblicare questa lettera, però adesso sembra sia scomparsa daccapo. Ecco, queste sono le “tabuccate”».

Apre il libro con una significativa citazione di Rilke. Come mai?

«Non conosco scrittore che sia sceso con tanta grazia dall’altra parte, nel confronto con chi non c’è più, come Rilke ne “I sonetti a Orfeo” e soprattutto ne “Le elegie duinesi”.

Mi riconosci, il titolo scelto, significa stare ad ascoltare il fantasma, provare ad ascoltare chi non c’era più. Questo libro racconta come nascono e si raccontano le storie ma soprattutto come si possa essere amici, indipendentemente dalle età e da cosa ci riserva la vita».

Alla fine scrive, “il lutto è il tentativo di abitare il vuoto di qualcuno che si è perso”.

«Le persone abitano degli spazi dentro noi ma poi sono costretti ad andare via. O meglio, scompare la materialità, la concretezza della carne ma non tutto il resto. Il lutto è riuscire a far sì che ciò che resta di quella persona scomparsa, trovi il suo posto dentro noi».

Nel corso delle telefonate notturne emerge un rapporto tormentato con l’Italia.

«Con il nostro paese aveva un rapporto davvero difficile, d’amore e odio. Prima di tutto l’Italia era la lingua, che ha amato intensamente, ma questo paese lo faceva soffrire e citava Pasolini per sottolineare quanto fosse malandata. Il berlusconismo, per lui è stato davvero pesante, ha ricevuto diverse querele e ha cercato di difendersi come poteva, con le parole. L’Italia, per lui, era una ferita aperta».

Infine, a proposito di scrittura, cosa le ha insegnato Tabucchi?
«La lezione più importante è stata la sua volontà di stare con i piedi molto per terra e la testa molto nel cielo, la capacità raccontare le pieghe oniriche del mondo senza rinunciare a stare concretamente nella realtà socio-politico in cui viveva».

 

Francesco Musolino

Fonte: La Gazzetta del Sud, 25 marzo 2013

vedi anche http://www.marcovigevani.com/tag/antonio-tabucchi/

Di che morte morire? Te lo diciamo noi

Come succederebbe se conoscessimo, con esattezza, la causa della nostra morte, senza sapere nient’altro, né data né luogo? Questa semplicissima premessa è alla base della ricca antologia di racconti intitolata La macchina della morte – Notizie da un mondo in cui le persone sanno di che morte morire (AA.VV. – Guanda editore – Pp. 560 – Euro 19), pubblicato da Guanda editore.

Chiariamo subito che sarebbe certamente un bel rischio da affrontare perché la curiosità e la fame di sapere sarebbero probabilmente più forti persino del timore di conoscere un’informazione destinata, inevitabilmente, a cambiare la nostra esistenza. Del resto se la macchina della morte predicesse un decesso per annegamento, sarebbe inevitabile per tutti, persino per uno skipper, avere la tentazione di tenersi per sempre sulla terra ferma. Eppure tutti gli accorgimenti potrebbero non bastare. Difatti la macchina della morte si rivela anche molto imprecisa, ovvero le sue sentenze possono dar luogo a varie interpretazioni. Ad esempio, “annegamento” non esclude che possa avvenire anche nella vasca da bagno o persino, bevendo un bicchierone d’acqua tutto d’un fiato.

La suddetta raccolta nasce dalla fantasia di tre giovani scrittori statunitensi – Ryan North, Matthew Bennardo e David Malki ! – che hanno deciso di invitare i lettori a scatenare la propria fantasia partendo dalla stessa base comune: «La macchina della morte fu inventata qualche anno fa: un congegno in grado, da un semplice campione di sangue, di predire come si morirà. Non forniva la data, né altri dettagli. Si limitava a sputare un foglio con stampate in maiuscoletto, a lettere nitide, le parole ANNEGATO, SOFFOCATO DA UNA MANCIATA DI POPCORN. Svelava alle persone come sarebbero morte […] Ma la macchina sfornava predizioni oscure e sembrava divertirsi a giocare con le ambiguità linguistiche. Si era subito scoperto che VECCHIAIA poteva significare morire per cause naturali, ma anche essere uccisi a colpi d’arma da fuoco da un uomo costretto a letto, mentre si tentava goffamente di introdursi in casa sua».

Questo succoso spunto ha fatto sì che ai tre scrittori raccogliessero un totale di 675 racconti e fra questi ne sono stati selezionati trenta, scritti da professionisti o esordienti – completati da un titolo suggestivo e illustrazioni dark sempre molto appropriate. Un’antologia davvero ricca che tocca tutti i registri stilistici ed emozionali: così non mancano i racconti drammatici ma neppure quelli ironici, surreali, fantastici passando dalle risa alle lacrime. Consultate gratis o a pagamento, le macchine dimostrano sempre, a proprio modo, d’essere infallibili e le sue predizioni sono sempre le medesime, anche con il passare del tempo. Letto d’un fiato o un racconto alla volta, una volta chiuso il libro non possiamo non domandarci: e se potessimo scegliere, vorremmo sapere di che morte moriremo?

Fonte: Settimanale IL FUTURISTA – 19 febbraio 2012