Archivi Blog

Chi ha paura dei lettori? Jean-Paul Didierlaurent si racconta.

3127649-9788817079242Ogni giorno, un uomo si reca al lavoro prendendo il treno delle 6.27 che attende sulla banchina in mezzo a tanti altri pendolari come lui. Appena vi sale, anziché prendere posto nel vagone, si siede sul predellino e comincia a leggere le pagine sopravvissute alla distruzione che lui stesso comanda, seppur controvoglia. Il protagonista di “Un amore di carta” (Rizzoli, pp.192 €15 trad. it. di Maurizia Balmelli) il romanzo d’esordio dello scrittore francese Jean-Paul Didierlaurent, si chiama Guylain Vignolles ed è una delle tante persone che conducono esistenze invisibili. Lavora in una fabbrica di riciclaggio, al servizio di un’impietosa trituratrice di libri invenduti soprannominata “la Cosa” che ogni giorno fagocita pile su pile di titoli resi agli editori per farne una poltiglia puzzolente da cui verranno generati nuovi libri che, fatalmente, torneranno nelle sue fauci. C’è un modo per sopravvivere a questa quotidiana distruzione? Guylain ha scoperto che nei meandri della macchina poche pagine riescono miracolosamente a salvarsi e ogni sera, a fine turno, con la scusa di dover pulire la pancia del mostro, lontano da occhi indiscreti, recupera quelle pagine sfuse per poi poterle leggere allo scompartimento di pendolari al mattino dopo. Finché la sua esistenza solitaria e ordinaria viene sconvolta dal ritrovamento di una penna usb contenente il diario di una certa Julie, addetta ai bagni di un centro commerciale. La vita di Guylain è travolta da quelle pagine così personali e quelle parole saranno capaci di scardinare due esistenze invisibili, dando vita ad una ricerca romantica ma forse impossibile. “Un amore di carta” è il folgorante esempio del potere liberatorio della lettura dalle brutture, dal grigiore del quotidiano, riuscendo ad elevare anima, persino a mondarla dai peccati.

Recentemente ci sono stati roghi di libri a Mosul. Perché i regimi bruciano i libri?

«Ciò dimostra ancora una volta che i libri continuano ad essere considerati qualcosa da temere. Sono il simbolo stesso della cultura. Sin dalla notte dei tempi, purtroppo, assistiamo a questi tentativi barbari per fermare il progresso della conoscenza, rischiando di farci piombare nell’oscurantismo più cupo. Ma i libri finiscono sempre risorgere dalle ceneri. Volete una prova ? Pensate alla marea di disegni che hanno invaso il pianeta dopo il massacro atroce di fumettisti di Charlie Hebdo. Mi piace pensare che le penne siano sempre più forti delle armi e della violenza». Leggi il resto di questa voce

Eryka Pucci #readerguest su @Stoleggendo con tre giorni pieni di “incontri” d’autore

Eryka Pucci

Eryka Pucci

Quando Francesco Musolino mi ha chiesto di “gestire” l’account di @Stoleggendo per tre giorni, ho accolto l’idea con entusiasmo: da mesi apprezzo il lavoro che svolge sui social con questo progetto mettendoci passione e impegno costanti. Ho subito pensato che sarebbe stata un’occasione bellissima ma anche di grande responsabilità. Insegno da 15 anni nella scuola primaria, appassionare i ragazzi alla lettura è una delle mie priorità perché ho sperimentato sulla mia pelle quanto la lettura possa davvero aprire gli occhi, incoraggiare e, in qualche modo, “salvare”. Leggi il resto di questa voce

«Nei libri possiamo trovare le risposte che cerchiamo». Letizia Muratori racconta “Animali domestici”.

Letizia Muratori

Letizia Muratori

Un giorno, Chiara affida all’amica il proprio diario di disordinate memorie convinta che l’unico modo per non dimenticare sia quello di affidare ad altri l’onere del racconto. Ciò che non s’aspetta è che l’amica Letizia – nonché voce narrante – decida di rielaborare tutto, raccontando la storia in modo diverso, viziandola con i propri ricordi e le proprie delusioni amorose. Ne viene fuori una commedia rosa con sfumature nere, in cui si muovono diverse figure femminili e tanti cani ma soprattutto un uomo dai tratti anticamente romanzeschi, Edi Sereni, con curiose abitudini e vizi da collezionista. La scrittrice e giornalista romana, Letizia Muratori, torna in libreria con “Animali domestici” (Adelphi, pp.218 €18) in cui il materiale autobiografico si mescola alla finzione ruotando sul tema della privazione e della memoria. Il tema del rapporto con la scrittura è centrale – come avveniva nel precedente romanzo “Come se niente fosse” (Adelphi, 2012) – ma stavolta la Muratori non si concentra sul ruolo sociale di chi scrive, piuttosto sulla moderna concezione dell’atto di scrivere, richiamando la serialità della tv, finendo per interrogarsi sul labile confine che passa talvolta fra i manuali di auto-aiuto e la rielaborazione narrativa del nostro vissuto ovvero sul potere latente che hanno i libri di migliorarci, di permetterci di esorcizzare un fase della nostra vita. Leggi il resto di questa voce

#HoLettoCose – Momenti di trascurabile infelicità (Francesco Piccolo, Einaudi, 2015).

#HoLettoCose – Momenti di trascurabile infelicità (Francesco Piccolo, Einaudi, 2015).

copSarà banale, ma credo davvero che riuscire a fare ridere sia complicato. E non mi riferisco alle risate grasse, da comicità demenziale cinematografica, piuttosto penso all’humour sottile alla Woody Allen, all’acume di scrittori come Lipsyte e Sedaris, alla precisione nel meccanismo dei dialoghi di Federico Baccomo, Stefano Piedimonte e Francesco Muzzopappa.

Un’altra verità banale è che spesso i libri che attendiamo ci deludono. Capita e capita anche spesso, purtroppo. La fretta nello scriverli magari o forse ci manca proprio il tempo di gustarli, di entrare nel testo, di concedergli la chance di stupirci. Leggi il resto di questa voce

«Anche quando si scappa via lontano, le radici non si dimenticano mai». Maurizio Fiorino racconta “Amodio”.

IMG_9595_FRANCESCAMAGNANIA diciott’anni Maurizio Fiorino è andato via dalla sua città, Crotone, sfuggendo da un’atmosfera claustrofobica e all’estero il suo estro fotografico è esploso ed oggi viene celebrato in diverse mostre internazionali. Oggi, 30enne, vive e lavora a Milano ma nel suo primo romanzo – “Amodio” (Gallucci, collana Hd pp.152 €16,50) – racconta proprio la Calabria, con i suoi colori e tutte le sue contraddizioni celebrate anche da Pier Paolo Pasolini. In “Amodio”, è centrale il racconto della storia d’amore fra Armando e Amodio – il figlio minore di uno dei boss più temuti della ‘ndrangheta – in una terra spesso amara in cui il binomio omosessualità-mafia è inaccettabile, fonte di solitudine e quasi sempre letale. Il risultato è che questo romanzo d’esordio pur non essendo un libro autobiografico racconta una storia tremendamente verosimile, un grido di libertà contro l’omofobia in una Calabria ancora ricca di speranza. Leggi il resto di questa voce

Federico Baccomo Duchesne: «Lo confesso, ho l’ossessione di voler far ridere».

arton66948«Uscire dal mondo legale mi ha liberato, questo è il libro che amo di più perché mi sono dovuto documentare per immergermi in un mondo che non conoscevo, in una vita che non vivrò mai. Questa è l’essenza della scrittura, lo spalancarsi delle prospettive». Dopo due romanzi di successo – “Studio illegale” e “La gente che sta bene” già trasposti cinematograficamente con successo – Federico Baccomo Duchesne nel suo terzo romanzo, “Peep Show” (Marsilio, pp.368 €18.50) abbandona il mondo degli avvocati per tuffarsi in quello della società dello spettacolo, spiandolo dal buco della serratura, con il sorriso sulle labbra e un pizzico d’amaro in bocca. Il suo protagonista, Nicola Presci, da un pezzo ha vissuto il suo quarto d’ora di celebrità da reality e dopo il lusso, facili conquiste sessuali e i cachet da migliaia di euro, per lui è giunto il tempo della disperazione, peggio, dell’anonimato. Perfetto prodotto della società dello spettacolo, Presci vorrebbe mantenere il rispetto di se stesso e, al tempo stesso, non uscire dal giro dello showbiz, un’operazione quantomeno complicata che lo condurrà a diventare autista, entrando in contatto con diverse celebrities nostrane – dalla Pausini a Jovanotti, da Baricco a Benigni – e il loro lato nascosto. Federico Baccomo possiede la capacità di creare dialoghi fulminanti, reali eppure surreali, riuscendo a far ridere di gusto lasciando in bocca al lettore il sapore amaro del verosimile.

Qui l’intervista integrale a Federico Baccomo Duchesne su “Ho un libro in testa” dalla rubrica Intervistando.

La notte di @Stoleggendo a BookCity2014

book_city_milanoUn sogno che diventa realtà.

Una rete virtuale che cresce e si stringe, con entusiasmo e voglia di incontrarsi, tweet che diventano sorrisi, RT che si fanno abbracci calorosi.

Una mattina, nella calda estate milanese Annarita Briganti – giornalista, scrittrice e colonna del progetto – mi propose di provare a creare un evento che fosse degno di entrare nel cartellone ufficiale di BookCity 2014. E il suo sorriso era talmente brillante che non potevo davvero resistere a questa folle idea ma non credevo fosse possibile…sinché ieri, con immensa sorpresa, ho potuto annunciare che il 14 novembre ci sarà il primo evento ufficiale, “La notte di @Stoleggendo“, un raduno per tutti i #readerguest, per tutti coloro i twittaroli che amano la lettura e i libri e si sono affezionati a questo folle progetto lettura noprofit, nato con un tweet, il 24 febbraio scorso. Un evento nel calendario ufficiale di un festival che cresce a vista d’occhio, ambientato nella tana dell’editoria nazionale. Insomma, cosa posso chiedere di più? Leggi il resto di questa voce

Pierre Lemaitre, premio Goncourt 2013: «il dramma della disoccupazione ci sottrae la nostra dignità»

Il futuro del mondo lavorativo sarà sempre più cinico e il management aziendale, trovandosi dinnanzi ad una forza lavoro proporzionalmente sempre più numerosa e disperata, potrebbe arrivare, un giorno non lontano, ad arrogarsi persino il diritto di vita o di morte, in cambio del miraggio di un impiego remunerato. Questa considerazione amarissima è uno dei concetti chiave del nuovo libro di Pierre Lemaitre, “Lavoro a mano armata”, edito da Fazi editore (pp. 449 euro 16,50 trad. it. Giacomo Cuva) e vincitore in patria del Prix Le Point du polar européen come miglior romanzo noir. Il romanziere transalpino, già apprezzato autore di “Alex” e “L’abito da sposo”, è un grande appassionato di Hitchcock e anche in questo libro riesce a portare in pagina una prosa spiazzante per durezza e una tensione assai reale (speriamo di ritrovarla anche nel film che ne verrà tratto, con Sandrine Bonnaire nel cast). Protagonista del romanzo è Alain Delaimbre, un manager cinquantasettenne, un quadro disoccupato. Disposto a tutto pur di non perdere del tutto la dignità, Alain si arrangia con lavoretti degradanti per guadagnare poche centinaia di euro, dando fondo ai risparmi per mantenere almeno le apparenze. Nonostante l’appoggio della moglie Nicole, la voce narrante di Alain, ci racconta una vera e propria odissea emotiva. Aver perso il proprio lavoro non lo priva soltanto della sicurezza ma del ruolo di capofamiglia, persino della propria virilità agli occhi della società, delle figlie stesse. E poi all’improvviso “si libera” una posizione di alto profilo che sembra ritagliata sulle sue qualifiche professionali e nonostante sia di gran lunga il più anziano dei candidati, viene ammesso alla selezione; ma tutto ciò nasconde un gioco di ruolo assai crudele ovvero la creazione di un finto commando per la messa in scena di finto rapimento, al fine di testare la fedeltà dei dirigenti dell’azienda. Ma quando il tranello esce allo scoperto Alain si troverà solo, senza alcun freno inibitore a far da rete di protezione…

  Leggi il resto di questa voce

36,9° – Un racconto

36,9°

di Francesco Musolino

Questo racconto è stato pubblicato per la prima volta sul blog culturale Letteratitudine di Massimo Maugeri.

 

– Ah c’è una cosa che ti volevo raccontare.
L’altro si fece subito serio. Passò dalla modalità “relax” a quella “sono un medico h24” e il suo corpo, a questo switch, reagì drizzandogli la schiena, come se gli avessero infilato su per il culo un anima di ferro e questa gli si fosse incanalata lungo la spina dorsale.
– Ieri sera dovevo uscire con Flavia – dissi
– La tua collega dell’università?
– Già
– Mi piace Flavia penso che ti farebbe bene uscire con lei perché ha quel certo non so che ti riempie subito la stanza, ti fa venire il buonumore e la smetteresti anche di fare pensieri brutti, se e solo se uscissi finalmente con Flavia.
Lo disse d’un fiato e senza guardarmi negli occhi. Poi appena terminato afferrò la bottiglia di birra, soddisfatto di trovarla fredda e con il vetro appannato e l’avvicinò alle labbra. Ma si fermò di colpo. Scommetterei che stava pensando “se faccio una diagnosi sono in servizio e se sono in servizio non posso bere”. Bel dilemma etico. Anzi, etilico.
– Cristo. Hai finito? – tirai il fiato – E allora ti dicevo che ieri stavo per uscire con Flavia ma non mi sentivo granché, non so di preciso cosa fosse…
– oh, finalmente l’hai detto.
– cosa? Mi continui ad interrompere! Cos’ho detto?
– non sapevi cos’avevi.
– e allora?
– non devi fare autodiagnosi. No. E’ sbagliato. Mi chiami, mi spieghi, ti dico cos’hai. Ecco come funziona.
Per inciso dicendolo sembrava che stesse sgridando un cagnolino che continuava ostinatamente a fare la pipì sulla tenda del salone.
– O-k. Cmq non sapevo bene cosa avessi, mi sentivo agitato..
– troppi caffè
– no, solo due.
– coca?
– cola? No.
– coca..?
– no, cazzo.
– ma bevi abbastanza? Voglio dire mi bevi i tuoi 2/3 litri al giorno? Lo fai davvero? Eh?
Disse e fece tintinnare il dito contro la bottiglia, richiamando l’attenzione.
– non ti rispondo nemmeno.
– ah! Lo sapevo.
Segnò la vittoria con un lungo sorso e poi si pulì persino la bocca con la manica. Riguardandola, a cose fatte subito dopo, quello sbafo sulla sua camicia non è che ci stesse granché bene e restò assorto tanto che
– Oh mi senti!?
– Certo. Un medico ascolta sempre.
– anche quando si guarda la manica con quella macchia strana lì…
– soprattutto. Stavo facendo una diagnosi.
– ma davvero? – dissi sorridendo
– sì, ero occupato mentalmente a diagnosticare, a sommare sintomi e cause ipotetiche ma tu non potevi saperlo e ai tuoi occhi sembravo semplicemente distratto, questo perché tu sei un paziente – e disse quest’ultima parola come se fossi una specie di razza inferiore
– ad ogni modo, ero a letto e si stava facendo l’ora.. Cosa? Perché scuoti la testa adesso?
– a letto. Di pomeriggio. Potrei citarti decine di riviste scientifiche e stimati medici che disapproverebbero la cosa. Poi non chiamarmi se hai l’insonnia..
– non ti ho mai chiamato per l’insonnia. Non ne soffro.
– non ancora Adriano, non ancora – scandì in modo profetico. E vagamente iettatore.
Feci un po’ di scongiuri per tutte le occasioni e proseguii, entrambi seguivamo la partita con le schedine delle scommesse, capovolte, davanti a noi sul tavolo. Ormai era diventata una bella tradizione che aggiungeva del pepe quando guardavamo insieme le partite alla tv.
– Erano quasi le 21, mi sarebbe bastata una mezz’ora per essere pronto. Ormai ero arrivato sino al tempo limite per continuare a vedere il film e a quel punto dovevo prepararmi, non potevo più rimandare. Però sentivo il cuore battere..
– …il problema sarebbe stato serio se non batteva più…
Feci finta di nulla. Avrebbe dato più fastidio a lui. Ne ero certo.
– …contai i battiti..
– ecco, l’hai detto. Questa cosa di contare i battiti non si deve fare.
Cattivo cagnaccio.
– mi sono girato sul fianco e fissando il display ho contato…
– quanti?
Chissà come andavano le sue scommesse. Le mie come al solito, di merda. Ma le avremmo potute confrontare solo alla fine.
– 99
fece una smorfia. Poi intuendo che lo stavo fissando, rilassò daccapo il viso come un medico di campagna cui hanno appena servito un cognac davanti ad un caminetto accesso mentre fuori imperversa una rigida sera invernale.
– allora lesto ho preso il termometro
– come?
– cosa come? Ho aperto il cassetto, lo tengo sempre a portata di mano non si sa mai una cosa improvvisa, ho asciugato con un kleenex l’ascella e l’ho infilato. Stringendo ma non troppo. Diciamo una via di mezzo, abbastanza per sentirlo infilato ma senza esagerare.
– molto interessante. Però volevo sapere – disse sempre senza voltarsi e continuando a guardare con attenzione quasi ipnotica la tv – ma com’è questo termometro?
Non risposi. Colpevole.
– non mi dire che…
Continuai a non dire nulla.
– !
– non è provato. Non è provato!
– fai come ti pare.
– maddai. Cosa dovrebbe accadere? Cosa?
– fai come ti pare – ribadì secco.
Rimase un attimo in tensione perché il Milan sfiorò il raddoppio ma tutto ok, era in fuorigioco. Poi si rilasso sulla sedia di tela che rispose cedendo e producendo scricchiolii.
Stavo per ribattere quando cambiarono altri due risultati e per qualcosa come un minuto restammo in silenzio. Ciascuno condannava o benediva le scelte fatte. E le somme puntate.
– Se si rompe, ti tagli e te lo bevi? Eh? Come la mettiamo? Poi esci sul giornale e tutti a dire “ma il suo medico non gliel’aveva detto?”. Te lo immagini? Che figura ci farei, scusa?
– A parte che dovresti preoccuparti della mia salute e non della tua reputazione…
Roteò la mano in aria, come a dire, “vabbè…”
– Ma poi mi spieghi la folle sequenza di eventi che modo dovrebbe farmi bere il mercurio?
Una vampata di sangue gli attraversò il viso. Per uno come lui, con l’aplomb dei vecchi nobili russi, era quasi una crisi isterica.
– Dai.
Stava per voltarsi verso me quando, spostando la mano per fare presa sul bracciolo di plastica, cambiò canale. Fu il panico puro. Armeggiò coi tasti e per qualcosa come dieci secondi, forse quindici, fummo all’oscuro di tutto. Ripensandoci mi ricordò quando una volta uscì con una tipa, niente di che adesso ma allora mi prendeva parecchio. Avevo puntato una bella somma perché stavo attraversando quella fase oscura del “scommetto tanto ma su poche partite (sicure)”. Ma come un folle avevo comunque accettato la proposta, sua, di andare al cinema a vedere un film. Che aveva scelto lei. Non che non volessi decidere nulla – quell’altra fase arrivò dopo – piuttosto era un gesto anche scaramantico, ma al contrario. Volevo variabili impazzite, volevo che sapessero che io avevo puntato sì, una bella cifra, ma-me-ne-fregavo-di-loro-e-di-tutti-quanti. Sarei tornato a casa e solo allora avrei controllato i risultati. Sul televideo! Era uno smacco allo smartphone, alle app, a sky e a tutto il resto. Quella sera misi la bolletta in tasca e uscii sorridendo. Alla faccia loro. Chi erano “loro”? Davvero me lo state domandando? Ovviamente quelli che sapevano, quelli che controllavano i risultati. Perché c’era da qualche parte qualcuno che sapeva tutto. Certo, sarebbe stato più saggio non scommettere allora, incrociare le braccia e dire “fanculo” non ci sto. C’avevo già provato tre volte e ti dava quel brivido di potere dentro. Ma poi guardare le partite senza scommettere era come lavarsi e profumarsi di tutto punto per poi tornare a letto. Che senso aveva?
Intanto le immagini erano tornate. Alleluja.
– ok si potrebbe rompere. Lo ammetto.
– direi
– Sì ma tutto il resto? Come potrei berlo? – incalzai
– La concitazione.
– Cioè mettiamo che mi taglio, mi ferisco, i lembi della carne – la parola lembi gli fece appena sollevare l’arcata sopraccigliare sinistra, l’unica che mi mostrava – lasciando fuoriuscire del sangue e poi?
– La concitazione – ribadì.
– Ti pesano le parole?
– Ti agiti e mentre cerchi di capire se hai vetro e mercurio dentro la ferita, ti metti le dita in bocca e… capito?
– bah.
– pagine su pagine di letteratura scientifica, fidati. Comincia a leggerle pensando “non saranno così fessi da bersi il mercurio” e dopo qualche paragrafo sono lì, per terra, che sbavano e si agitano…
– che tatto.
– lo sai che..
Si interruppe. Di colpo. L’avrei fatto anch’io se avessi visto quella cosa lì su un campo da calcio, in diretta per giunta. Poi riprese
– lo sai che è illegale, vero?
– bum!
– scherza scherza.
– cos’è, mi devo aspettare ispezioni della finanza? Medici certificati dall’Europa alla mia porta? Non mi denunciare, ti prego…
giunsi le mani e lo implorai sorridendo. Lui comunque non si voltò.
– non potrei mai, lo sai.
– tu sì che sei un buon amico.
– macché. Per il giuramento di Ippocrate!
Il sorriso non fece in tempo a nascere che morì sulle mie labbra.
Ormai ci avvicinavamo alla fine degli incontri e bisognava sbrigarsi con le chiacchiere.
– Comunque avevo 36,9°
– 36,9° non è febbre.
– sì ma..
– no. Ascoltami. 36,9° non è febbre. Se un giorno mi chiamassi e io sentendo squillare il cellulare, magari rimasto nel mio camice perché nel frattempo sto operando e non mi sembrava il caso di portarlo in sala operatoria..
– spegnerlo?
– ..mi facessi togliere i guanti dall’infermiera, mi lavassi le mani e mi togliessi il camice..
– mi sembra una follia
– ..per poi entrare nello spogliatoio, senza fiato..
– ma quanto dura la tua suoneria?
– ..e vedendo il tuo numero, accigliato..
– perché accigliato? Devo darti sempre cattive notizie?!
– ..rispondessi, con il fiatone e nell’altro orecchio l’eco dei bip dei monitor con il paziente sospeso, in bilico sul crinale fra la vita e l’aldilà e tu mi dicessi “ho 36,9° che faccio?”. Io sai cosa farei?
– posso rispondere?
– ..ti manderei a quel paese! Questo farei.
– adesso posso parlare? Intanto avresti violato tutte le norme igieniche e comportamentali di qualsiasi paese civile. E non. Ti pare che ti chiamo per 36,9°? Ieri ti ho chiamato? Eh?
– quindi quel 339 e qualcosa non è tuo?
Pensai di confessare subito. Non volevo problemi con il mio karma.
– se non eri tu… – disse rabbuiandosi, almeno il lato sinistro che era quello che vedevo – …magari era una cosa importante.
– gentile.
– ti prego non fare la vittima. L’altra volta mi hai chiamato per…
– ma che c’entra! Come facevo a sapere che facesse quell’effetto?!
– per questo io padroneggio la scienza medica mentre tu… – disse agitando la mano in aria senza proseguire ma sapevo che pensava alla battuta più celebre del Marchese del Grillo…
– cmq se avevi ‘sto dubbio, potevi richiamarlo quel numero.
– mai. I medici non richiamano mai. E’ una questione di principio.
– mah.
– é come l’abilità di scrivere le ricette in modo…
– incomprensibile?
– raffinato! Pensa – proseguì con un tono sognante – l’altro giorno ho visitato un colelga anziano e i suoi appunti…erano talmente minuti che sembravano accarezzare la carta, senza sciuparla.
– Immagino la felicità dei suoi pazienti per capire le ricette…
Sospirò. Doveva sentirsi come un missionario che consegna una forchetta ad un selvaggio e quello, se la passa fra i capelli.
– capirai, lui è uno studioso ormai. Non sta più a contatto con…
– i malati?
– …i pazienti.
– beato – mi sfuggì.
Lui non reagì, mi voltai verso la tv, mancavano solo dieci minuti al termine delle partite. Bisognava far presto.
– comunque avevo sempre 36,9°.
E dicendolo girai anche la sedia di tela a fasce colorate verso di lui che rimase però di profilo. Mosse appena i baffetti sottili che gli seguivano le labbra.
– che non è febbre.
– però ci siamo quasi. Per cui…
– non mi dire.
Strano parlare con uno che non ti guarda. Voglio dire, una cosa è stare affiancati ma così sembravano due segmenti del Tetris.
– preparai la telefonata nella mia mente…
– Adriano…ormai che le avevi detto sì..
– oh, dovevamo andare in un lido ad ascoltare un gruppo di amici suoi, mica a far trapianti di rene in Burundi!
– é una questione di etica.
Irruppe il gol del Napoli e subito dopo il Cagliari prese il terzo gol in trasferta. Lo sapevo, cazzo! Ma non si capiva se lui era contento o no per le scommesse. Avevamo da tempo vietato di farci domande sulle rispettive giocate per impedire la gufata. Quella automatica ma soprattutto quella spontanea, quella che ti esce dal cuore mentre la tua scommessa “sicura” si arena incomprensibilmente, e a quel punto oggettivamente non puoi essere felice per nessun altro. Ma il Napoli alla fine l’avevo giocato o no? Dovevo essere contento o incazzato? Madonna com’era possibile averlo dimenticato? Forse essere sintomo di qualcosa. Avrei dovuto appuntarmelo?
– insomma ho fatto il suo numero…
– spero ti abbia mandato a quel paese
– …magari. Non mi ha nemmeno risposto. La cosa peggiore.
– non mi dire che non ci sei andato e non l’hai nemmeno avvertita…
– ma mi fai raccontare? Intanto me la sono misurata daccapo. E non scuotere la testa, erano passati già due minuti!
– addirittura. E quindi?
– sempre 36,9°
– che non è febbre.
– sì ma è lì vicino! Proprio al limite fra “resto a casa sotto le coperte” o “esco e tanti saluti”! Onestamente ero indeciso su cosa fare. Però non ero convinto di dirle che mi era salita la febbre.
– in effetti non ti era salita.
– Più che altro avevo timore di sembrare malaticcio..
– proprio tu?
– ma la pianti!?
– l’importante è che le hai risparmiato la storia di tua nonna.
– mai abbastanza rimpianta. E lo sai.
– dai! E’ di cattivo gusto
– ma perché? Dicendole “sai mia nonna non sta bene, è molto grande…”
– cos’è un mobile?
– “niente di serio, però sai…”, lasciando le giuste pause per farle capire che sono un bravo ragazzo in fondo.
– soprattutto un nipote modello.
– é morta ormai. Che differenza vuoi che faccia? Almeno rivive con il pensiero..
Lui scuoteva la testa. Chissà poi perché.
– l’unica cosa è che devo ricordarmi quando uso la scusa della nonna sennò poi mi domandano come sta e io mi incazzo pure.
– é morta da quanto? 5 anni? – disse
– intanto i minuti passavano e lei non richiamava.
– non sarà mica una collega – e sollevò per un attimo il sopracciglio, dubbioso.
Non ebbi il tempo di replicare perché intanto l’Udinese passò in vantaggio. Le altre non me le ricordavo ma questa la stavo sbagliando di sicuro. Mi domandai per quale cazzo di motivo tenessimo le schedine girate che poi uno si dimentica anche quello che ha scommesso e s’incasina gli equilibri mentali. Feci per allungare le mani
– che fai?
Mi gelò.
– eh? Mi sgranchisco.
– bravo. Ottima idea. In America nessuno sta seduto fermo, nessuno si permette più di stare solo e semplicemente seduto.
– No?
Ipotizzai che inclinando il collo e abbassando la testa all’altezza del tavolo, forse, avrei potuto leggere i caratteri stampati sulla carta termica.
– me l’ha detto un collega specializzato in post.. Ma cosa stai facendo? – disse intercettando i miei movimenti con la coda dell’occhio, senza bisogno di girarsi verso di me.
– Stretching! – dissi rimettendomi subito dritto con un sonoro scrocchio del mio collo.
– bene. I medici vanno ascoltati sempre e a prescindere. Per una questione di principio.
– Mentre aspettavo mi sono rimisurato la febbre.
– ancora?!
– mi annoiavo!
– …Quindi?
– sempre 36,9° – dissi cercando comprensione nel suo profilo sinistro, nei suoi capelli sottili pettinati con cura e nel suo mento debole che sfilava giù in un golfino di cotone coperto dal camice bianco di ordinanza che indossava anche in casa – Speravo fosse scesa ma anche se mi fosse salita di botto sarebbe stato ok. L’unica cosa che non volevo era che restasse tutto immutato. Mi sentivo bloccato. Ostaggio delle mie difese immunitarie svogliate e di un’infezione poco volenterosa persino per conquistarmi. A quel punto la richiamai, tanto non sono mica un medico…
Dissi con tono scherzoso.
– poco ma sicuro – mi freddò.
Replicò con tanta di quella spocchia che mi sembrava eccessiva anche per i suoi standard.
Per tutta risposta mi girai e fissando la tv, proseguii filato:
– alla fine mi sono alzato, mi sono fatto una lunga doccia calda, mi sono cambiato e ho preso la macchina. Il telefono non ha mai squillato lungo il tragitto. Sono persino arrivato in anticipo.
Poi sorrisi.
– io non l’avrei mai fatto.
– perché? – dissi voltandomi daccapo verso lui.
– un medico non arriva mai né in anticipo né in ritardo. Semplicemente, arriva.
– addirittura. Sa di messianico.
– l’hai detto.
Piombò il silenzio. Mi voltai e sistemai la sedia di tela senza fare alcun rumore, parallela alla sua, davanti la tv. Non osavamo fiatare. Seguivamo gli ultimi minuti sempre così, immobili, come statue di sale.

– ah, a proposito – dissi girandomi di nuovo verso lui, violando qualsiasi regola e tradizione – quand’è che ti laurei in medicina?
– ancora ci vuole – rispose e si voltò verso di me, mostrando tutto il viso, compresa la guancia destra, stravolta dall’acne – prima fammi finire il liceo.

[Francesco Musolino®. Marzo 2013] Questo racconto è stato pubblicato per la prima volta sul blog culturale Letteratitudine di Massimo Maugeri.

«Gli Stati Uniti? Sono una società razzista». Elizabeth Strout si racconta

Con la raccolta di racconti “Olive Kitteridge” vinse meritatamente il Premio Pulitzer – segno che negli USA diversamente che in Italia, le short stories sono davvero importanti – e dopo ben cinque anni di ricerca, la scrittrice Elizabeth Strout, ritorna in libreria con “I ragazzi Burgess”, edito da Fazi (pp. 448, Euro 18,50 trad. Silvia Castoldi). Qui la Strout sfoggia una prosa pungente e cristallina per raccontare le vicende dei tre ragazzi Burgess, ovvero il celebre avvocato, Jim, il malinconico  Bob e Susan, la sorella divorziata e madre di Zach che ha lanciato una testa di maiale in una moschea durante il Ramadan. Proprio le inspiegabili azioni di Zach spingeranno i tre fratelli a riunirsi e lentamente, ritrovandosi nel mondo rurale tanto caro alla Strout lontano dalla rarefazione degli affetti cittadina, emergeranno devastanti verità circa l’incidente che costò la vita del padre, segnando per sempre le loro esistenze. Ma la Strout non si limita a tratteggiare un grande affresco sulla solitudine che possiamo incontrare in ambito familiare; pagina dopo pagina, dona voce alla comunità somala che sta cercando di ricostruirsi una vita a Shirley Falls, nel Maine, fra l’indifferenza e il razzismo generale. Il risultato è un romanzo in cui il lavoro artigianale dell’autrice è visibile in ogni pagina, in ogni riga, in ogni singola parola. Non a caso Elizabeth Strout è considerata una delle voci della letteratura americana più sincere.

Questo libro è il frutto di diversi anni di ricerca e scrittura. Com’è nato l’intero progetto?

«La storia mi è arrivata lentamente, ma ho subito capito che avrebbe riguardato principalmente l’amore tra questi fratelli, una forma d’amore turbata e sconvolta dal passato comune. Ma mi è servito molto tempo perché ho dovuto intraprendere una vasta ricerca prima di cominciare a scrivere. Inoltre, dovevo capire come raccontare la storia. C’erano numerosi fattori che mi interessavano: come funziona la memoria, come affrontare il passato, come interagiamo con il trauma (e questo include come i somali, a loro volta, considerano i traumi) e il fatto che in  America c’è sempre la speranza che si possa reinventare la nostra vita, fuggendo dal passato».

Con “I Ragazzi Burgess” ritorna a Shirley Falls…

«Sì, ho fatto tappa alla città immaginaria di Shirley Falls, già apparsa sia nel primo che nel secondo romanzo. Mi piace l’idea di tornare allo stesso paesaggio, utilizzare lo stesso tessuto che ho intessuto per molti dei miei personaggi. In fondo è come una storia nella storia, al di là dei personaggi racconto anche questo luogo ha molto da raccontare sulla strada che stiamo percorrendo».

Ad esempio?

«Beh, rispetto agli altri romanzi quì sono scomparsi i mulini, non ci sono più, come nella maggior parte dei mulini nel New England. Anche i cambiamenti di un luogo, non solo quelli dei personaggi, possono dirci tanto dei tempi che viviamo».

L’episodio di Zach è tratto dalla realtà ma è interessante come lei lo abbia inserito in un contesto in cui è difficile dire chi siano buoni e cattivi…

«Sì, il fatto è realmente accaduto ma io ho provato a fare in modo che il giovane Zach fosse simpatico ai lettori, perché mi affascina l’ambiguità del comportamento umano. Ma ovviamente il suo è un gesto terribile che volevo anche condannare duramente. Volevo puntare l’attenzione sul fatto che Zach non riesce a capire davvero perché ciò che ha fatto è così dannoso, sia per se che per la comunità. Lui non conosce abbastanza il mondo per dare il giusto peso al suo agire e questo può essere molto pericoloso».

Accanto ai personaggi principali, con l’avanzare della narrazione, dona voce anche ai comprimari, caratterizzandoli. In particolare, aver narrato il punto di vista della comunità somala evidenzia un lavoro di ricerca molto interessante.

«Sentivo che era molto importante assumere il punto di vista di alcuni personaggi somali in modo che il lettore potesse comprendere in che modo, il gesto di Zach avesse colpito la loro comunità, vivendo le reazioni sulle persone interessate in modo diretto. Abdikarim è veramente angosciato per la morte del suo figlio maggiore, si sente vecchio, stanco e molto traumatizzato. Lui vede in Zach qualcuno che può – davvero inaspettatamente – amare. Mi sono serviti anni di ricerche per cercare di ricreare il punto di vista della realtà somala».

Parlando di Pam, della levità con cui spazza via le preoccupazioni, mi è venuta in mente la Daisy del Grande Gatsby. E’ un paragone azzardato?

«Penso che Pam sia probabilmente più intelligente della Daisy de “Il Grande Gatsby”. Lo dico perché hanno tempi narrativi diversi e di Daisy non si riesce ad essere certi di quanto sia realmente intelligente. Ma Pam era molto interessata alla scienza e alla ricerca tuttavia le mancava la fiducia nei suoi mezzi per andare avanti. Piuttosto ciò che rende veritiero il suo raffronto è il fatto  che entrambe queste donne sono molto inquiete e sembrano sempre alla ricerca di qualcosa di più di ciò che posseggono».

Tutto il libro viaggia sul confine fra tolleranza, convivenza e razzismo. L’America è un paese razzista oggi?

«Sì, gli Stati Uniti sono una società razzista. Mi fa male ammetterlo ma è assolutamente vero. Certo, è anche vero che abbiamo fatto grandi progressi, in particolare negli ultimi 50 anni ma il razzismo è ancora molto presente contro le popolazioni dalla pelle scura, contro gli ebrei e adesso anche contro i musulmani. Ciò detto, questo è un paese costruito sulle differenze e ci sono molti cittadini che dedicano le loro risorse per aiutare tutte le popolazioni. Come in ogni società ci sono infiniti problemi, ma negare il razzismo presente nella società americana sarebbe pericoloso, oltreché sbagliato».

Cosa significa per lei aver vinto il Premio Pulitzer?

«Ha significato tantissimo per me. Testimonia il mio apporto alla registrazione – mediante la letteratura – di un pezzo di America, utilizzando il linguaggio in un modo forte, capace di trasmette la storia ai lettori».

Francesco Musolino®

Fonte: La Gazzetta del Sud