«Mi sta strettissimo il mio corpo, mi sta strettissima la mia testa». Antonella Lattanzi si racconta

Uno sconosciuto episodio di guerra chimica segna la genìa di Giovanni, un bimbo di sette mesi che nella Bari del 1943 sopravvive ad un episodio terribile ma tenuto sotto chiave, celato alla memoria storica degli italiani. Comincia così, con pagine fulminanti, Prima che tu mi tradisca, il nuovo romanzo della scrittrice barese Antonella Lattanzi (Einaudi, pp. 432 €19). La narrazione però compie subito un brusco salto in avanti e l’autrice, con una prosa musicale che ci restituisce persino i versi e i rumori propri della quotidianità, racconta la sorte di due sorelle assai diverse, Michela e Angela J. Sarà quest’ultima, nel bel mezzo di un momento clou per lo svolgersi dell’esistenza della sorella, a scomparire nel nulla, lasciando al suo posto solo tante domande ma nessuna risposta. Prima che tu mi tradisca è un romanzo a cavallo con il tempo, un libro sospeso fra gli anni ’90 e il 2000, dove micro e macro storia si incontrano e si scontrano, dandoci il senso del tutto. Illuminati dal rogo del Petruzzelli, dal gol di Cassano e da altri episodi che hanno segnato la nostra vita e cristallizzato gli attimi, la Lattanzi ci prende per mano, danzando con una prosa sicura ma frenetica che oscilla fra Bari e la sua Roma, sempre all’ombra oscura dei tradimenti, condanna perenne cui nessuno dei suoi personaggi sembra capace di affrancarsi, spezzando la catena che dal torto porta alla vendetta.
Dopo l’esordio disturbante con Devozione, Antonella Lattanzi ritorna in libreria con un nuovo romanzo. Da non perdere. Continua a leggere “«Mi sta strettissimo il mio corpo, mi sta strettissima la mia testa». Antonella Lattanzi si racconta”

Melania Mazzucco: «Il limbo? L’essenza stessa della natura umana».

La soldatessa Manuela Paris è la protagonista di “Limbo” (Einaudi, pp. 476 euro 20) il nuovo romanzo della scrittrice Melania Mazzucco, diverse volte finalista e infine, vincitrice del prestigioso premio Strega nel 2003 con “Vita”. Manuela, maresciallo sottoufficiale degli alpini, è una donna inquieta come tutte le protagoniste che la scrittrice romana pone al centro dei suoi romanzi tanto che sarà il rientro dal fronte afghano, il suo ritorno alla normalità, a rivelarsi davvero arduo, snervante persino. La Mazzucco – in libreria anche con la tenera fiaba “Il bassotto e la regina” (Einaudi, pp. 101 euro 10) – anche questa volta ha scelto di immedesimarsi nel migliore dei modi con la sua protagonista e per farlo ha imparato ad usare il fucile d’ordinanza e ha marciato con tredici chili di zavorra nello zaino. Ma soprattutto dimostra sulla pagina un grande controllo della narrazione, riuscendo a far piombare anche il lettore nel limbo esistenziale che, in fin dei conti, «è l’essenza stessa della natura umana».

Aveva già scritto dell’Afghanistan in Lei così amata. Cosa la affascina di questo paese tanto da volerci tornare con l’immaginazione?

«Il suo isolamento e la sua alterità. Per motivi geografici e storici, l’Afghanistan è rimasto chiuso al contatto col mondo occidentale. In Europa per secoli dell’Afghanistan si conoscevano solo i cammelli e i lapislazzuli. Viceversa, dopo che gli ultimi discendenti di Alessandro Magno si erano dispersi tra le pianure e le montagne afghane, nessun europeo, salvo qualche mercante di gioie, aveva viaggiato in quelle contrade. Così in Afghanistan il tempo si è interrotto, cristallizzato in quello che era ormai il passato del mondo. Niente modernità, niente strade, niente notizie, niente scambi. E l’incontro con la cosiddetta civiltà europea non poteva essere indolore. Oggi anche noi italiani facciamo parte del ‘grande gioco’: mai conquistato e mai sottomesso, l’Afghanistan ci interroga e ci costringe a chiederci da che parte stiamo».

Manuela non è una donna soldato ma una donna militare, una condizione nuova, un tempo inimmaginabile. Perché ha scelto lei come protagonista?

«Perché Manuela è appunto una donna del XXI secolo, una donna proiettata verso il futuro, e il suo personaggio mi offriva la possibilità di raccontare qualcosa che la letteratura ancora non ha mai raccontato. Perché gli occhi di una donna portano al racconto di guerra una prospettiva inaudita – e modificano la guerra stessa. Perché da bambina, Annemarie Schwarzenbach, la protagonista realmente vissuta del mio romanzo Lei così amata, da grande non voleva fare la scrittrice – come poi fece – ma il generale. All’inizio del Novecento, la società rise del suo sogno. Le ragazze come Manuela potranno realizzarlo».

La condizione di sospensione, di inerte attesa del limbo è quella in cui piomba Manuela al suo ritorno a Ladispoli?

«Elsa Morante, una scrittrice che amo molto, scelse come dedica per il suo romanzo L’isola di Arturo una poesia il cui ultimo verso recita: “fuori del limbo / non v’è eliso”. Ma il Limbo, come tutti gli italiani ricordano grazie a Dante, è un luogo, in cui scontano l’eternità coloro a cui, pur senza colpa, sarà negato il Paradiso. È dunque anche una condizione esistenziale, diciamo di felicità precaria, limitata, terrena. È la condizione umana per eccellenza».

Come si è documentata per descrivere le pagine della missione e dell’addestramento?

«Come faccio sempre quando scrivo un romanzo. Investigo, leggo, ascolto, incontro persone, faccio domande, provo a immedesimarmi nella vita dei miei protagonisti. Mi alleno, come se dovessi superare le prove cui si sottopone Manuela per entrare in Accademia. Studio il manuale di istruzioni del fucile AR 70/90. Indosso tredici chili di zavorra, e cerco di capire cosa vuol dire per una donna militare uscire di notte di pattuglia, che so, con un peso simile addosso. Insomma, cerco la verità, quella che una volta ho chiamato “la sconosciuta filologia della vita quotidiana”. Ho bisogno da un lato di immaginare liberamente, dall’altro di documentarmi».

Per rendere la storia d’amore del libro ha creato un parallelo con la figura del ragno cammello. Perché?

«Una leggenda orientale dice che se ti punge il ragno-cammello, un enorme ragno che vive nei deserti afghani, ti ruba l’ombra, cioè l’anima. Il personaggio di Mattia ha subito la stessa sorte: non ha più ombra, non ha più storia. Manuela si chiede come si possa amare un uomo senz’ombra, e se si possa esserne amati».

La guerra in Afghanistan viene definita spesso invisibile mediaticamente. Combatterla può essere ancor di più un’esperienza alienante?

«Suppongo che l’esperienza alienante sia rappresentare un paese che non ha fiducia in te. E che non crede in ciò che fai, nelle ragioni per cui lo fai, e ti rispetta solo quando hai pagato il prezzo più alto. Molti italiani che rappresentano le istituzioni, e non solo i soldati, si trovano in questa situazione. Gli italiani fin dall’Unità hanno un rapporto conflittuale con lo Stato – e con chi lo rappresenta».

Un giorno crede che riuscirà finalmente ad andare in Afghanistan?

«Andrò in Afghanistan quando non ci saranno più bombe né insorti né carri armati né guerra né nemici. Quando sarà un paese libero. La libertà può significare molte cose. Ma io intendo la libertà di pensare, esprimere opinioni senza essere uccisi per questo, libertà di scrivere, di non rinnegare la propria identità, di lavorare, di guidare un’automobile, di parlare con chiunque e andare ovunque senza sembrare una provocazione vivente, una minaccia o una spia. Senza queste libertà essenziali e non negoziabili, per me non ci sono le condizioni per affrontare un viaggio, qualunque ne sia la meta».

Francesco Musolino®

Fonte: La Gazzetta del Sud

Massimo Carlotto: «Denunciamo la subalternità economica delle donne italiane»

Quattro donne per raccontare la condizione femminile odierna, fra violenza e subalternità al mondo maschile, in nome di una vendetta intesa come riscatto e rinascita. Con questo spunto, Massimo Carlotto e Marco Videtta hanno creato il ciclo de “Le Vendicatrici”, quattro libri editi da Einaudi Stile Libero, grande omaggio al feuilleton nonché ardita scommessa editoriale. In occasione della sua presenza alla kermesse letteraria Naxoslegge, abbiamo incontrato Massimo Carlotto a Messina (un evento organizzato dalla libreria Doralice e moderato da Katia Trifirò) dove ha annunciato l’uscita del terzo volume, “Sara” (pp.201 €15), prevista per l’8 ottobre. Massimo Carlotto cura una riuscita collana noir, Sabot/Age, per Edizioni EO, giunta alla decima uscita (Alcazar. Ultimo spettacolo, Stefania Nardini) e il suo prossimo anno professionale sarà tutto dedicato al teatro ma il grande traguardo cadrà nel 2015, quando compirà vent’anni di carriera letteraria. Per festeggiare, a grande richiesta tornerà anche il suo personaggio per eccellenza, l’Alligatore alias Marco Buratti, con due romanzi e tante novità…

Com’è nato il progetto delle Vendicatrici?

«Avevo già lavorato con Marco Videtta, con cui avevo scritto “Nordest” (Edizioni EO, pp.201 €15). Quattro anni fa cominciammo a pensare ad un progetto che riunisse Roma e la condizione femminile odierna».

Lei è un grande ritrattista della realtà del nordest italiano: perché avete scelto Roma?

«È una città dove stanno accadendo una serie di cose interessanti da un punto di vista criminale. Avevamo cominciato a lavorare ad un romanzo e alla fine ne sono venuti fuori quattro ma non volevo aspettare i tempi canonici delle uscite. Per questo ho proposto alla Einaudi quattro uscite ravvicinate e loro hanno subito accettato di pubblicarli nell’arco di sei mesi».

Una scommessa editoriale, un omaggio ai feuilleton…

«Esattamente. Volevo venire incontro alla fame del lettore, alla sua voglia di poter chiudere l’intero arco delle Vendicatrici. Il fatto di aprire e chiudere un ciclo in un breve tempo ha conquistato i lettori che amano anche le serie-tv, soprattutto americane, legate al concetto di serialità. Da questo punto di vista, invece, ho seri problemi con l’Alligatore, perché io non lavoro sui personaggi ma sulle storie e se non è adatta non posso farci nulla. Ma nel 2015 tornerò con due nuovi romanzi che avranno lui come protagonista, chiudendo un ciclo narrativo».

Avete osservato delle regole precise in questi quattro romanzi?

«Ogni romanzo è dedicato ad una figura femminile ma c’è anche una grande antagonista femminile, sfuggendo alla dicotomia “maschi contro femmine” e ciascun libro può essere letto in maniera disgiunta. Il primo, il secondo e il quarto sono romanzi corali, mentre il terzo è dedicato a Sara, il personaggio più misterioso: le è accaduto qualcosa quando aveva 11 anni, ha una tomba vuota su cui piangere e ha dedicato tutta la sua vita alla vendetta. Questa è Sara».

E le altre Vendicatrici?

«Ksenya è la classica sposa siberiana, sono donne disperate disposte a tutto pur di fuggire via. Luz è una prostituta di quartiere ed Eva è una signora perbene con una profumeria ma suo marito è un ludopatico… Per costruire questi personaggi in modo verosimile, io e Marco ci siamo fisicamente installati in un quartiere romano, cominciando ad osservare il tutto da un punto di vista esclusivamente femminile. L’idea era quella di raccontare la contemporaneità criminale, dall’usura al gioco d’azzardo, sino ai piani alti dove troviamo Sara».

La vendetta che portate in pagina ha un’accezione positiva o è mera rivalsa?

«La vendetta è sempre catartica ma le nostre Vendicatrici capiscono che tramite la vendetta possono raggiungere una vita degna. Infatti si alleano e non rinunciano ai grandi sentimenti della vita, come hanno fatto gli uomini che le hanno dominate e sottomesse. Sarà proprio questa consapevolezza a permettergli di cambiare vita».

La violenza contro le donne è un tema drammaticamente sempre più attuale in Italia…

«Quattro anni fa, quando abbiamo cominciato a lavorare, il termine “femminicidio” non esisteva nemmeno. Il nostro punto di partenza è stato che solo il 46% delle donne lavora nel nostro paese e in quel quartiere romano che ci faceva da base, ci siamo subito imbattuti nel lavoro nero al femminile. Una subalternità che si trasmette anche nei rapporti personali, più profondi».

A suo avviso cos’è che rende arduo la tutela della donna nella nostra società?

«Incidono molti fattori, quello legale e culturale senza dubbio ma è soprattutto una questione economica. Girando per i centri di protezione abbiamo visto che molte volte le donne tornano dagli uomini violenti perché non hanno i soldi per sopravvivere. Le donne dovrebbero allearsi, donne fra donne, per superare le situazioni molto difficili, come da tempo accade nel Maghreb».

Le piace il termine femminicidio?

«No».

Si è schierato contro il boicottaggio dei libri di Erri De Luca, proposto per le sue posizioni No Tav. La spaventano queste reazioni?

«Per aver firmato, moltissimi anni fa, un appello pro Cesare Battisti per questioni squisitamente francesi (con una lunga lista di intellettuali fra cui Daniel Pennac, Loredana Lipperini, Christian Raimo e Tiziano Scarpa) i miei libri furono banditi da alcune biblioteche venete. Accusare Erri De Luca di fomentare la rivolta terroristica è un’idiozia e la proposta di boicottare i suoi libri è ridicola, quanto pericolosa».

Ma in generale, quale crede che debba essere il ruolo dell’intellettuale? Deve essere impegnato politicamente o discosto?

«Un autore deve attraversare il proprio tempo occupandosene. Dire delle cose sulla No Tav è scomodo ma evidentemente necessario».

Nel 2015 compirà vent’anni di scrittura. Qual è il suo rapporto con l’ispirazione?

«Io ho bisogno di andare, vedere, scrivere la trama, pensarla e dopo vedere se viene fuori un romanzo. Credo che l’ispirazione sia una balla ottocentesca che gli autori amano raccontare e i lettori adorano credere».

Francesco Musolino®

Fonte: La Gazzetta del Sud 

 

Joe Lansdale: «È il denaro a governare il mondo, non il buon senso»

Joe-R.-LansdaleOrmai da diverso tempo i lettori italiani sono affascinati dal cosiddetto “stile Lansdale”. I romanzi nati dalla penna di Joe Lansdale, scrittore texano sino al midollo, sono ricchi di ritmo in cui gli elementi più disparati si coniugano alla perfezione: dalla passione per le arti marziali al fascino per le ambientazioni western (che troveremo nel romanzo che sta attualmente scrivendo), senza dimenticare la passione per il noir, la fantascienza, l’horror e ovviamente quella per il genere pulp che l’hanno definitivamente consacrato, dandogli caratura internazionale. Assiduo lettore, Lansdale si dedica alla scrittura ogni giorno sin dal 1981 ovvero subito dopo l’uscita del suo primo romanzo, “Atto d’Amore”. Il suo Texas – vive nella cittadina di Nacogdoches sin dalla tenera età – è parte integrante dei suoi romanzi, soprattutto delle avventure dei suoi due protagonisti preferiti, i detective Hap Collins e Leonard Pine – uno bianco e democratico, l’altro di colore, gay e repubblicano – talmente strambi da funzionare alla perfezione insieme. Per celebrare l’uscita di “Una coppia perfetta” (Einaudi, pp.200 Euro 16), una raccolta di tre lunghi ed esilaranti racconti con Hap e Leonard protagonisti, Joe Lansdale è stato felice di rispondere alle domande della Gazzetta del Sud e l’amore per il nostro paese è talmente vivo che già quest’estate vi farà ritorno, magari per ambientarci il prossimo libro…

Com’è nato questo libro-tributo dedicato ai lettori italiani?

«Un libro di Hap e Leonard nasce in modo particolare. Quando sento di avere il giusto stato d’animo mi siedo, Hap inizia a parlare e la storia decolla. Mi piacciono questi due ragazzi e sono felice quando mi fanno visita con le loro avventure. I miei lettori sanno che queste storie puntano proprio sui loro caratteri, tutto viene fuori in modo spontaneo, hanno la capacità di attirare problemi come veri e propri magneti».

Facciamo un passo indietro. Com’è nata questa stramba coppia di detective?

«Fatalità. Ho iniziato un libro intitolato “Savage Season” (Le Stagioni Selvagge, Einaudi). Volevo scrivere di qualcuno che mi somigliasse, che vedesse le cose come la maggior parte della gente nata nel Texas orientale. Ho cominciato a lavorare su alcune delle mie esperienze passate mischiando tutto con una tempesta di ghiaccio assai rara che ha colpito la cittadina texana di Nacogdoches. Ma volevo anche scrivere degli anni Sessanta, come li avevo attraversati e del tipo di persone che ha prodotto, nel bene e nel male. Appena ho iniziato a scrivere, si è presentato Hap e ha preso la parola. Così è cominciata. Poi è arrivato Leonard ma non sapevo che fosse gay finché il libro ha preso una direzione e comunque non era il punto focale perché io volevo scrivere di quelli come Hap che erano contro la guerra in Vietnam e sono andati in galera per protesta e di chi come Leonard, al contrario, è andato a combattere. Leonard era certamente un repubblicano ma oggi come potrebbe esserlo? Insomma, sono partito con queste premesse e queste influenze e tutto ciò si è mescolato in pagina».

Leonard è lontanissimo dagli stereotipi legati all’omosessualità cui ci hanno abituati le serie-tv e i film. Una scelta controtendenza.

«I gay hanno personalità e atteggiamenti variegati, proprio come tutti. Ma la gente tende a sviluppare una visione dell’omosessualità basata su stereotipi e atteggiamenti facilmente etichettabili, per semplice comodità. Però quando stavo scrivendo la prima avventura di Hap e Leonard, gli omosessuali negli States non erano affatto considerati “normali”, non erano ancora stati accettati dalla collettività».

A proposito, il problema del razzismo negli States è migliorato con la presidenza Obama?

«In un certo senso è peggiorato poiché ha portato alla ribalta la questione e molti di quelli che cercano di far cadere Obama lo fanno per pregiudizi razziali. Ovviamente non tutti i suoi detrattori sono razzisti ma è sconvolgente quanti di essi lo siano. La realtà è che io vedo del razzismo in Italia, Germania e Inghilterra e solo dove la convivenza fra diverse etnie è minore sono lievi anche le tensioni razziali. Credo che ovunque subentrino la paura e la disoccupazione alla fine si finisca, fatalmente, per ricadere sulla questione razziale. Ma nel complesso la situazione è migliorata, c’è più consapevolezza della questione».

Ancora riguardo Obama, come crede che andrà a finire la sua battaglia contro le armi? Quant’è forte la loro presenza nel suo Texas?

«È una questione complessa. In primo luogo sarebbe utile che i paesi che giudicano eccessiva la presenza delle armi negli States, non vendessero armi al nostro paese, come accade per l’Italia con le pistole Beretta (il modello 92-FS è in dotazione a tutti gli agenti di polizia americani, ndr). Abbiamo bisogno di leggi migliori però io non sono contrario in assoluto alle armi e difatti ne posseggo ma non sono armi d’assalto o semi-automatiche. Sarebbe giusto che la produzione d’armi venisse limitata ma non accadrà perché è il denaro a governare il mondo, non il buon senso».

Secondo Michael Connelly, i thriller sono best-seller perché lì, a differenza della realtà, la giustizia trionfa sempre. È d’accordo?

«Sì, nei suoi libri la giustizia trionfa sempre e forse per questo sono best-seller ma nei miei libri non è così. Hap e Leonard non sono degli eroi e ricorrono spesso alle cattive maniere per risolvere i guai. Ne escono bene semplicemente perché sono animati da buone intenzioni ma non per questo Hap non ha rimorsi circa l’uso delle armi e circa il loro modo d’agire, anche se a fin di bene».

Dica la verità Joe, quanto si diverte a scrivere di loro due?

«Alcuni dei miei migliori libri non li vedono protagonisti ma Hap e Leonard sono senza dubbio i miei personaggi preferiti».

Non crede sia il momento di portarli via dal Texas, magari proprio in Italia?

«Ci penso da un po’ ma non appena mi siedo a scrivere una loro storia, questa si sviluppa in modo naturale nell’East Texas. Però potrebbe succedere, anzi credo che accadrà, staremo a vedere. Quest’estate potrei venire in Italia proprio con quest’obiettivo».

Francesco Musolino®

Fonte: La Gazzetta del Sud

Ascanio Celestini: «L’ergastolo è disumano»

Attore teatrale di successo, regista e sceneggiatore cinematografico, scrittore e drammaturgo, il poliedrico artista romano Ascanio Celestini, non si è precluso alcun itinerario creativo per raggiungere il pubblico ideale con la forza delle proprie parole. Oggi Celestini è annoverato fra le più apprezzate realtà teatrali italiane, sia per merito della sua narrazione “a scatole cinesi” sia per i temi toccati, legati all’impegno etico e alla memoria, come in “La Pecora Nera” o “Scemo di Guerra”, per citare due fra i suoi successi. Dopo “Lotta di Classe” e “Io cammino in fila indiana”, Celestini torna in libreria con “Pro Patria” (Einaudi, pp. 136 Euro 17,50) in cui racconta il mondo carcerario, narrando la storia di «un erbivoro, un detenuto condannato alla reclusione fino al giorno 99 del mese 99 dell’anno 9999». Firmatario dell’appello per l’abolizione dell’ergastolo, Celestini (che ad aprile sarà in teatro con “Discorsi alla Nazione”) ricorda le parole del medico Franco Basaglia sul parallelismo fra carceri e manicomi e sottolinea le mancanze dell’istituzione carceraria italiana, paventando una utopica ma razionale, soluzione finale…

Cosa intende quando afferma che in Italia il carcere supplisce al Welfare?

«Il settanta per cento dei detenuti stanno in carcere per reati connessi alle droghe e all’immigrazione. Visto che la società non riesce ad occuparsene direttamente, li abbandona come cittadini e aspetta di recuperarli come delinquenti».

A proposito di carcere, qual è il loro stato nel nostro paese?

«Sono le peggiori carceri in Europa. La Corte Europea di Strasburgo in questi giorni ha nuovamente condannato l’Italia per violazione dell’art. 3 della Convenzione dei Diritti dell’Uomo, quello contro la tortura e i trattamenti inumani. Le normative comunitarie sul trattamento dei maiali impongono sei metri quadrati per ogni suino. In molte galere del nostro paese ci sono letti a castello di quattro piani e soprattutto, quasi la metà dei detenuti sconta una pena senza aver ricevuto una condanna in via definitiva».

Lei ha partecipato con un appello online, alla richiesta della fondazione Veronesi per l’abolizione dell’ergastolo. Perché?

«Perché l’ergastolo è anticostituzionale oltre che semplicemente disumano. L’articolo 27 della nostra Costituzione dice che le pene devono tendere alla rieducazione, perciò che senso ha rieducare un individuo per farlo morire in carcere? La vulgata giustizialista ironizza su questo particolare e ci ricorda che molti condannati all’ergastolo, in realtà, scontano solo venti o trent’anni. Lo dicono come se passare tutto quel tempo in pochi metri quadrati fosse una vacanza. E poi non ricordano che esiste l’ergastolo ostativo che non da la possibilità di accedere a nessun beneficio e soprattutto alla riduzione della pena».

Come si spiega il fallimento del ddl sulle pene alternative alla detenzione, tanto auspicato dal ministro della giustizia, Paola Severino?

«Il discorso, apparentemente progressista, sul carcere ruota sempre attorno alla stessa questione: le galere sono sovraffollate, perciò dobbiamo trovare una maniera per decongestionarle. In automatico si trovano due soluzioni: quella temporanea dell’indulto e delle pene alternative, e quella palazzinara della costruzione di nuovi penitenziari.In Italia si sono applicate decine di misure straordinarie di decongestionamento dalla fine della seconda guerra mondiale. La misura straordinaria è, in realtà, la prassi. Ed è stato così fino all’ultimo indulto, quello approvato con la più larga maggioranza degli ultimi sessanta anni, ma anche quello più odiato dai cittadini e persino dai politici che l’hanno votato.

Costruire nuove carceri, come spesso auspicato, sarebbe una soluzione?

«Erigere nuovi penitenziari è una misura altrettanto discutibile visto che, come sappiamo, la grande maggioranza dei reati compiuti sono un servizio che la società illegale fornisce alla società legale. Il problema non consiste nel mandare la gente in galera, ma intervenire sulla relazione che sussiste tra la società illegale e quella legale che si serve dell’illegalità. Oltre a questo bisognerebbe ragionare anche sul fatto che molti reati, se considerati con un po’ d’attenzione, sono azioni immorali, ma, forse, non dovrebbero essere sanzionati».

E per quanto riguarda le pene alternative?

«Fa paura che si arrivi ad esse partendo dalla situazione contingente della sovrappopolazione carceraria e non dal fallimento della galera come istituzione. Il fallimento di un’istituzione che nasce, così com’è ora, con la borghesia e l’illuminismo. Un’istituzione che, nel migliore dei casi, considera il condannato come un bambino da rieducare e non come un essere umano che deve riconciliarsi con la società. E che poi, in realtà, è soltanto una discarica sociale. Non a caso lo stesso sistema che vorrebbe nuove carceri e congestiona quelle esistenti, è il sistema che congestiona le discariche esistente e ne vorrebbe costruire altre».

Lei crea un significativo parallelo fra carcere e manicomio. Di cosa si tratta?

«Franco Basaglia vi si riferisce quando, parlando del campo di concentramento e della scuola, della fabbrica e della caserma, del manicomio e della galera, scrive “Sono istituzioni basate sulla netta divisione dei ruoli: la divisione del lavoro (servo e signore, maestro e scolaro, datore di lavoro e lavoratore, medico e malato, organizzatore e organizzato). Ciò significa che quello che caratterizza le istituzioni è la netta divisione tra chi ha il potere e chi non ne ha”».

Quanto è attuale il problema del razzismo in Italia?

«Ciò che chiamiamo razzismo è un dispositivo culturale che si muove attraverso un doppio meccanismo. Da una parte è una forma di difesa individuale, dall’altra un sistema di controllo sociale. Sono due elementi che vivono in simbiosi, l’uno serve all’altro. Il singolo si difende individuando come corpo estraneo il nuovo arrivato, lo straniero, il povero. Gli impone un’omologazione alla quale lui stesso non crede, dicendo “se vuole stare nel mio paese, deve rispettare le regole”. Lo dice anche se queste regole non esistono e lui stesso, l’indigeno, se ne frega. Non vuole realmente difendere la religione che frequenta come cliente saltuario, né la sicurezza che non ha più nulla a che fare con la presunta comunità in cui vive perché si è ristretta al suo piccolo mondo privato, né tantomeno alla tradizione che ormai s’è trasformata in un ridicolo teatrino folkloristico. L’indigeno difende la propria posizione dominante. Intuisce che il sistema capitalistico è fondato sullo sfruttamento delle risorse ambientali, del tempo e della vita delle persone. Il razzismo è una qualità della relazione tra gli individui che serve a mantenere un rapporto di egemonia-subalternità».

Lei ha dichiarato: “Bisognerebbe arrivare all’anarchia, concedendo alle autorità la possibilità di autoregolamentarsi senza ricorrere alle leggi”. La  soluzione definitiva o solo un’utopia?

«È l’ottimismo della volontà che cerca di contrapporsi al pessimismo della ragione».

 Francesco Musolino

©Intervista pubblicata sabato 9 febbraio sul quotidiano La Gazzetta del Sud