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«Oggi la questione non è religiosa, è metafisica». Pietrangelo Buttafuoco racconta “Il Feroce Saracino”.
«Il mio nome è Giafar Al-Siqilli». Seguito dall’antiterrorismo quando si reca, abitualmente, all’ambasciata iraniana, nel pamphlet “Il Feroce Saracino – La guerra all’Islam. Il califfo alle porte di Roma” (Bompiani, pp.208 €12), lo scrittore e giornalista siciliano Pietrangelo Buttafuoco, ha deciso di svelare il suo intimo rapporto con la religione islamica. Nato – ed è importante dirlo – ben prima che conoscesse i musulmani. La scintilla di questo libro è chiaramente la sanguinosa attualità ma lo scopo ultimo è fra i più nobili: la volontà di combattere l’ignoranza e il pregiudizio spesso aizzati dagli stessi media che, mandando in onda i video e i proclami, finiscono per fare il terribile gioco del califfato di Abu Bakr al-Baghdadi che terrorizza il mondo intero. Dopo il successo ottenuto con “Buttanissima Sicilia” (Bompiani, 2014), il catanese Buttafuoco – già firma de “Il Foglio” e “Il Fatto Quotidiano” – torna in libreria, giudicando la situazione in atto non come una guerra di religione che contrappone l’occidente all’oriente ma una guerra civile globale, una faida interna allo stesso islam caduto in preda alla furia sanguinaria del takfirismo, violento movimento settario sorto nel Settecento. Si tratta, secondo Buttafuoco di «una questione metafisica», dello scontro fra chi difende la civiltà e chi mette in atto la furia devastatrice del terrorismo con echi nichilistici. Ma le pagine più belle sono quelle in cui Buttafuoco rintraccia le forti radici saracene della Sicilia per poi lasciarsi andare al proprio personale racconto con la fede islamica, a partire dal nome scelto, quel Giafar al-Siqilli che durante gli anni gli è costato ironie, infausti auguri e persino la perdita di un amico di lunga data.
Perché ha scritto “Il feroce saracino”?
«Da giornalista vivo immerso nel flusso delle notizie, di ciò che l’attualità chiede, richiede e impone. L’idea di questo libro mi è venuta attraversando l’ennesimo controllo di sicurezza all’aeroporto: mi sono accorto che di volta in volta l’iter è sempre più farraginoso e lento e volevo spiegare le ragioni che stanno esasperando le nostre manie di sicurezza». Leggi il resto di questa voce
Amos Oz: «a volte chiamiamo traditori coloro che hanno avuto il coraggio di guardare avanti»
Abramo Lincoln, David Ben-Gurion, Yitzahk Rabin, Charles De Gaulle. Al pari di questi uomini che hanno fatto la storia, anche il celebre romanziere israeliano, Amos Oz è stato chiamato traditore in patria sin dalla tenera età di otto anni, colpevole d’aver fraternizzato con un poliziotto britannico, a quel tempo emblema dei nemici oppressori. Oggi Oz è un brillante settantacinquenne, uno fra gli scrittori più amati e celebrati – sempre ai primi posti per il toto-Nobel alla letteratura – ma le sue arcinote posizioni politiche favorevoli alla costituzione di uno stato palestinese, non giovano alla sua popolarità in patria anche per via della sua equidistanza dagli estremisti di sinistra e dai fanatici di destra. Con il suo nuovo romanzo “Giuda” (Feltrinelli, pp.336 €18) – pubblicato contemporaneamente in Israele e Italia – Oz porta in pagina la sua amata Gerusalemme nei duri mesi invernali fra il 1959 e il 1960 con l’eco, in lontananza, degli spari della Lega Araba asserragliata lungo la linea del cessate il fuoco che attraversa la città. Protagonisti del libro sono il giovane e squattrinato studente Shemuel Ash, l’anziano saggio e disilluso Gershom Walad e la giovane Atalia Abravanel. I tre si troveranno per motivi di ristrettezze economiche sotto lo stesso tetto e il misterioso ruolo di Atalia sarà sempre più oscuro mentre Oz stuzzica il lettore, spingendo sul tavolo diverse e delicate tesi – sull’esistenza di Israele, l’amore universale e il senso delle religioni – tutte contrapposte fra loro, indagando sul significato del tradimento e sulla figura di Giuda nei vangeli gnostici.
«Ma bisogna fare attenzione, questo libro non è un manifesto», chiarisce più volte Oz durante la nostra intervista, in occasione della kermesse milanese BookCity2014, dimostrandosi sempre attento all’importanza delle parole e al loro intrinseco, potente significato. Leggi il resto di questa voce
Peter Cameron: return to Sicily.
Ad un anno di distanza, il romanziere statunitense Peter Cameron tornerà in Sicilia. Difatti, dopo essersi innamorato di Messina e delle sue primizie culinarie – in una avvincente due giorni per presentare “Il Weekend” che abbiamo raccontato su questo giornale – Cameron, già autore bestseller con “Un giorno questo dolore ti sarà utile” e “Quella sera dorata” (in Italia tutti i suoi libri sono editi da Adelphi), farà ritorno sull’isola per incontrare i suoi lettori palermitani. L’occasione sarà una doppia presentazione coordinata dalla libreria Modusvivendi: lunedì 16 giugno ore 20.30 (nell’ambito della bella iniziativa “Citofonare Modus”) e martedì 17 alle ore 18.30, con la partecipazione della scrittrice siciliana Beatrice Monroy. Nel capoluogo siciliano, Cameron presenterà “Andorra”, il suo secondo romanzo in ordine cronologico, che arriva in Italia dopo ben diciassette anni dalla sua pubblicazione. Ed era un libro atteso poiché “Andorra” (Adelphi, pp.236 €18) rappresenta il filone più oscuro e noir della scrittura di Cameron – il suo gemello è senza dubbio “Coral Glynn” per complessità di intreccio e tono narrativo – e per tale motivo chi ama la scrittura del fine romanziere nato a Pompton Plains, lo attendeva con grande curiosità. Leggi il resto di questa voce
«Uno scrittore deve avere qualcosa di diabolico». Parola di Hanif Kureishi
Presentato in Italia in anteprima mondiale, da pochi giorni è in libreria “L’Ultima Parola” (Bompiani, pp. 304 Euro 18), il nuovo libro dello scrittore anglo-pachistano Hanif Kureishi, già autore di best-seller come “Il Budda delle periferie” e “Il corpo”, nonché apprezzato drammaturgo, saggista e sceneggiatore. Protagonisti di questa commedia brillante umana sono Harry, un giovane biografo inglese e Mamoon, un anziano scrittore indiano dalla fama mondiale, ormai inaridito artisticamente. Alla ricerca della consacrazione professionale ma soprattutto per rimpinguare il suo esiguo conto in banca, l’ambizioso Harry riesce a farsi assegnare dallo spregiudicato editor Rob, l’incarico di scrivere la biografia del grande scrittore indiano ma questi si rivelerà molto ostile e il suo passato fin troppo torbido. Mamoon, difatti, è un personaggio scomodo che ha rifiutato le origini indiane abbracciando la way of life britannica e si è ritirato nella campagna inglese e al suo fianco impera la seconda moglie Liana, una passionale donna romana cinquantenne che non potendo gettarsi nello shopping e nei ricevimenti londinesi, placa la sua frustrazione – anche sessuale – elaborando continue e costose modifiche alla magione che hanno prosciugato le finanze dello scrittore. L’idea della biografia è ordita proprio dalla mente di Liana che vorrebbe rilanciare la fama del suo amato, sognando la consacrazione con un film dedicato alla sua vita, al loro stesso incontro. Tanto Liana che Rob sono convinti di poter manovrare l’inesperto Harry per i propri interessi, ma l’ambizione e la fame di soldi riusciranno a far tacere il suo orgoglio?
Si tratta di un libro ricchissimo, scritto con uno stile aggressivo, forgiato d’una arguta ironia, merce rara oggi più che mai. Sulla pagina, afferma l’autore, «si agitano passioni, tradimenti e uomini che parlano di donne» mentre sullo sfondo emerge l’importanza dell’aspetto multiculturale dell’Inghilterra odierna. Ma questo libro è soprattutto un inno alla scrittura e all’arte dello scrivere, declinata tanto come fuoco sacro, che come viatico per raggiungere denari e successo. Lungo le 304 pagine, inscenando il duello verbale fra l’anziano Mamoon e il giovane Harry, corso al suo capezzale per tesserne gli elogi e carpirne le nefandezze degli amori passati, Kureishi gioca a provocare, chiamando in causa grandi nomi della letteratura («nessuna persona per bene ha mai preso la penna in mano») e riflettendo sull’essenza stessa delle relazioni umane. Un romanzo scoppiettante che presto diventerà un film (prodotto dalla Working Title Film), interamente sceneggiato dallo stesso Kureishi che ha confessato di voler il premio Oscar e baronetto britannico, Ben Kingsley nei panni dello scrittore indiano.
Per un gioco delle parti, se domani un giovane giornalista bussasse alla sua porta con l’idea di scrivere la sua biografia, quale sarebbe la sua reazione?
«Sarei molto entusiasta all’idea e mi augurerei che il giornalista in questione possa trovare la mia vita scandalosa, fuori dagli schemi, ributtante, disgustosa».
Con questo libro ritorna nelle ambientazioni della sua infanzia. Perché ha scelto questo scenario?
«Oggi ho un’età che oscilla fra quella dei miei due personaggi. Mi trovo nel mezzo fra l’età di Harry che ha voglia di spaccare il mondo e quella di Manoon che è esaurito, completamente scarico. Ovviamente in questo libro ho potuto riflettere molto sulla professione di scrittore, non solo sulla scrittura come forma d’arte ma intesa come mestiere, come mezzo di sostentamento…».
Ma c’è anche una traccia sociologica nel suo libro…
«Ho voluto analizzare la società inglese e mi piace riscontrarvi una forte componente multiculturale che spicca fortemente e rende più ricco il paese, al passo con i tempi. Però c’è anche spazio per le passioni e i tradimenti e in definitiva, secondo me, questo libro è una commedia».
Scrive che “uno scrittore è amato dagli sconosciuti e odiato dalla sua famiglia”. Vale anche per lei?
«Se sei fortunato ci arrivi ad essere odiato dalla famiglia e amato dagli estranei. È molto importante che uno scrittore riesca a dire cose difficili. Un’artista deve aver qualcosa di diabolico, deve causare qualche guaio. Pensiamo alla storia della letteratura, a scrittori celebri come Baudelaire, Maupassant, Flaubert o Lawrence; è chiaro che gli scrittori sono spesso fuorilegge e non dimentichiamo che ancora oggi, in vari paesi, molti scrittori sono in carcere. Soprattutto in Pakistan, dove preferiscono metterli sotto chiave piuttosto che leggerne i libri».
Fa affermare a Rob che “lo scrittore è un messaggero di verità, un rivale di Dio”. Una bella definizione per il suo mestiere…
«Beh, Dio è un fastidio notevole perché impedisce che accadano le cose più interessanti. Ma la fantasia umana supera di gran lunga quella divina, per questo deve essere sdoganata e restituita agli esseri umani, senza alcun condizionamento divino o religioso. In passato ci sono stati periodi in cui la cultura e la religione andavano a braccetto ma oggi non è così. Almeno i rasta c’hanno dato Bob Marley».
Harry sembra propenso a giustificare qualsiasi cosa a Mamoon poiché lui, come artista, deve spingersi verso l’Oltre. Secondo lei esiste un limite etico da non oltrepassare?
«Mi interessa molto il rapporto che corre fra ciò che fa l’artista e quello che possiamo perdonare all’essere umano. In pratica dovremmo essere capaci di valutare un’opera d’arte a prescindere dal tipo di vita che ha condotto l’artista, tuttavia mi rendo conto che è molto complicato. Pensate a Polanski. Il fatto che abbia abusato di una tredicenne molti anni fa è difficile da accettare moralmente ma questo può influenzare la nostra valutazione del suo lavoro artistico?
Ha dichiarato che per la formazione di un individuo, la fedeltà e l’infedeltà sono importanti allo stesso modo. Perché?
«Il tradimento è il risultato dell’individualità. Ad esempio, il fatto che i miei figli si ribellino contro me o che abbiano gusti diversi, dichiara la loro identità, diversa dalla mia. Qualcuno che ti tradisce nel contempo dichiara la propria fedeltà verso qualcosa che reputa più importante, come un ideale».
Volendo trovare un cattivo, potremmo individuarlo in Rob, l’editor?
«Rob vuole semplicemente che il libro venda molte copie, seguendo i propri interessi. Ma al tempo stesso ama la letteratura e finisce per idealizzare gli scrittori, qualcosa di molto pericoloso…».
Perché?
«Idealizzare un’artista è come creare una divinità. Dobbiamo riportare l’arte alla gente, in mezzo alla gente».
Mr. Kureishi dal libro emerge una domanda su tutte: quanto dovremmo impegnarci in una relazione amorosa?
«Perché lo chiede a me? Non ne ho proprio idea».
Francesco Musolino®
Fonte: La Gazzetta del Sud, 2 novembre 2013