Anche voi siete chemofobi?

É meglio lo zucchero bianco o quello di canna? E’ vero che il caffè decaffeinato è cancerogeno? Il microonde altera davvero le molecole, dunque lo si può utilizzare? Sapete che tutto intorno a noi c’è il temibile monossido di diidrogeno? Cos’è il glutammato e perché molte aziende dichiarano di non aggiungerlo? Nel suo libro, Pane e Bugie (Chiarelettere) il chimico Dario Bressanini risponde a queste e a tante altre domande circa il cibo e la nostra chemofobia, ovvero la paura delle sostanze chimiche ma è un timore ingiustificato perchè «il 99,9% delle sostanze chimiche che ingeriamo si trova in natura». Voi lo sapevate?

 

Com’è nato Pane e Bugie?

Sono un chimico, collaboro da tempo con la rivista Le Scienze e mi affascinano particolarmente i temi legati alla chimica in cucina e agli alimenti in genere. Col tempo mi sono avvicinato anche a temi più “politici”, come il km 0, il biologico e l’OGM. Sono davvero tanti i luoghi comuni, le leggende metropolitane e i miti legati al mondo dell’alimentazione che spesso danno luogo a conseguenze imprevedibili, magari sfociando in catene di Sant’Antonio inarrestabili. Questo libro vuole far luce su tante questioni anche pratiche, ad esempio se sia meglio usare lo zucchero bianco o quello di canna, partendo da un approccio chiaro ma soprattutto scientifico.

Nel suo libro sfata tanti miti, uno di questi è il fatto che il 99,9% delle sostanze chimiche che ingeriamo si trova in natura…

Un chimico sa bene che tutto ciò che ci circonda è fatto di sostanze chimiche che si trovano in natura. Quando mangiamo un pomodoro o beviamo un succo d’arancia, stiamo ingerendo migliaia di sostanze chimiche diverse, poi la chimica moderna è stata in grado di sintetizzarne tante altre che prima non esistevano. Ciò che è importante sottolineare è la necessità di non generalizzare: ciò che è chimico non è necessariamente dannoso per noi. Anzi.

Lei rivela il clamoroso caso del Monossido di Diidrogeno (DHMO): un elemento presente nelle piogge acide e nelle cellule cancerogene. Eppure non è ancora stato messo al bando!

E’ una beffa che gira su internet che io ho ripreso e ampliato per far capire quanto sia facile creare allarmismo nel campo alimentare. E’ verissimo che questo elemento si trova nelle cellule cancerogene ed è anche un solvente industriale ma il DHMO è semplicemente acqua! Se invece dell’acqua avessi preso una sostanza poco conosciuta, avrei potuto creare un allarmismo o al contrario, proporre una fantomatica sostanza dagli effetti benefici.

Per lei il terrorismo mediatico legato al mondo alimentare è in parte colpa dei giornalisti, che usano male le fonti e il linguaggio scientifico, ma anche il frutto delle catene di sant’Antonio. Proprio pochi giorni fa ho ricevuto una mail con una lunga lista di prodotti “probabilmente” cancerogeni. Insomma, il singolo consumatore come può informarsi?

Prima di tutto deve cancellare le mail con le catene di Sant’Antonio: sono tutte false. Ci sono molti siti che smascherano queste bufale, come quello di Paolo Attivissimo. Capisco l’allarmismo ma il consumatore deve aprire gli occhi e fidarsi solo di fonti certe, già questo è un ottimo punto di partenza.

Cos’è la Chemofobia? Cosa comporta nel consumo di alimenti quotidiano?

La Chemofobia è la paura delle sostanze chimiche ma come abbiamo visto tutto ciò che mangiamo è chimico. Ma queste paure sono sfruttate a livello commerciale come nel caso del Glutammato, una sostanza naturale usata per rendere più appetibili i cibi. Alcuni consumatori ne hanno paura e per tale motivo la loro presenza è nascosta nelle etichette inserendo direttamente alimenti che lo contengono, come avviene per i dadi biologici. E’ legittimo per carità ma è fatto per fuorviare il consumatore, aggirando la sua paura delle sostanze chimiche.

Biologico vuol dire per forza “sano?

Affatto. Ma non vuol dire neanche “dannoso”. Il termine biologico si riferisce al processo di produzione che di per se non dice nulla sul prodotto finale. E’ bene dire senza fronzoli che le pratiche naturali non sono automaticamente sane tuttavia i terreni utilizzati dovrebbero essere meno soggetti all’inquinamento e ai pesticidi. Ma ovviamente bisognerebbe valutare il tutto caso per caso perché gli agricoltori “tradizionali” non vanno avanti solo grazie ai pesticidi, anzi, talvolta i “pesticidi naturali” sono più dannosi di quelli “chimici”.

Il microonde si può usare o no?

Credo che il microonde non faccia più paura oggi. La gente lo associa al concetto di radiazioni ma i termini scientifici hanno un significato preciso che a volte viene travisato nel linguaggio quotidiano. Addirittura, il microonde riesce a preservare le qualità di alcuni cibi, ad esempio le verdure.

Veniamo al decaffeinato. E’ vero che fa male?

Dipende. Il caffè stesso contiene sostanze tossiche in alte dosi, come la caffeina. Alcuni processi di decaffeinizzazione usano solventi organici dannosi ma ciò ormai non avviene più, almeno in Italia. Basta guardare la tazzina: quei vecchi processi toglievano tutta la cremina, invece oggi il decaffeinato viene realizzato tramite l’acqua. Io stesso, ad esempio, lo bevo con piacere.

Dario Bressanini è ricercatore universitario presso il dipartimento di Scienze chimiche e ambientali dell’Università degli studi dell’Insubria a Como, dove svolge anche attività didattica. Ha pubblicato circa sessanta lavori scientifici su giornali e riviste nazionali e internazionali. Collabora con la rivista «Le Scienze», su cui tiene la rubrica mensile -Pentole e provette- dedicata all’esplorazione scientifica del cibo e della gastronomia. È anche autore del popolare blog -Scienza in cucina-, dove affronta con taglio scientifico sia temi gastronomico-scientifici sia argomenti legati alle biotecnologie agrarie, alla produzione agricola, alla percezione del rischio alimentare e alla chimica in cucina. Nel 2009 ha pubblicato per Zanichelli un libro divulgativo sugli organismi geneticamente modificati dal titolo -Ogm tra leggende e realtà-.

Fonte: www.tempostretto.it del 4 maggio 2010

Tu chiamale, se vuoi, Emozioni… intervista a Edoardo Boncinelli

«Ci illudiamo di sapere bene cosa sia la coscienza, siamo molto fieri di possederne una ma in fin dei conti siamo anche consapevoli di non sapere affatto come funzioni, come agisca su noi stessi e questo ci attira moltissimo». Il genetista Edoardo Boncinelli firma per Longanesi il suo 27° libro, Mi ritorno in mente – Il corpo, le emozioni, la coscienza (pp.253; €16,60), dove indaga sul rapporto che il nostro “IO” intrattiene con il proprio corpo e con la socialità, affrontando il tema delle emozioni («alla fin fine sono delle semplici pulsioni biologiche che ci spingono a cercare ciò che ci fa star bene») e, ovviamente, della morte: «Da questo punto di vista la penso proprio come Epicuro: “se ci son io non c’è la morte, se c’è la morte non ci son io”». E sul concetto di scienza etica ha le idee chiarissime: «Il compito della scienza è quello di mettere sul tappeto sempre delle novità. Non ci dovrebbe essere alcun limite al sapere scientifico, al limite si potrebbe discutere delle sue applicazioni pratiche».

“L’abisso che c’è fra la certezza che io ho della mia esistenza e il contenuto che tento di dare a questa sicurezza, non sarà mai colmato”. Professore perché ha voluto aprire il libro con questa citazione di Camus?
«In effetti è facile parlare di coscienza, ne parliamo con familiarità ma nel momento in cui cerchiamo di approfondire non sappiamo a cosa andiamo incontro».

Spesso si dice che l’uomo è l’unico animale a poter dire “IO” ma questo in termini pratici cosa significa?
«In realtà è una frase ad effetto perché gli altri animali non dicono proprio nulla ma probabilmente non sono in grado nemmeno di comprendere il riferimento all’Io, al loro posto nel mondo».

Com’è riuscito ad analizzare il rapporto dell’Io con la socialità, con il mondo?
«Se per “Io” intendo il mio corpo, i miei ricordi, le mie predisposizioni ed idiosincrasie, non è difficile poiché io sono un uomo fra i tanti e molto di ciò che sono è il frutto del mio rapporto con gli altri. Se, al contrario, per “Io” intendiamo la mia sensazione soggettiva, assolutamente privata, allora sono solo, solissimo».

Dedica parte del libro al concetto di mortalità, alla necessaria accettazione che molte cose sopravvivranno a noi stessi. Qual è il suo concetto di mortalità?
«La penso come Epicuro: “se ci son io non c’è la morte, se c’è la morte non ci son io”. E’ una soluzione che non consola nessuno perché tutti vorrebbero l’integrità perenne del proprio corpo ma l’Io non muore».

Lei è il perfetto esempio del “divulgatore scientifico”. Questo è il suo 27° libro, come nacque la sua passione per la scrittura?
«Sì, in 13 anni ho scritto 27 libri. Tutto è cominciato perché parlando mi sono reso conto che mi facevo capire ma mi rendevo anche conto che non sarebbe rimasto nulla e così, nel ’96, cominciai a scrivere il mio primo libro».

Come convivono il suo lato da studioso e quello da divulgatore?
«Per trent’anni ho fatto lo scienziato e poi ho ceduto il passo al divulgatore. Ma devono esserci necessariamente entrambi gli aspetti, non si può parlare di qualcosa che non si conosce alla perfezione».

Cos’è la coscienza e perché ci affascina tanto questo concetto?
«Noi ci illudiamo di sapere bene cosa sia, siamo molto fieri di possederla ma siamo anche consapevoli di non sapere affatto come funzioni, come agisca su noi stessi e questo ci attira moltissimo».

Mi incuriosiva molto sapere come mai ciascun soggetto assorbe diversamente le emozioni e reagisce diversamente agli stimoli esterni e ai propri ricordi.
«E’ normale che sia così. Basti pensare che anche a livello culinario ciascuno di noi ha i propri gusti per cui sarebbe impensabile supporre che a livello emotivo siamo tutti uguali. Inoltre bisogna tener conto del fatto che spesso i diverbi sono il frutto di fraintendimenti, di malintesi quasi inestricabili».

Da genetista come vive l’attacco continuo contro la scienza e i suoi limiti etici?
«In realtà il compito della scienza è quello di mettere sul tappeto sempre nuove novità. Credo che non ci dovrebbe essere alcun limite al sapere scientifico, al limite si potrebbe discutere delle sue applicazioni pratiche».

Edoardo Boncinelli è un genetista ed è professore di Biologia e Genetica presso l’Università San Raffaele di Milano. Collabora a Le Scienze e al Corriere della Sera. Ha pubblicato, tra l’altro, L’anima della tecnica (2006), La magia della scienza (2006), Idee per diventare genetista (2006), Il Male (2007),L’etica della vita (2008), Dialogo su Etica e Scienza (con Emanuele Severino, 2008), Come nascono le idee (2008), Che cos’è il tempo? (2008), Lo scimmione intelligente. Dio, natura e libertà (con Giulio Giorello, 2009) e Perché non possiamo non dirci darwinisti (2009).

Audiointervista con Valentina Brunettin: «Gli animali ci parlano, forse basterebbe ascoltarli»

Un ritorno col sapore della conferma. A soli diciassette anni Valentina Brunettin vinse il Campiello Giovani e oggi, col suo terzo romanzo, I cani vanno avanti (Alet edizioni; € 10), è candidata al Campiello senior. Il merito va anche alla sua editor, Giulia Belloni che le ha riservato l’onore di aprire la sua nuova collana, il cui titolo, Iconoclasti è già tutto un programma.

 

La Brunettin risponde con riserbo alle domande, soppesando con cura le parole, la stessa con cui colpisce fatalmente il lettore grazie ad una scrittura dura, diretta, talvolta scarnificata. Ne I cani vanno avanti narra la storia di Emma e Virgilio, due scrittori che dovrebbero formare una coppia artistica ma come in una scatola cinese, la Brunettin ci porta per mano dentro le storie inventate da Emma e dalla sua capricciosa ispirazione che la porta lontano, molto lontano, inseguendo il latrato della cagnetta Laika, destinata ad entrare, suo malgrado, nella storia dell’umanità.

 

 

Perché “I cani vanno avanti”? Cosa nasconde questo titolo?

«Per fortuna è un titolo che si presta a diverse interpretazioni soggettive: a me piace pensare che possa celebrare il coraggio di un animale come il cane. Tuttavia riconosco anche il retrogusto “sarcastico” del titolo, se viene riferito agli esseri umani».

Valentina, in nome del progresso Laika venne imbarcata sulla capsula Sputnik 2. Ma gli esperimenti, siano essi farmaceutici o cosmetici, riguardano spesso gli animali. E’ tutto lecito nel nome del progresso?

«In filosofia si potrebbe anche asserire che non esiste conoscenza senza sofferenza. E’ però agghiacciante che questa sofferenza la paghi chi, di quella conoscenza, non se ne fa praticamente nulla».

Emma dovrebbe scrivere ciò che Virgilio le chiede. Lei vorrebbe scrivere di Laika ma nel frattempo saltano fuori altre storie, altre vicende. C’è un fil rouge che lega tutte le protagoniste femminili del libro?

«Forse è l’eterna ricerca della consapevolezza di sé e di ciò che si vuole che, ovviamente, contrasta con il perimetro che viene spesso imposto dall’esterno e che, a sua volta, delimita il ruolo della donna, nella sua fase più innocua, ma arriva a delimitare anche i suoi desideri, le sue ambizioni e la sua vita nella sua fase più pesante».

Il rapporto che lega Emma e Virgilio sembra frutto del più classico dei cliché legati all’adulterio. Ma in verità la loro unione è la razionale conseguenza della volontà di Virgilio…

«L’adulterio è l’esaltazione della passione irrazionale. Il matrimonio è l’inno all’amore razionale. Se Emma riuscisse, soprattutto agli inizi del romanzo, a compiere gli atti di infedeltà a cui anela così tanto, forse riuscirebbe anche a uscire dai confini della sua unione con il marito e a scrivere».

Agli scrittori spesso si chiede se sia difficile dar voce a personaggi del sesso diverso dal proprio, presupponendo una diversità di vedute implicite. Nel tuo caso com’è stato portare sulla pagina i pensieri e gli stati d’animo degli animali?

«E’ stato più bello e gratificante di aver dato voce a dei personaggi umani. Anche se non si tratta in realtà di “dar voce”: gli animali generalmente ci parlano, forse basterebbe ascoltarli».

Già vincitrice del Campiello giovani, con questo terzo romanzo vieni candidata al Campiello “senior”. Con che sensazioni hai accolto questa candidatura e più in generale, che rapporto hai con i premi letterari?

«Sono emozionata. Ma sono anche una persona scaramantica, perciò evito di parlarne… »

Emma dice che il talento non dura. Che rapporto hai con la scrittura e con l’ispirazione?

«Citando Bergonzoni, lo scrittore è uno scritturato. Anche se sembra una banalità, l’ispirazione è elemento imprescindibile, dominante e purtroppo indominabile per chi ama scrivere».

 

 

Valentina Brunettin, udinese, ventinove anni. Ha vinto a soli diciassette anni il Primo Premio Campiello con il romanzo L’antibo (Marsilio) e pubblica a ventidue anni il suo secondo romanzo Fuoco su babilonia(Marsilio). I cani vanno avanti è il suo terzo romanzo e accende per Alet la collana Iconoclasti.

 

Fonte: www.tempostretto.it del 31 marzo 2010

Umberto Ambrosoli: «Mio padre, un eroe borghese»

«Sono convinto che in unʼItalia in cui si ha sempre più paura delle responsabilità, in un paese nel quale i furbi hanno sempre più potere, lʼesempio di mio padre possa essere utile». Umberto Ambrosoli è il terzo figlio di Giorgio, lʼavvocato che ebbe il compito di liquidare la Banca Privata Italiana ormai sommersa dai debiti ma protetta dai “poteri forti” e per tale motivo venne ucciso a Milano sotto casa, in via Morozzo della Rocca, nella notte tra lʼ11 e il 12 luglio del 1979 da un killer giunto dallʼAmerica e pagato da Michele Sindona. Quella notte i suoi figli avevano undici, dieci e otto anni. Oggi Umberto di anni ne ha 38: ha tre figli ed è avvocato come il padre e a 30 anni dalla sua morte ha scritto un libro toccante: Qualunque cosa succeda (Sironi editore; pp. 317, euro 18). Il titolo del libro prende spunto da una ormai celebre lettera trovata dopo la morte nella borsa del padre, quasi un testamento morale dedicato alla moglie: “Eʼ indubbio che pagherò a molto caro prezzo l’incarico: lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto perché per me è stata unʼoccasione unica di far qualcosa per il Paese (…). Qualunque cosa succeda, comunque, tu sai che cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo. Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto”.

Oggi Umberto Ambrosoli, invitato dallʼAssociazione “Amici di Onofrio Zappalà”, incontrerà gli studenti del Liceo Classico di Santa Teresa di Riva e alle ore 18, presso i locali dell’Antica Filanda di Roccalumera, incontrerà i suoi lettori.

Un libro nato sei anni fa in sala parto.

«In un certo senso sì. In quel contesto è nato per la prima volta il pensiero di volontà di migliorarlo, di dargli lustro. Una parte dʼItalia che va valorizzata perché cʼè ma talvolta sembra messa da parte, debole, come se tutti fossimo obbligati da una forza maggiore ad accettare il compromesso, la rinuncia agli ideali. Ecco, questa storia ci mostra che non è così. Tutti abbiamo la possibilità di decidere, tutti abbiamo la possibilità di contribuire e di dare lustro al nostro ruolo di cittadini».

Perché ha voluto condividere questa storia?

«Perché secondo me lʼesempio di mio padre può essere utile allʼItalia di oggi. Può essere utile perché evidenzia il fatto che non si possa sempre delegare ad altri la risoluzione dei problemi e come ciascuno di noi abbia il potere di incidere nelle società in cui vive. Una storia fatta di assunzione di responsabilità avvenuta con forza e consapevolezza, con pretesa del rispetto della propria libertà, un gesto di grande amor verso il paese inteso come la collettività, la società nella quale si vive. Un amore che si traduce nella volontà di contribuire a fare in modo che il paese possa migliorare, attraverso la propria azione. La responsabilità è una bellissima esperienza. Eʼ il rovescio della medaglia della libertà dʼazione, è la sua complementarietà. Sono queste due cose che ci permettono di vivere pienamente in una comunità».

Corrado Stajano definì suo padre, un eroe borghese. Eʼ una definizione che le piace?

«Mio padre, a mio avviso, non aveva alcuna intenzione di porre in essere gesta eroiche né tantomeno di ribellione. Fece semplicemente ciò che riteneva giusto fare. La definizione di Stajano va contestualizzata nel libro dove sottolinea la definizione fra lʼeroe, inteso nellʼaccezione popolare e lʼeroe borghese. Non è una distinzione di classe, lʼeroe popolare è un eroe rivoluzionario mentre lʼeroe borghese è colui che crede nelle norme, crede nellʼordinamento, crede nello Stato e si uniforma alle sue norme ma proprio per tale motivo da quello stesso Stato viene considerato come un nemico».

Toccante la vicinanza della società civile – che si avverte anche nella prefazione scritta da Carlo Azeglio Ciampi – cui fa da controcanto lʼassenza dello Stato ai funerali di suo padre. Ma oggi ci sono segnali importanti dato che la scomparsa di suo padre viene ricordata nelle scuole e negli incontri pubblici.

«Da quando ho scritto il libro incontro tantissime persone che mi dicono che per la loro vita, per le loro scelte, lʼesempio di mio padre è stato determinante. Vedo che cʼè unʼItalia che crede in quei valori espressi da mio padre, cʼè chi crede nella capacità di assumersi delle responsabilità nellʼinteresse di tutti e di agire con amore nel contesto civile nel quale vive, con la volontà di migliorarlo, di dargli lustro. Una parte dʼItalia che va valorizzata perché cʼè ma talvolta sembra messa da parte, debole, come se tutti fossimo obbligati da una forza maggiore ad accettare il compromesso, la rinuncia agli ideali. Ecco, questa storia ci mostra che non è così. Tutti abbiamo la possibilità di decidere, tutti abbiamo la possibilità di contribuire e di dare lustro al nostro ruolo di cittadini».

Oggi la legalità è un valore nel nostro paese?

«Diciamo che il mondo mediatico fatica a sottolineare la legalità o perlomeno gli esempi di chi rispetta le regole fanno meno clamore. Eʼ un contesto su cui si può e si deve molto lavorare perché il nostro paese offre tanti esempi di chi ha creduto e crede nel bene collettivo che danno risultati importanti: ventʼanni fa sarebbe stato impensabile prendere la decisione di escludere da Confindustria chi paga il pizzo. Fino a poco tempo fa chi lo pagava era visto solo come una vittima, oggi si è capito che cʼè dellʼaltro, che anche se in modo involontario si sostiene la realtà criminale. Da questo punto di vista si è fatto un grande passo avanti».

Anche la politica nazionale non sembra lanciare messaggi positivi. Mi riferisco al recente scudo fiscale.

«Beh, quando il paese con i suoi soggetti di rappresentanza parlamentare, non mette le legalità al primo posto e con provvedimenti come lo scudo fiscale afferma che per lo Stato i soldi sono più importanti di come sono stati conseguiti, non trasmette un messaggio utile per la crescita del paese».

Che rapporti ha con la Sicilia?

«Purtroppo non conosco affatto il messinese dove di terranno gli incontri con il pubblico. Dico purtroppo perché mi sono stati descritti come luoghi colmi di fascino. Sono stato solo alcune volte a Palermo e Catania ma solo per lavoro. Però dei bellissimi ricordi mi legano allʼisola di Ustica, dove trascorsi una splendida vacanza».

Le tre parole simbolo di questa iniziativa sono “Memoria, verità e giustizia”.

«Una bellissima prospettiva per guardare il futuro».

La spaventa il fatto che sia stato necessario scrivere un libro anche per far chiarezza sul ricordo di suo padre, la cui morte veniva talvolta accostata alle B.R.?

«Mi spaventa ogni ignoranza, mi spaventa ogni superficialità nellʼanalisi dei fatti storici del nostro paese. Ma possono essere anche degli stimoli per coinvolgere e approfondire».

Lʼassociazione “Amici di Onofrio Zappalà”, che promuove lʼincontro, è nata in ricordo di una delle 85 vittime della strage di Bologna. Una ferita ancora aperta sulla quale ancora oggi non cʼè la parola fine.

«Non bisogna mai rinunciare a cercare la verità. A guardare bene gli atti dei processi, le verità si capiscono. Il problema è che talvolta la fatica per raggiungere la verità non comporta sempre la giusta punizione per i colpevoli e questo ha sempre il sapore della sconfitta».

 

Fonte: Centonove 15 gennaio 2010

 

«Scrivere è una questione di ritmo». Parola di Erri de Luca

Il duello fra un uomo, il Cacciatore, e una bestia nobile, il Re dei Camosci, è al centro de Il peso della Farfalla (Feltrinelli editore; pp.70; €7.50) dello scrittore napoletano Erri De Luca. Sulla pagina si confrontano due diverse concezioni del tempo ma soprattutto, fra ammirazione e rispetto si sfidano due solitudini. Da un lato quella del Re dei camosci, «l’acrobata della montagna» ormai sfiancato dagli anni, dal peso di un ruolo che non può durare in eterno e dall’altro quella del cacciatore. Anch’egli solitario, scala i versanti, apre i sentieri e rispetta ciò che di nobile la natura serba in sé ma prima di ritirarsi vorrebbe confrontarsi con il Re e la sua astuzia che lo tiene lontano dal branco, un’assenza che incombe sui giovani scalpitanti. De Luca in poche ma densissime pagine, narra la poesia di un confronto che appare inevitabile con una prosa musicale, pregna di un’atmosfera quasi fiabesca. Segue il bel “Visita ad un albero”, dove emerge un De Luca ancor più personale racconta uno scorsio del suo rapporto con la Natura.

 

La narrazione si apre con il Re dei camosci. Come mai ha scelto questo animale?

«E’ la bestia più specializzata ad abitare quelle altezze, la più agile, la meglio organizzata. L’animale più bello che c’è lassù, un acrobata».Quando sono nati questi due racconti?«L’estate scorsa, in montagna quando raccolsi notizie su bracconieri e camosci. Li devo alla mia capacità di ascoltare le storie, le esperienze altrui».

La sua prosa, spesso piena di paesaggi con scorcio marino, ha virato verso il bosco e la montagna, due sue passioni dichiarate.

«Verissimo. Io scrivo storie che hanno a che vedere con i paraggi. Paraggi sia storici che geografici».

Molto importante il tema del tempo: per la natura importa solo il presente, per l’uomo il futuro.

«In questa storia incombe il sentimento di un tempo che sta scadendo, un tempo che è arrivato al termine della sua corsa senza sapere di preciso come si interromperà ma a differenza dell’uomo, l’animale sa».Lei scrive che il branco si pone regole ferree, allo stesso modo fa l’uomo che codifica le sue regole, salvo poi infrangerle spesso e volentieri.«Questa è una delle nostre specialità: Avere formato delle grandi comunità di vita associata ma aver introdotto la variante della disobbedienza, dell’esperimento anche individuale e ciò ha permesso alla nostra specie di attecchire molto più profondamente rispetto alle specie animali».

In giovane età il cacciatore faceva il pescatore, ma poi capì che non poteva essere il suo mestiere

«Il pescatore è tenuto ad una vita più sociale, è tenuto a prestare soccorso e ad organizzare in maniera più corale la sua vita lavorativa. Al contrario il cacciatore ma anche l’uomo di montagna sia esso agricoltore o allevatore, riesce a cavarsela da solo, è più solitario».Cos’è la solitudine?«In fin dei conti è una faccenda di temperamento. Semplicemente ci sono persone, come me, che si trovano meglio in quella condizione».

Narrando la giovinezza del cacciatore, lei accenna ad anni rivoluzionari che sovvertirono valori e regole. «Il protagonista, come me, dovrebbe avere circa sessant’anni, dunque per forza di cose è passato dentro la temperatura politica degli anni Settanta e lui come me ha obbedito alla chiamata di quella generazione rivoluzionaria».

“La montagna nasconde, ha vicoli, soffitte, sotterranei, come la città dei suoi anni più violenti, ma più segreti”. I nascondigli delle armi del cacciatore sono un’analogia con le soffitte e i “bassi” della sua Napoli?

«No perché Napoli è una città che sorveglia molto se stessa e i segreti sono molto ben distribuiti fra le persone. Napoli è una città che non permette l’individualismo sfrenato, al massimo un individualismo controllato, permesso dalla comunità che partecipa. I nascondigli di Napoli li sanno tutti quanti».

Lei scrive che un uomo senza donna è un “uomo-senza”. Perché?

«E’ una sua perdita, una sua rinuncia, una sua mancanza ma finchè non si scontra con una presenza non la si può notare, la si dimentica fatalmente. Nel momento in cui c’è una presenza femminile, quando una donna sfiora la vita di quest’uomo che vi ha rinunciato, solo allora emergono queste rinunce».

Come il cacciatore, anche lei crede in un padrone di tutto, in un Creatore?

«Un Creatore, un Capomastro, un Proprietario generale. Ciascuno dà un titolo a questo sentimento religioso».

Molti scrittori dicono di privilegiare l’istintività delle parole al lavoro di cesello. Per lei come funziona?

«Per me è tutta una questione di ritmo. Prendo il ritmo della voce narrante e non ho niente da cesellare».

 

Erri De Luca. Nato da una famiglia della media borghesia napoletana, vive circondato dai libri della biblioteca paterna. Entra a far parte di Lotta Continua e, nel ‘76, le amicizie lo portano in fabbrica e poi in giro per il mondo, da camionista a scaricatore di porto, da fattorino a muratore per circa vent’anni. Ha detto di essere riuscito a sopravvivere perché ogni mattina si svegliava un’ora prima per tradurre pagine della Bibbia dall’ebraico antico. Autore di numerosi libri di successo – è un autore cult in Francia – il suo esordio quasi a quarant’anni con “Non ora, non quì” ha stupito la critica per la sua prosa al confine con la poesia.

 

Fonte: www.tempostretto.it del 17 novembre 2009