Il suo romanzo d’esordio gli è valso milioni di copie vendute nel mondo eppure l’ha dovuto riscrivere ben nove volte prima che un editore spagnolo lo prendesse in considerazione. Era “La cattedrale del mare” con cui Ildefonso Falcones – già avvocato di successo – è divenuto famoso, bissando il successo con “La mano di Fatima”. Una trilogia degli esclusi che trova compimento con il suo nuovo romanzo, “La Regina Scalza” (Longanesi, pp.704 €19,90). Il sentimento principale di questo libro che ruota attorno alla musica e alla schiavitù, è certamente l’amicizia che lega le due protagoniste e narratrici – Caridad e Milagros – e andranno incontro ad un destino assai diverso, muovendosi su un palcoscenico storico davvero significativo come il tentativo di sterminio ai danni dell’etnia gitana, messo in pratica nel XVIII° secolo. Dopo aver parlato di ebrei e moriscos, Falcones torna a parlare dei reietti e dei perseguitati occupandosi di un popolo senza tradizione scritta e perennemente frainteso. Una lunga chiacchierata in un noto albergo milanese durante la quale si è discusso anche di scrittura, politica, economia e fortuna editoriale: “il talento è importante ma la fortuna è l’unica condizione necessaria per raggiungere il successo. Ma nonostante il successo non lascerei mai il mio studio: in tribunale incontro gente vera ogni giorno e questo mi permette di restare con i piedi per terra”. Continua a leggere “Ildefonso Falcones non ha dubbi: «Oggi viviamo in una situazione economica paradossale».”
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“Una storia d’amore al tempo della crisi”. Silvia Avallone si racconta
Dopo il grande successo riscontrato con “Acciaio”, la scrittrice Silvia Avallone era certamente attesa al varco, tanto dai suoi lettori che dal mercato editoriale. L’Italia che porta in pagina nel suo secondo romanzo, “Marina Bellezza” (Rizzoli, pp. 528 Euro 18,50) è quella dei figli degli anni ’90, una generazione cresciuta davanti alla tv con il mito del successo e della fama. Marina ha vent’anni e una bellezza assoluta che la porterà a lasciare la natìa Valle Cervo in cerca di fortuna mentre Andrea, come un salmone controcorrente, desidera tornare alla terra per fare il margaro, colui che alleva il bestiame. Ispirato alla storia d’amore dei suoi nonni ma declinato in chiave moderna, Marina e Andrea si respingeranno e si attrarranno nel corso dell’intero libro, sino a giungere ad un finale aperto. Sullo sfondo si muove una generazione di ragazzi insoddisfatti, privati del futuro, convinti che se la vita fosse giusta dovrebbe risarcirli…
Marina Bellezza nasce nel 1990 e cresce davanti alla tv. Poi cosa accade?
«La tv le tiene compagnia durante la sua infanzia e la sua adolescenza mentre la sua famiglia va in pezzi. Diventa per lei un punto di riferimento, una via di fuga possibile; nello stesso tempo, il mondo della televisione, rappresenta la meta per il suo rancore e il sentimento di ingiustizia per il trattamento riservatole dalla famiglia».
Proprio il supposto diritto ad una forma di risarcimento è un punto focale del libro…
«Sì, è il suo grande errore. Anche quando la vita ti tradisce non è affatto detto che ti debba risarcire. Ma lei ne è convinta».
Perché ha voluto che la bellezza fosse il tratto più evidente della sua protagonista?
«Desideravo un personaggio femminile molto scomodo da giudicare. Mi piaceva che, scrivendone, fosse capace sia di farmi arrabbiare sia di provare tenerezza nei suoi confronti. Per trarre ispirazione ho iniziato a pensare alle grandi cantanti americane come Britney Spears e Rihanna; sono convinta che dietro queste vite ci siano traumi e ferite che fungono da benzina per ottenere un successo colossale. Così, ho immaginato una Britney Spears di provincia con una carica da leonessa ma anche molto fragile».
Il fatto di superare degli ostacoli se non addirittura dei traumi, può dare uno slancio permettendo di lanciare il cuore oltre l’ostacolo?
«Se penso a questo momento storico e alla difficoltà che incontrano i miei coetanei nel mondo del lavoro, voglio sperare che il coraggio possa aiutare a tirare fuori le proprie qualità, rendendoci non solo più forti ma anche più lungimiranti. Non avere la strada spianata davanti a sé può permetterci di trovare dei sentieri inaspettati da intraprendere».
“Storia d’amore al tempo della crisi”: poteva essere questo il sottotitolo del suo libro?
«Sì! Decisamente sì».
Andrea, proprio come un salmone controcorrente, sembra voler tornare alla terra, ad una vita molto slow…
«Marina è una rockstar arrabbiata nata in provincia, invece Andrea è ispirato ai margari che facevano la transumanza del gregge, figure silenziose che mi hanno sempre affascinato. Ma per scrivere il libro sono andata a caccia di storie di miei coetanei, con una mentalità da anni ’80 e con alle spalle degli studi, che decidono di tornare alla terra, di recuperare anche il proprio territorio. Di storie simili ne ho scovate tante, da nord a sud».
La provincia che porta in pagina sembra molto diversa da ciò che siamo abituati a leggere. Come mai?
«Volevo che in questo libro ci fosse uno spirito da pionieri, che rivivesse il mito della frontiera da conquistare. Oggi mancano i far west ma abbiamo le nostre provincie, piena di tesori e di bellezze incolte, abbandonate, impoverite per decenni. Si tratta di un recupero essenziale, qualcosa di simile alla ricostruzione post-bellica per importanza. La mia provincia non è rifugio ma luogo di conquista».
Se la sentirebbe di lanciare un appello ai giovani italiani per indurli a non lasciare il paese, a giocare qui la battaglia del proprio futuro?
«Sia chi rimane sia chi va all’estero è un piccolo eroe, in entrambi i casi serve davvero molto coraggio per affrontare le difficoltà odierne. Io sono stata anche fortunata. Diciamo che sento un forte legame con la mia lingua, con il mio paese e mi fa rabbia che il nostro enorme potenziale, il patrimonio culturale e paesaggistico, il Made in Italy e le eccellenze siano sprecate, lasciate a se stesse se non addirittura osteggiate. Mi sento dire che dobbiamo ripartire da noi stessi, riprenderci le ricchezze del nostro paese, farle rivivere. Vorrei ci fosse un’alternativa, invece, andar via è spesso una necessità».
Tornare a scrivere dopo il successo di “Acciaio” è stata una liberazione o un esame da superare?
«Ho cercato di dimenticare completamente la pressione e quando ho cominciato a scrivere per fortuna, è accaduto. Mi piace alternare la fase della scrittura – che consiste nello stare chiusi per uno, due anni senza fare nient’altro – per poi condividere il libro per diversi mesi, viaggiando in giro per l’Italia».
Per lei cosa rappresenta l’atto della scrittura: più simile ad una necessità fisica o ad una forma di piacere?
«Non mi hanno mai posto questa domanda, almeno in questi termini. Ho bisogno di vivere ma sento la necessità di raccontare il mondo, quello che mi sta a cuore, per salvaguardare certe province, certe storie. È un bisogno di liberta soprattutto: il mio tempo storico è denso di difficoltà e non posso cambiarlo ma scrivendo posso reagire, sovvertire tante cose che non mi piacciono».
Almeno nella scrittura le cose possono andare come dovrebbero?
«Sì, scrivere significa dare ordine ad un caos spesso indecifrabile. Un modo per ridare importanza a ciò che conta davvero».
Francesco Musolino®
Fonte: La Gazzetta del Sud, 26 ottobre 2013
Vinicio Capossela: «Parlare della Grecia significa parlare dell’umanità intera»
L’innamoramento con la Grecia è frutto degli anni. Come in una danza rituale, in un corteggiamento dall’esito già scritto, il cantautore d’origini irpine Vinicio Capossela si è fatalmente avvicinato al mondo ellenico. Prima abbracciando le sue sonorità con l’album “Rebetiko Gymnastas” del 2012 e adesso, in seconda battuta ha affrontato la gente, la disillusione e la voglia di lanciare lo yogurt delle loro capre in faccia ai politici che ormai disprezzano. In occasione del 3° Festival del Giornalismo di Inchiesta appena conclusosi a Marsala, Capossela ha mandato in visibilio il pubblico presente alla tappa speciale del suo tour “Mar Sala” ma con un fuori programma straordinario ha anche presentato “Tefteri – Il libro dei conti in sospeso”, il suo nuovo libro in uscita il 16 maggio per Il Saggiatore. Bastano le primissime pagine, in cui affronta l’etimologia della parola crisi (derivante da krìno: separare, dividere), per avere la certezza che non si tratta del classico libro che il personaggio mediatico scrive per battere cassa; Tefteri è un vero e proprio romanzo civile, capace di guardare in faccia la crisi dei valori odierna da un punto di vista umano. Le pagine di Capossela tratteggiano il suo peregrinare fra taverne e vicoli, a contatto con diversi personaggi di cui diventa biografo occulto ma consapevole, rivelando un destino comune che parte dal mondo ellenico ma si rivolge a noi tutti. Perché siamo tutti figli della Grecia anche se talvolta preferiamo dimenticarlo. Sono tante le domande che Capossela ascolta, mentre, pensieroso si passa la mano destra sulla barba scura, folta e ricciuta. E poi comincia a parlare con quel tono di voce tutto suo, melodioso e roco insieme.
«Il Tefteri non è un semplice taccuino. Piuttosto è il libro dei conti in sospeso e quando non hai più soldi in tasca il barista comincia a segnare…».
Il suo legame con la musica dell’Est è forte più che mai oggi…
«Sono sonorità che mi hanno sempre affascinato ma il Rebetiko lo conobbi a Salonicco nel ’98, in una taverna dove suonavano questo blues greco. E’ una musica che si suona per farsi coraggio, musica della pena, musica dell’assenza. Il Rebetiko lo si ascolta insieme ma il mangas (colui che doveva elaborare un lutto o un dolore, ndr) lo ballava da solo, infilando solo una manica della giacca. Così se qualcuno lo disturbava, se si intrometteva nella sua elaborazione del dolore, faceva prima a tirar fuori il coltello. Il Rebetiko è profondamente legato al dolore, del resto è nato dopo il massacro di Smirne nel ’22 durante la guerra greco-turca, quando improvvisamente i greci divennero stranieri in patria e furono preda di quella bile nera, la dalkàs, che rende nera anche la tua anima».
Ma a cosa servono queste canzoni?
«A non essere soli. Anzi (riprende dopo una pausa, come se avesse riletto mentalmente le sue parole carezzandosi la barba) ad esserlo ma con il conforto dell’abbraccio di chi ti è simile».
Italiani e Greci: una faccia, una razza?
«Sì, ma io aggiungo anche “una disgrazia”. Parlare della Grecia è come parlare dell’umanità stessa, di noi tutti. La Grecia è da sempre l’inizio di tutto e la situazione in quel paese può facilmente contagiare l’Europa. Proprio come un virus. Tutti noi restiamo a guardare per capire cosa succederà».
In questo suo viaggio lei parla di tante cose e descrive l’impatto della crisi nel modo di vivere d’un popolo, ora cedendo spazio alla rassegnazione ora alla rabbia. Ha capito come ne usciremo dalla crisi?
«Chi siamo quando perdiamo tutto? Questa, credo, sia la vera domanda. Il sistema economico ha cambiato, stravolto, il nostro modo di vivere. Sì mi piacerebbe che questa crisi segnasse anche un nuovo modo di vivere ma in realtà credo che finirà per peggiorare le cose. Del resto il sistema capitalistico, pur essendo imperfetto, ha dimostrato d’avere anticorpi necessari per rinnovarsi e superare gli ostacoli. Crisi significa dover scegliere. Scegliere quali bisogni, quali necessità soddisfare e quali sacrificare. La già ampia forbice fra chi ha tanto e chi ha nulla, aumenterà ancora e in Grecia ma anche altrove, ci saranno sempre più guerre fra poveri e contro i più deboli. E intanto i movimenti estremisti e neofascisti, come Alba Dorata in Grecia, guadagnano consensi…».
La crisi economica è dunque crisi di valori a tutto tondo?
«I nostri nonni hanno avuto certamente una vita più dura ma avevano anche dei valori che fungevano da bussola, da radicamento. Erano il linguaggio, il gergo persino il modo di portare il cappello. Oggi tutto è delegato alla tv ma se non si hanno nemmeno i soldi per pagare la bolletta elettrica, cosa succederà?»
Crede nell’Unione Europea?
«Quando nacque mi sembrava una splendida idea ma adesso mi domando come una moneta possa unire sensibilità tanto diverse come quella greca e quella tedesca… Del resto persino l’Unità d’Italia è stata realizzata a discapito di molti, per cui forse avremmo fatto bene ad imparare questa lezione prima di accostarci all’Europa».
E se alla fine l’Europa facesse a meno della Grecia?
«Europa è una parola greca. Sarebbe un bel controsenso».
Francesco Musolino®
Fonte: La Gazzetta del Sud
