Può destare una certa sensazione il fatto che Massimo Carlotto, l’autore della serie cult L’Alligatore affermi che «oggi il noir non è più lo strumento d’eccellenza per raccontare la realtà». Ma Carlotto, il maestro del noir mediterraneo, con la sua nitida analisi ha ipso facto abilitato tutti i generi narrativi a raccontare il degrado della società italiana e proprio questa è l’essenza della nuova collezione numerata della casa editrice EdizioniE/O ovvero Sabot/Age, diretta da Colomba Rossi e curata proprio da Massimo Carlotto. La collezione, sbarcata in libreria il 24 agosto, è dedicata alle “storie che il nostro Paese non è più in grado di raccontare” e ha preso avvio con due titoli importanti: Matteo Strukul (autore de “La Ballata di Mila”) porta sulla pagina un pulp ritrovato e rinvigorito per raccontare le gang cinesi mentre Carlo Mazza (autore de “Lupi di Fronte al Mare”) si distingue per uno stile classico e folgorante con il quale denuncia gli orrori della malasanità pugliese. «Con i miei libri – racconta Carlotto – ho messo in luce chi ha saputo sfruttare il degrado morale per fare fortuna. Sabot/age invece, racconterà le storie delle vittime che hanno deciso di ribellarsi».
Il nome della collana è il punto perfetto da cui partire…
Sabot/age letto alla francese o all’inglese ha un doppio significato molto interessante. Il sabot è lo zoccolo di legno che gli operai delle filande lanciavano nelle macchine quando, esausti, non reggevano più i ritmi di lavoro. La parola inglese “Sabotage”, sabotaggio, rende alla perfezione la stanchezza degli italiani, esausti dal clima di menzogna e mistificazione della realtà nel quale è piombata l’Italia. Oggi sembra davvero necessario sabotare la macchina mediatica che propina una realtà falsata.
Come la si può sabotare?
Raccontando storie prese dalla realtà che rendono al meglio l’Italia odierna, quella del post-collasso. Il noir aveva anticipato questo collasso descrivendo la crisi ma ora è importante che tutti i generi letterari riescano a raccontare ciò che accade, rendendo al meglio le modificazioni antropologiche che hanno subito gli italiani negli anni.
Nel suo ultimo libro “Alla fine di un giorno noioso” lei fotografa un Veneto dove tutti sono corruttibili e non ci sono più valori. Ma con la collana “Sabot/Age” cambia la prospettiva…
Sì. Io ho raccontato la crisi dal punto di vista di chi si è approfittato della crisi, invece questa collana racconta l’altra faccia della medaglia, quelle storie taciute che evidenziano come la gente affronta quotidianamente il degrado nel quale l’Italia sta sprofondando. Siamo giunti ad un punto di non ritorno con cui bisogna fare i conti. E’ brutto dirlo ma, da un punto di vista letterario, il momento è molto affascinante».
La collana si è aperta con due titoli importanti e assai diversi fra loro: “La Ballata di Mila” di Matteo Strukul e “Lupi di Fronte al Mare” di Carlo Mazza. Cosa vi ha colpito di questi romanzi tanto da decidere di partire con essi?
Questa è una collezione numerata che punta sui contenuti e non sui generi e tutti i numeri hanno in comune il fatto di essere storie molto potenti. Il numero uno è “La Ballata di Mila” (pp.224; €17) di Matteo Strukul che rilancia il pulp con forza, raccontando la storia di una vittima che si ribella. I personaggi che alzano la testa e non accettano più di essere sottomessi saranno determinanti in questa collana. Invece “Lupi di Fronte al Mare” (pp. 368; €19,50) di Carlo Mazza è una storia straordinaria perchè racconta per la prima volta in un romanzo, lo scandalo della sanità in Puglia. Mazza si muove sulla pagina con una lucidità folgorante cui abbina una forma letteraria classica e nitida. Questi due autori, siamo certi, ci daranno grandi soddisfazioni.
Quando la intervistai per “Alla fine di un giorno noioso” lei mi confessò che era molto preoccupato per la condizione morale del nostro paese. E oggi?
Oggi lo sono anche di più. E’ successo quello che mi aspettavo ovvero un collasso morale ed economico. Siamo in mano ad una manica di incapaci che stanno gestendo il paese maniera straordinariamente pessima. Me lo aspettavo ma ora è giunto il momento di cambiare e questo grande fermento letterario può essere un segnale importante.
TAORMINA. «L’Italia ha partecipato attivamente alle missioni della NATO in Afghanistan, Iraq e Libia. Siete un paese delegittimato che non può ribellarsi alla smania degli Stati Uniti di mettere le mani sul mondo intero».
Il regista americano Oliver Stone, tre volte premio Oscar, è senza dubbio la punta di diamante della 57a edizione del Taormina Film Fest e non ha certamente deluso le attese. Attualmente è al lavoro su un documentario da dieci ore dal promettente titolo – The Unknow Story of United States – nel quale vuole mettere in luce il peso dell’America sul mondo come lo conosciamo oggi: «Sono certo che se i servizi segreti americani non fossero intervenuti nel ’48, l’Italia sarebbe diventata un paese comunista».
Stone non si tira indietro e rilancia ancora: «La Morgan Bank ebbe un peso fondamentale per la storia italiana perché finanziò direttamente Mussolini e la diffusione del fascismo. Inoltre nel mio documentario dimostro con l’aiuto di storici, che le truppe alleate liberando la Sicilia avrebbero potuto agire in modo assai diverso, senza bombardare in modo indiscriminato».
Stone è a lavoro anche su Savagesun serial tv nel quale narrerà come Los Angeles sia diventata la capitale mondiale della marijuana, rivelando anche un’ampia conoscenza dell’argomento: «Prima dominava l’hashish afghano ma oggi il massimo sul mercato è l’erba della California del Sud. Hanno fatto grandi investimenti genetici e oggi la qualità Original Gangster, la più saporita, costa quasi come un buon bordeaux».
Chi sono gli inviati per le testate estere che scrivono dall’Italia e cosa ne pensano del Bel Paese? Il giornalista, scrittore e critico televisivo, Mariano Sabatini, ne L’Italia s’è mesta (Giulio Perrone editore; pp. 170; €11) ha avuto la brillante idea di creare un fitto dialogo con i numerosi cronisti dei quotidiani esteri e alcuni scrittori che vivono in Italia. Il ritratto che ne viene fuori è disarmante: se da un lato si elogia la nostra Costituzione (“la più bella del mondo” secondo Marcelle Padovani), la corrispondente tedesca Costanze Reuscher non esita ad attaccare frontalmente il premier Silvio Berlusconi e il suo piglio anti-democratico ma in generale si vuol far luce sulla questione femminile, la situazione dei media e l’ingerenza della Chiesa nella politica nostrana. Il garantismo non viene mai messo in discussione da Sabatini – che da anni scrive di costume, cultura e spettacolo per i maggiori quotidiani italiani – ma leggendo le belle pagine de L’Italia s’è mesta è lecito chiedersi cosa accadrebbe a Berlusconi se fosse al potere in qualsiasi altro paese del mondo e perché mai gli italiani sembrano rassegnati a sopportare tutto.
Ma L’Italia s’è mesta non è un elogio funebre e Sabatini non ha alcuna voglia di mollare, di gettare la spugna, convinto che l’Italia possa finalmente ripartire. Un giorno si spera non troppo lontano.
Sabatini, nel suo precedente libro metteva in luce le storie di molti giornalisti anche per dimostrare le difficoltà del nostro mestiere oggigiorno. In questo nuovo e accurato lavoro ha deciso di far parlare i corrispondenti esteri nel Belpaese. Che visione si ottiene da questo interessante cambio di prospettiva?
«Una visione d’insieme, e a giusta distanza, dell’Italia che ci è toccata in sorte e che mettendoci d’impegno abbiamo fatto di tutto per peggiorare. Troppo facile dare la colpa a Berlusconi e al berlusconismo. Ogni volta che siamo chiamati a votare e rinunciamo per andare al ristorante o al mare sottoscriviamo una delega in banco a chi, pur lagnandoci, continuiamo a garantire il potere. Il non voto è un voto regalato. Forse però, e dico forse, il cattivo andazzo vive un’inversione di tendenza. Lo abbiamo visto alle ultime amministrative e speriamo di bissare alla prossima chiamata referendaria, dove saremo chiamati ad esprimerci direttamente su nodi palpitanti. I colleghi esteri interpellati davvero non si spiegano come gli italiani non abbiano ancora capovolto le loro sorti».
Lei ha davvero aperto una porta segreta poiché, eccezion fatta per i lettori de Internazionale, difficilmente sappiamo cosa dicono di noi all’estero. Ebbene, che quadro ne viene fuori? Siamo davvero sull’orlo di un regime mediatico e alla scomparsa dei fatti grazie alle favole del Tg1 e del Tg4 o è una visione apocalittica?
«Non credo proprio, direi piuttosto che risponda adeguatamente all’istanza di sano realismo che sento montare. L’ottimismo della volontà a cui gli il governo attuale ci vorrebbe assuefare non può bastare, i problemi sono tanti, complessi, di multiforme natura ed origine. Scuola allo sbando, crisi economica feroce, costumi da bassissimo impero, invadenza clericale nella vita sociale, politica del tutto ripiegata sulle necessità di un solo “uomo forte”, pezzi di democrazia che come dice la tedesca Constanze Reuscher se ne vanno giorno dopo giorno, insulti alla nostra bella carta costituzionale, la più bella del mondo per Marcelle Padovani… potrei continuare a lungo. E non è per pessimismo che mi sento di dire che una certa mestizia avvolge come una cappa impenetrabile quasi ogni settore del Paese. Realismo, solo realismo».
In una famosa frase, il cantautore Giorgio Gaber denunciava di “temere il Berlusconi che era in sé”. Lei che impressione ha? Davvero gli italiani si specchiano nel Cavaliere, finendo per invidiarlo più di quanto sia lecito aspettarsi?
«Lui poi non si era facilitato la vita, con l’aggravio di una moglie impegnata in politica dalla parte dell’attuale premier. In ogni caso, ho l’impressione che ognuno di noi abbia tracce di berlusconismo nel sangue tali da essere rilevate con una analisi di prassi… altrimenti non saremmo arrivati dove siamo. Per un verso o per l’altro, i furbetti che intendono interpretare le leggi a proprio vantaggio sono ravvisabili in ogni fazione. Da qui la deriva antipolitica che avvertiamo, è come se fossimo caduti in un circolo vizioso che si autoalimenta per causare la propria degenerazione progressiva. Altro discorso è fabbricarsi le norme ad personam a proprio uso e consumo ed è perciò che qualunque premier sarà migliore di Berlusconi. Lui è l’incarnazione dell’anomalia, tutto quello da cui tenersi alla larga per far ripartire l’Italia, stagnante da troppi anni. Purtroppo, con la collega spagnola Irene Hernandez Velasco di El Mundo, mi chiedo cosa accadrebbe se il modello berlusconiano dovesse funzionare in altre democrazie… un simile prodotto d’esportazione, credo, non potremmo perdonarcelo».
Dialogando con i colleghi esteri, qual è il difetto che più spesso riconoscono a noi italiani?
«Non sopportano la nostra attitudine a burocratizzare ogni aspetto della vita, contro i nostri uffici farraginosi è una doglianza generalizzata. Molti di loro non sapevano neppure cosa fosse una carta d’identità. E lo scrittore Tim Parks racconta in modo tragicomico la trafila per farsi allacciare una linea telefonica. Poi non comprendono come mai accettiamo tutto in modo supino, senza troppo protestare».
Nelle loro parole, a suo avviso, prevale l’incredulità per il nostro degrado morale o la sua ferma condanna?
«Direi la condanna. Ho appreso con sgomento da Paloma Gomez Borrero di Radio Cadena COPE, spagnola, che i suoi connazionali non ci somigliano affatto. Gli spagnoli, per rigore e compostezza, sono molto più simili ai tedeschi. Per quanto riguarda il degrado morale, Marcelle Padovani propone, per motivi d’igiene, l’istituzione di prostitute di Stato. Provocazione ma neppure tanto…»
Sabatini, spesso si sente dire che il Ruby-Gate, il conflitto di interessi e i molteplici processi in cui è imputato il premier, avrebbero determinato la sua uscita di scena da quasi tutti i paesi occidentali. A suo avviso è giusto essere garantisti sino alla fine oppure siamo dinnanzi ad un corto-circuito dell’intero sistema?
«Garantisti sempre, ciò non toglie che Berlusconi si sarebbe dovuto dimettere da tempo. Una nazione moderna e di spicco come l’Italia non merita un presidente del Consiglio su cui gravitano tante ombre. I processi servono a fugarle. Meglio sarebbe per tutti se fossero portati a compimento nel più breve tempo possibile, senza dilazioni legittime o no».
In conclusione lei dichiara di voler restare e stila anche un elenco di “italiani a cinque stelle” di cui vuole onorare la memoria. Le chiedo: in cuor suo teme che se ne pentirà oppure ci sono già elementi che possono farla ben sperare?
«Disperarsi non serve mai. Gli italiani di cui andare fieri sono tanti, trapassati e viventi, ma vale la pena rimanere anche per altri motivi. Chi parte lo fa perché si sente spinto ai margini, derubato della speranza di miglioramento… perché, come scriveva Mark Twain a metà Ottocento, rivelando doti di preveggenza: “Come l’America non ha passato, l’Italia sembra non avere futuro”. A ben vedere, dai tempi del gran tour ad oggi, lo sguardo degli stranieri sul nostro Stivale non è mai mancato ed è auspicabile che non manchi mai. Mi pentirò, mi chiede? Ogni giorno, ogni santo minuto… ma, fin quando ci saranno prerequisiti minimi, per quanto mi riguarda varrà la pena rimanere da queste parti. A lottare, ciascuno nel suo microcosmo, perché l’Italia riparta».
Mariano Sabatini è nato e vive a Roma. Giornalista professionista, dagli anni Novanta ha scritto di costume, cultura e spettacoli per i maggiori quotidiani e periodici. Attualmente firma la rubrica di critica tv sul quotidiano Metro e sul portale TiscaliNotizie. Ha condotto rubriche su RadioRai, PlayRadio, Radio Capital. In passato è stato autore di programmi di successo: Tappeto Volante, Campionato di lingua italiana, Uno Mattina, Parola mia ed altri. Ha pubblicato La sostenibile leggerezza del cinema(ESI, 2001), Trucchi d’autore (Nutrimenti, 2005), Altri Trucchi d’autore(Nutrimenti, 2007), Ci metto la firma!(Aliberti, 2009).
Esce oggi in libreria Quando parla Gaber – Pensieri e provocazioni per l’Italia d’oggi, pubblicato da Chiarelettere. Il suo curatore, il fotografo e critico musicale,Guido Harari ne parla a Tempostretto.it.
Quando parla Gaber è un volume ricco di spunti e riflessioni sempre attuali che spaziano su diversi temi, dal sesso alla coppia, dall’omologazione culturale all’impegno politico: «Gaber – afferma Harari – rompeva ogni schema, ribaltava ogni certezza, poneva quesiti scomodi, sollevava dubbi feroci. L’accusa di qualunquismo, mossagli soprattutto dalla sinistra, era il segno di quella miopia che tutt’ora affligge la società italiana». Questo secondo volume, concentrato esclusivamente sul peso delle parole del Signor G., giunge dopo il successo riscontrato dal ricco volume fotografico Gaber. L’illogica utopia (pp. 320; €59), realizzato grazie ad una stretta collaborazione con la Fondazione Giorgio Gaber.
Al Salone del Libro di Torino, venerdì 13 (Sala Gialla, h21) verranno presentati entrambi i volumi nell’ambito dell’incontro Gaber. L’illogica utopia. Pensieri e provocazioni per l’Italia di oggi. Interverranno Guido Harari, Paolo Dal Bon, Cesare Vaciago, Giorgio Gallione, Luca Telese, con delle letture di Marzio Rossi.
”Gaber. L’illogica Utopia”. Un titolo significativo: perché lo ha scelto? «Ho voluto parafrasare il titolo di una bellissima canzone di Gaber e Sandro Luporini, L’illogica allegria. Il concetto di utopia era assolutamente centrale nella loro opera: esso rappresentava lo slancio vitale, la tensione morale, che sono, che devono essere, nel Dna stesso dell’uomo; l’unica vera garanzia di futuro di cui dispone. Quindi logicissima e cruciale utopia, ma purtroppo anche totalmente illogica nella deriva civile e democratica che ci soffoca».
Un altro volume ricchissimo di foto e documenti che giunge dopo quelli su Fabrizio De André, Fernanda Pivano e Mia Martini. Com’è nata l’idea di celebrare Gaber e come si è mosso per reperire tanto materiale inedito? «Viviamo un vuoto civile che Gaber, insieme a Pasolini e a pochi altri illuminati, aveva anticipato. Questo silenzio morale andava infranto. Di qui la “missione”, per me, di ridare la parola a Gaber. Ho creato così un percorso parallelo rispetto alla sua opera, andando a ricucire una specie di “autobiografia” ricavata da cinquant’anni di interviste, di registrazioni radiofoniche e di incontri col pubblico in teatro, di appunti e altro ancora. Come già nella Goccia di splendore, il libro dedicato a De André, non mi sono sostituito né sovrapposto alla viva voce dell’artista, ma ho inteso “fotografare” la dinamica, inquieta e eternamente in progress del suo pensiero. In questo sono stato aiutato oltre ogni immaginazione dal copioso archivio della Fondazione Giorgio Gaber, e da Dalia Gaberscik e Paolo Dal Bon, che ne sono il motore, a cui vanno la mia gratitudine e il mio affetto per la fiducia dimostrata e per il prezioso lavoro di editing condiviso assieme».
È interessante notare come Gaber oggi, non solo non ha perso importanza, anzi, continua ad essere un mito, un punto di riferimento della società civile. Ma qual è la sua forza, la sua unicità a suo avviso? «La forza di Gaber, e anche di Sandro Luporini, che per oltre trent’anni è stato quasi un fratello siamese per lui, firmando insieme a lui tutti gli spettacoli del Teatro Canzone e un’infinità di canzoni, è stata la sua preveggenza. Da un artista non ci si aspetta che colga la realtà in movimento, ma che la anticipi. Gaber rompeva ogni schema, ribaltava ogni certezza, poneva quesiti scomodi, sollevava dubbi feroci. L’accusa di qualunquismo, mossagli soprattutto dalla sinistra, era il segno di quella miopia che tutt’ora affligge la società italiana. Col senno di poi, leggendo oggi i suoi testi di venti o trent’anni fa e guardando in faccia la realtà in cui viviamo, non si può non rendersi conto della patetica afasia della politica italiana».
Al Salone di Torino, insieme a Paolo Dal Bon, Giorgio Gallione, Cesare Vaciago, Luca Telese e Marzio Rossi, presenterà, oltre a L’illogica utopia, anche il nuovissimo Quando parla Gaber, un volume radicalmente diverso dal precedente, incentrato più propriamente sull’aspetto civile del pensiero del Signor G. Di cosa si tratta? «Sì, non ci sono biografismo qui né canzonette. Il sottotitolo del libro è “Pensieri e provocazioni per l’Italia di oggi”. Un libro da usare come bisturi, per incidere la realtà quando, come scriveva Pasolini, “il fiume della storia ristagna”. Gaber si dichiarava “filosofo ignorante”: masticava Adorno e Marcuse, ma aveva il dono di rendere istantaneamente accessibile a chiunque un preciso progetto di coscienza civile e di etica nuova. In questa messe di brevi frammenti di testo in forma quasi aforistica, Gaber ci parla della politica, dello Stato, del Sessantotto e della sua “razza”, della libertà, dell’utopia rivoluzionaria, della cultura, della televisione, della famiglia, della coppia, della fede, della solidarietà, del declino della coscienza, della nevrosi infantile dell’umanità, della sconfitta del pensiero, della dittatura del mercato e degli oggetti, dell’omologazione culturale di pasoliniana memoria, della stupidità dilagante, fino al bilancio amaro della sua “generazione che ha perso”. Ma tocca sempre e solo a noi, ci dice Gaber, allontanare i fantasmi di un futuro senza rimedio, di un futuro senza Italia». Infine vorrei chiudere con un suo personale ricordo che la lega a Giorgio Gaber… «Gaber fa parte del mio Dna, fin da quando, ancora piccolo, lo vidi per la prima volta in tv. Erano gli anni Sessanta e nei suoi successi, fatti di ironia e melodie orecchiabili, già si insinuavano la coscienza civile e l’inderogabile “impegno” del futuro Teatro Canzone. Lo conobbi tardi, nei primi anni Ottanta, quando rilanciò lo storico duo con Enzo Jannacci. Poi seguirono diverse lunghe interviste e molte fotografie, in scena e fuori. Colpivano la sua infaticabile capacità di analisi, la sua curiosità per il punto di vista dell’altro, il desiderio di rompere ogni schema, di spostare il prossimo dai vicoli ciechi dell’ovvietà dogmatica. Sulla scena poi era un artista totale, che usava non solo la voce, ma ogni nervo, ogni muscolo, per raggiungere, coinvolgere e scuotere anche l’ultimo spettatore in fondo alla sala. Come lui, ne nasce uno solo al secolo, se va bene. Inutile dire che la sua mancanza si fa sentire sempre più ferocemente».
Guido Harari Nato al Cairo d’Egitto, nei primi anni Settanta avvia la duplice professione di fotografo e di critico musicale, contribuendo a porre le basi di un lavoro specialistico sino ad allora senza precedenti in Italia. Ha firmato copertine di dischi per Claudio Baglioni, Angelo Branduardi, Kate Bush, Vinicio Capossela, Paolo Conte, David Crosby, Pino Daniele, Bob Dylan, Ivano Fossati, BB King, Ute Lemper, Ligabue, Gianna Nannini, Michael Nyman, Luciano Pavarotti, PFM, Lou Reed, Vasco Rossi, Simple Minds e Frank Zappa, fotografato in chiave semiseria per una storica copertina de L’Uomo Vogue. È stato per vent’anni uno dei fotografi personali di Fabrizio De André. Ha al suo attivo numerose mostre e libri illustrati tra cui Fabrizio De André. E poi, il futuro (Mondadori, 2001), Strange Angels (2003), The Beat Goes On (con Fernanda Pivano, Mondadori, 2004), Vasco! (Edel, 2006), Wall Of Sound (2007) e Fabrizio De André. Una goccia di splendore (Rizzoli, 2007). Da tempo il suo raggio d’azione abbraccia anche l’immagine pubblicitaria e istituzionale, il reportage a sfondo sociale e il ritratto di moda.
Vorrei introdurre l’intervista ad Alessandro Bergonzoni senza usare le definizioni clichè quali “funambolo della parola”, “artista del monologo”, “creatore di cortocirtuiti cerebrali”. Preferisco definirlo con le sue stesse parole: «un comico surreale che ad un certo punto si è dovuto forzare per non voltare più lo sguardo altrove e ha cominciato a dire cose “politiche” sia per risvegliare le coscienze (a partire dagli asili) che per cercare – lui stesso – di capire».Difficile fare una sintesi di questa lunga intervista che mi ha concesso in esclusiva per “Satisfiction” perché ha toccato il tema del degrado morale imperante, il parallelo con Beppe Grillo, l’assenza di vergogna che si ritrova nell’”embè” di cui parla Antonio Padellaroe tanti altri temi attuali ma anche eterei come l’anima e quell’Oltre cui accennava già Terzani… Bergonzoni attacca duramente sia la tv e quei 6 milioni che guardano l’Isola e il Grande Fratello («violenza culturale») sia tutti quelli che si proclamano innocenti perché non guardano la tv, perché scrivono libri e fanno teatro. «Ma intanto, il problema è che intanto…»
Cominciamo dal video messaggio “Viva l’Italia, desta o assopita”. Qual è il miglior modo per commemorare l’Unità d’Italia secondo lei?
«C’è un sistema. Sicuramente cominciando a pensare che la nazione siamo noi e non l’Italia. Se facciamo sempre della geografia e delle categorie non arriviamo mai a considerare che noi abbiamo un governo, un parlamento e una Costituzione senza le quali è impossibile pensare ad un’unità d’Italia, senza le quali è impossibile pensare a nazioni o nozioni di libertà. Noi continuiamo a demandare, a delegare, noi votiamo ed eleggiamo qualcosa o qualcuno tutti i giorni quasi come se ci liberassimo d’un peso. Se non partiamo da qui arriveremo poco lontano».
Padellaro diceva che oggi prevale l’”embè”, non ci si stupisce più di nulla. Oggi c’è ancora il concetto di vergogna?
«Non esiste più perché i mezzi di distrazione di massa hanno fatto sì che tramite lo sport, la finta satira e sottolineo finta (ne esite una anche vera), tramite gli imitatori e il varietà siamo stati messi sotto. Siamo stratificati, ad un ultimo livello. Dobbiamo far saltare le alte cariche dello strato che ci copre. I Maya erano più avanti di noi, ma non perché erano superiori quanto perché noi siamo diventati inferiori coprendo tutti i sensi sociali e antropologici. L’”embè”, il “non mi interessa”, il “non mi tocca” è potenziato grazie a determinata televisione che non è innocua, grazie a determinati artisti che non artisti ma sono semplicemente passanti passeggeri, a determinati sportivi che non ci fanno passare il tempo ma ce lo distruggono. E allora Padellaro ha ragione dicendo che siamo forse dinnanzi alla mancanza di vergogna ma non è un tema solo etico o sociale o politico quanto antropologico, antroposofico, legato all’anima ma non nel senso delle religioni ma della spiritualità. Qui il problema è dell’Oltre, come dicevano già Terzani, Kandinskij e Leonardo Da Vinci ma la gente quando sente questi nomi dice “embè”?».
Lei afferma che chi guarda la tv è connivente delle “metastasi culturali”.
«Al 100%. Noi siamo preoccupati del buco dell’ozono, del fumo passivo, dei gas di scarico e dello slow-food ma i piatti culturali, i piatti di coscienza dai quali mangiamo ogni giorno sono pieni di parrucche. Siamo diventati sportatori di brodo, spostiamo il brodo dentro questi piatti dicendo “io mangio da questa parte” ma intanto la parrucca è dentro. Abbiamo piste di atterraggio cortissime dove i concetti di vita, morte, dignità e arte non possono atterrare perché chi detiene il potere, dunque il controllo, non lo permette. Dobbiamo capire che non c’entra la politica ma c’entra l’anima di un uomo, di una nazione, di un popolo, di un governo che ti taglia la potenza e ti fa dimenticare di reagire, di essere re dell’agire. La parte negativa politica della nostra nazione e di tante altre, è dovuta al non-studio del perché siamo giunti a questo punto. La devastazione dell’anima ci ha spinto ad interessarci solo del bisogno, della necessità, del controllo, del potere, dell’economia. Quando dimenticheremo queste tendenze negative forse ci sveglieremo e capiremo che possiamo arrivare ad un’altra politica ma non dobbiamo fare appello solo alle leggi e alla Costituzione perché sarà già tardi, le norme non bastano. Noi abbiamo una costituzione interiore cui dobbiamo far appello per capire cosa devasta un uomo sino a mettere un bambino nell’acido. La Mafia non è una questione solo politica o sociale ma tratta di anime, anime. La Chiesa che potrebbe spiegare questi fenomeni, è invischiata nel potere . Ho parlato di trascendenza e spiritualità perché l’arte può essere un mezzo per pulire, non punire, quello che spesso abbiamo schifosamente riempito con scorie».
Molti vanno a teatro per spensierarsi invece lei afferma che bisogna andare a teatro per pensare…
«Le Isole, i Grandi Fratello, i vari Darwin, le Pupe e i Secchioni sono atti di violenza come chi ti aspetta sotto casa per rubarti la borsa o ti ruba la pensione. E’ delinquenza culturale. Dicono “danni non ne fa” ma eticamente, umanamente, antropologicamente c’è un danno violentissimo. Pensare che il presentatore di “Ciao Darwin” sia andato al Salone del Libro di Torino per fare una lezione agli studenti sul concetto di memoria…è questo il progetto signori, noi ci scherziamo sopra ma questa è droga, è violenza che uccide culturalmente, uccide la trascendenza e l’energia degli esseri. C’è qualche pazzo che afferma che l’Italia reale è quella di chi guarda queste trasmissioni per cui a questo punto dobbiamo decidere perché se davvero questa è l’Italia reale allora dobbiamo fare la rivoluzione ma che sia violenta. Ma dato che non lo penso, mettiamo da parte la violenza e puntiamo al risveglio delle coscienze. Se ci fossero 6 milioni di delinquenti che guardano trasmissioni su furti e stupri ci saremmo già messi in moto ma dato che questi 6 milioni guardano quelle trasmissioni con corpi, seni, schiene e gambe cacciate in grande tritacarne pensiamo di salvarci dicendo “no io non li guardo”, “io scrivo libri”, “io faccio concerti”, “io vado solo al teatro”. Ma intanto. Il problema è “intanto”! Anch’io posso essere un montanaro che sta a 3000 metri di altezza e posso disinteressarmi dell’inquinamento cittadino. Ma intanto c’è chi inquina e fra 4 giorni, 4 anni, 4 secoli la mia montagna magari non ci sarà più. E’ una forza di distruzione culturale che sta nell’aria e alla fine arriva e fa danni. Calciatori che perdono ore per difendere gli ultrà, allenatori che parlano di sfide, coraggio, pianto e dolore…questa è droga! Sono stupri ai concetti e alle idee, siamo alla follia ormai. C’è un problema di danno antropologico, io credo che certi presentatori, sportivi e politici abbiano un problema clinico ancor prima che politico. C’è una devastazione di anime che continuo a raccontare ma faccio fatica perché la gente o la prende a ridere o ne fa una bandiera ma non lo analizza, non ci riflette su. La televisione dice in modo chiaro “mi raccomando non pensare, fai quello che dico io”. Se non pensi diventi uno strumento, questo sì che è un problema politico».
Anche tacere è connivenza…
«Non so chi, visto che sono un ignorante, ma qualcuno ha detto “il peccato non è fare del male ma non fare del bene”. Fare teatro, libri, concerti, spettacoli disinteressandosi del resto è omissione di soccorso. C’è qualcuno, qualcosa che muore ma spesso si è indifferenti. Il tema politico è solo la punta dell’iceberg, mi interessa occuparmi di cultura e ai politici di sinistra, purtroppo, la cultura interessa molto poco».
Flaiano diceva «la situazione è grave ma non seria». Dicono che se si arriverà all’elezione diretta del Capo dello Stato alla francese, l’unico candidato possibile contro Berlusconi dovrebbe essere Prodi. Non cambia nulla insomma?
«Qui il problema è diverso. Flaiano era un grande, lavorava sulla parola. Io dico che non ci arriveremo nemmeno a quel punto, è necessario che in questi anni si risolva questa situazione, non si può più procrastinare, non c’è più tempo per rimandare. Non è questione di pessimismo, dobbiamo cambiare necessariamente altrimenti fra dieci anni saremmo già sepolti a livello antropologico, umano».
Le piace se faccio un parallelo fra la sua maturazione artistica e quella di Grillo? Siete due comici quotati che hanno cominciato a dire cose “serie”.
«Grillo ha smesso di fare il comico, ora fa il comunicatore con grande bravura e pur se non condivido tutto, non esiterò a tornare in piazza con lui se servirà. Io non mollo, perché secondo me l’arte ha a che fare con la comunicazione, con la coscienza, con la comicità, con la filosofia, con la salute, con il dolore, con la creazione. Indubbiamente all’inizio ho dovuto forzarmi perché non mi consideravano “politico”, ero un comico surreale o metafisico. Credo di esserlo ancora ma adesso non me la sento più di voltarmi dall’altra parte, non posso più omettere il soccorso. Da tempo vado a parlare negli asili e lì dico sempre che non c’è solo un governo, una medicina, una legge, una religione, un’arte, una verità. Bisogna aprire gli occhi perché molta gente è paralizzata dalle tempie in sù. Molta gente, pur stando bene, ha intenzione di essere minorata nella coscienza e questo mi ha spinto a dire anche cose “politiche”. La mia strada e quella di Grillo si sono affiancate per questi motivi: io voglio cercare di capire e scuotere le coscienze, Grillo invece punta sulla denuncia per mettere fine alle cricche. Grillo non è un capo popolo come vorrebbero farci credere, lui è un sollecitatore, l’uomo per le “mine pro-uomo”».
E’ preoccupato dal paventato bavaglio all’informazione?
«Chi è che può permettersi di non preoccuparsi? Se non mi preoccupassi sarei un uomo dell’”embè”. Alcune persone hanno paura e per questo motivo vogliono mettere un bavaglio all’informazione. Ma se si riesce a trasmettere la paura si ottiene uno strumento forte per comandare, per dominare, per toglierci la libertà di pensare e la forza necessaria per agire».