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Il 2014 visto dal mio sito: tante interviste, le mie recensioni e la nascita del progetto @Stoleggendo

I folletti delle statistiche di WordPress.com hanno preparato un rapporto annuale 2014 per questo blog.

Ecco un estratto:

La sala concerti del teatro dell’opera di Sydney contiene 2.700 spettatori. Questo blog è stato visitato circa 33.000 volte in 2014. Se fosse un concerto al teatro dell’opera di Sydney, servirebbero circa 12 spettacoli con tutto esaurito per permettere a così tante persone di vederlo.

Clicca qui per vedere il rapporto completo.

Annarita Briganti racconta il suo romanzo d’esordio, “una piccola grande storia nell’Italia di oggi”.

Annarita Briganti (@Marina Alessi)

Annarita Briganti (@Marina Alessi)

«La mia vera ed unica ossessione è amare ed essere amata». La giornalista Annarita Briganti si racconta in una lunga intervista in occasione della pubblicazione del suo primo romanzo – della «sua creatura» – Non chiedermi come sei nata (Cairo editore) e trattandosi di una nota intervistatrice è molta la curiosità di trovarla, innanzitutto, dall’altra parte della barricata mediatica, a dover rispondere, piuttosto che a domandare.

Gioia Lieve è la protagonista/alter ego di Non chiedermi come sei nata ma si farebbe un gran torto se definissimo “leggero” il suo primo romanzo difatti, dopo un incipit bruciante (“Ho abortito dieci giorni fa”) la Briganti ci conduce per mano ma di corsa, nel turbinio esistenziale della sua protagonista cui la vita non offre alcun appiglio, né professionale né sentimentale.

Gioia Lieve viene dipinta come una delle principali protagoniste del precariato culturale italiano eppure è costretta a part-time di sussistenza pur di poter sopravvivere alla sua passione lavorativa e contestualmente, il suo partner, Uto, sembra fin troppo concentrato sul proprio Ego per poterle offrire un vero supporto emotivo in barba alle apparenze. Leggi il resto di questa voce

«Gli Stati Uniti? Sono una società razzista». Elizabeth Strout si racconta

Con la raccolta di racconti “Olive Kitteridge” vinse meritatamente il Premio Pulitzer – segno che negli USA diversamente che in Italia, le short stories sono davvero importanti – e dopo ben cinque anni di ricerca, la scrittrice Elizabeth Strout, ritorna in libreria con “I ragazzi Burgess”, edito da Fazi (pp. 448, Euro 18,50 trad. Silvia Castoldi). Qui la Strout sfoggia una prosa pungente e cristallina per raccontare le vicende dei tre ragazzi Burgess, ovvero il celebre avvocato, Jim, il malinconico  Bob e Susan, la sorella divorziata e madre di Zach che ha lanciato una testa di maiale in una moschea durante il Ramadan. Proprio le inspiegabili azioni di Zach spingeranno i tre fratelli a riunirsi e lentamente, ritrovandosi nel mondo rurale tanto caro alla Strout lontano dalla rarefazione degli affetti cittadina, emergeranno devastanti verità circa l’incidente che costò la vita del padre, segnando per sempre le loro esistenze. Ma la Strout non si limita a tratteggiare un grande affresco sulla solitudine che possiamo incontrare in ambito familiare; pagina dopo pagina, dona voce alla comunità somala che sta cercando di ricostruirsi una vita a Shirley Falls, nel Maine, fra l’indifferenza e il razzismo generale. Il risultato è un romanzo in cui il lavoro artigianale dell’autrice è visibile in ogni pagina, in ogni riga, in ogni singola parola. Non a caso Elizabeth Strout è considerata una delle voci della letteratura americana più sincere.

Questo libro è il frutto di diversi anni di ricerca e scrittura. Com’è nato l’intero progetto?

«La storia mi è arrivata lentamente, ma ho subito capito che avrebbe riguardato principalmente l’amore tra questi fratelli, una forma d’amore turbata e sconvolta dal passato comune. Ma mi è servito molto tempo perché ho dovuto intraprendere una vasta ricerca prima di cominciare a scrivere. Inoltre, dovevo capire come raccontare la storia. C’erano numerosi fattori che mi interessavano: come funziona la memoria, come affrontare il passato, come interagiamo con il trauma (e questo include come i somali, a loro volta, considerano i traumi) e il fatto che in  America c’è sempre la speranza che si possa reinventare la nostra vita, fuggendo dal passato».

Con “I Ragazzi Burgess” ritorna a Shirley Falls…

«Sì, ho fatto tappa alla città immaginaria di Shirley Falls, già apparsa sia nel primo che nel secondo romanzo. Mi piace l’idea di tornare allo stesso paesaggio, utilizzare lo stesso tessuto che ho intessuto per molti dei miei personaggi. In fondo è come una storia nella storia, al di là dei personaggi racconto anche questo luogo ha molto da raccontare sulla strada che stiamo percorrendo».

Ad esempio?

«Beh, rispetto agli altri romanzi quì sono scomparsi i mulini, non ci sono più, come nella maggior parte dei mulini nel New England. Anche i cambiamenti di un luogo, non solo quelli dei personaggi, possono dirci tanto dei tempi che viviamo».

L’episodio di Zach è tratto dalla realtà ma è interessante come lei lo abbia inserito in un contesto in cui è difficile dire chi siano buoni e cattivi…

«Sì, il fatto è realmente accaduto ma io ho provato a fare in modo che il giovane Zach fosse simpatico ai lettori, perché mi affascina l’ambiguità del comportamento umano. Ma ovviamente il suo è un gesto terribile che volevo anche condannare duramente. Volevo puntare l’attenzione sul fatto che Zach non riesce a capire davvero perché ciò che ha fatto è così dannoso, sia per se che per la comunità. Lui non conosce abbastanza il mondo per dare il giusto peso al suo agire e questo può essere molto pericoloso».

Accanto ai personaggi principali, con l’avanzare della narrazione, dona voce anche ai comprimari, caratterizzandoli. In particolare, aver narrato il punto di vista della comunità somala evidenzia un lavoro di ricerca molto interessante.

«Sentivo che era molto importante assumere il punto di vista di alcuni personaggi somali in modo che il lettore potesse comprendere in che modo, il gesto di Zach avesse colpito la loro comunità, vivendo le reazioni sulle persone interessate in modo diretto. Abdikarim è veramente angosciato per la morte del suo figlio maggiore, si sente vecchio, stanco e molto traumatizzato. Lui vede in Zach qualcuno che può – davvero inaspettatamente – amare. Mi sono serviti anni di ricerche per cercare di ricreare il punto di vista della realtà somala».

Parlando di Pam, della levità con cui spazza via le preoccupazioni, mi è venuta in mente la Daisy del Grande Gatsby. E’ un paragone azzardato?

«Penso che Pam sia probabilmente più intelligente della Daisy de “Il Grande Gatsby”. Lo dico perché hanno tempi narrativi diversi e di Daisy non si riesce ad essere certi di quanto sia realmente intelligente. Ma Pam era molto interessata alla scienza e alla ricerca tuttavia le mancava la fiducia nei suoi mezzi per andare avanti. Piuttosto ciò che rende veritiero il suo raffronto è il fatto  che entrambe queste donne sono molto inquiete e sembrano sempre alla ricerca di qualcosa di più di ciò che posseggono».

Tutto il libro viaggia sul confine fra tolleranza, convivenza e razzismo. L’America è un paese razzista oggi?

«Sì, gli Stati Uniti sono una società razzista. Mi fa male ammetterlo ma è assolutamente vero. Certo, è anche vero che abbiamo fatto grandi progressi, in particolare negli ultimi 50 anni ma il razzismo è ancora molto presente contro le popolazioni dalla pelle scura, contro gli ebrei e adesso anche contro i musulmani. Ciò detto, questo è un paese costruito sulle differenze e ci sono molti cittadini che dedicano le loro risorse per aiutare tutte le popolazioni. Come in ogni società ci sono infiniti problemi, ma negare il razzismo presente nella società americana sarebbe pericoloso, oltreché sbagliato».

Cosa significa per lei aver vinto il Premio Pulitzer?

«Ha significato tantissimo per me. Testimonia il mio apporto alla registrazione – mediante la letteratura – di un pezzo di America, utilizzando il linguaggio in un modo forte, capace di trasmette la storia ai lettori».

Francesco Musolino®

Fonte: La Gazzetta del Sud

Una chiacchierata con… Francesco Musolino (di Massimo Maugeri) – Settembre 2011

10636027_10204170285433916_8749674041356626951_nTra i nomi dei giovani giornalisti culturali siciliani, spicca quello del trentenne Francesco Musolino (nella foto), il quale può vantare al suo attivo svariate e fruttuose collaborazioni con giornali e magazine, tra cui StilosLeggere:Tutti, Satisfiction e il Corriere Nazionale. Inoltre collabora con Vogue.it. Per il quotidiano di Messina, Tempostretto.it e il settimanale siciliano Centonove cura le pagine di cultura e spettacolo e cura le rubriche dedicate ai libri.

Francesco Musolino, vive a Messina dove ha conseguito la laurea in Scienze Politiche con tesi sul pensiero di Ernst Jünger circa il progressivo dominio della tecnica sull’uomo dalla grecità ad oggi.

Il suo sito web èfrancescomusolino.com

Francesco, quando hai cominciato a interessarti di libri e letteratura?

«Il primo vero ricordo legato ai libri risale alla primavera del ’92 quando mia madre mi regalò “La Compagnia dei Celestini” di Stefano Benni, acquistato in una libreria romana. Nonostante i miei familiari fossero lettori voraci, sino a quel momento non avevo un buon rapporto con i libri ma quel romanzo, così fantasioso e originale, fece scattare la scintilla e da quel momento in poi i libri non solo fanno parte della mia vita, ma la rendono più ricca e profonda. Ben presto cominciai ad appuntare ai margini delle pagine, curiosità e domande rivolte allo scrittore che leggevo, fin quando passai una notte intera a chiedermi quale sarebbe stata la mia strada. Il mattino dopo mi misi in cerca di una testata online che reclutasse giovani collaboratori e solo qualche giorno dopo cominciai a scrivere per il giornale romano Gufetto.it. Era il 2006 e fu così che tutto cominciò».

Quali sono le maggiori difficoltà con cui, oggi, deve confrontarsi un giovane giornalista culturale siciliano per svolgere il suo lavoro?

«Partiamo in ordine alfabetico? Scherzo ma purtroppo gli ostacoli sono numerosi. In primo luogo bisogna fare i conti con gli stessi colleghi che troppo spesso giudicano con superficialità chi si occupa di quella che un tempo veniva chiamata “Terza Pagina” ovvero la pagina cultura per eccellenza. Nutro sincera stima per gli analisti economici o per gli editorialisti di politica ma sono convinto che saper porre le giuste domande ad un attore o cogliere l’essenza di un romanzo non sia affatto banale, anzi. Soprattutto bisogna fare i conti con buona parte degli editori che troppo spesso, pur avendone i mezzi, credono si possa non pagare – o sottopagare – chi si occupa di libri, cinema e spettacolo».

Hai mai pensato di emigrare per cercare “fortuna” lontano dalla Sicilia?

«Certamente. Da una parte è necessario sapere che bisogna sapersi spostare con facilità verso Roma, Milano e Torino, i maggiori centri culturali italiani, per respirarne le atmosfere e conoscerne gli attori principali. Ma vista una certa ritrosia del territorio, spesso penso quanto potrebbe essere diversa la mia vita e la mia professione se vivessi lì, a stretto contatto con l’ambiente di cui scrivo. Tuttavia mi piace pensare che sia possibile parlare e scrivere di cultura a Messina – e in generale nel Sud – facendo una vita serena e non precaria. Per questo continuo a seminare e ad impegnarmi al massimo nel mio lavoro, fra libri, mail, recensioni ed interviste. E se un giorno dovessi stancarmi…la valigia è sempre pronta».

Che consigli ti sentiresti di dare a un ragazzo che sogna di fare il giornalista culturale?

«Credo che l’importante sia impegnarsi giorno per giorno, lavorare sul proprio stile ispirandosi alle firme famose senza mai copiarle. Bisogna leggere moltissimo e non aver paura di muovere critiche anche a chi viene ritenuto, a torto o a ragione, intoccabile. E infine consiglierei di essere modesti ma al tempo stesso ambiziosi. In fin dei conti chi vorrà davvero fare il giornalista si renderà conto ben presto delle difficoltà del mestiere ma non potrà fare altrimenti che seguire la sua vocazione. Nella vita poche cose sono davvero importanti quanto un sogno che si realizza, soprattutto se si lotta per averlo».

Qual è stata la tua più grande soddisfazione nell’ambito dell’attività giornalistica che hai svolto finora?

«Ogni volta che mi viene inviato un libro, ogni volta che vengo contattato per propormi un’intervista o una recensione, ogni volta che vengo invitato ad un festival…mi sento sinceramente onorato. Sono attestati di stima che che raccolgo con grande piacere. Ho una vera passione per le interviste e mi ispiro tanto a quelle di Sabelli Fioretti che a quelle storiche della Paris Review. Grazie al mio mestiere ho avuto il piacere di realizzarne parecchie e fra queste spiccano certamente quelle ad Emir Kusturica, Carlo Lucarelli, Alessandro Bergonzoni, Oliver Stone, Dan Fante, David Foenkinos e Nanni Moretti. Ma ad essere sinceri credo che potenzialmente qualunque intervista possa serbare grandi sorprese».

Progetti per il futuro?

«Per fortuna sono tanti. In primo luogo ho ripreso il lavoro per le diverse testate con le quali collaboro e spero di seguire diversi festival letterari e cinematografici quest’anno. Inoltre per la “libreria Circolo Pickwick” di Messina, sto curando un palinsesto di presentazioni letterarie che partirà a fine settembre e si concluderà a dicembre per poi riprendere a gennaio. Parleremo di Mediterraneo e di libri legati al nostro mare e avremo il piacere di ospitare sia nomi celebri dell’editoria italiana che giovani talenti emergenti. Ma non saranno le classiche presentazioni letterarie poiché punteremo sul connubio che la letteratura sa tessere con la musica, le arti visive e persino il gusto.

Chissà forse il 2011 sarà l’anno giusto per rimettersi a scrivere. Ho composto due silloge di poesia ma non ho davvero cercato un editore perché il mercato italiano è troppo timoroso nei confronti della poesia e trovo che l’editoria a pagamento sia un detestabile ossimoro. Accanto alla mia passione per la poesia, ho in mente tre racconti e due romanzi che non aspettano altro che d’essere scritti. Vedremo».

Fonte: Letteratitudine del 4 settembre 2011 (e Terza Pagina)